Siamo diventati un po’ troppo “attivisti da divano” che hanno imparato ad usare il pc per sentirsi parte della comunità di cui fanno parte. Il progetto #numbers e Alessandro Rinaldi, fondatore del collettivo DMAV che ha curato l’iniziativa, hanno trovato il modo per tirarci giù dalle nostre comodissime poltrone e riportarci al centro del problema: le nostre città . Disagi, abbandoni, sprechi. Ad Udine l’estate è passata all’insegna dei colori della social art di #numbers, che ha permesso a tantissimi cittadini di riscoprire la propria città e partecipare attivamente a questa rinascita colorata. Un progetto che ha attirato l’attenzione di molti, non solo in Italia. Abbiamo quindi contattato telefonicamente proprio Alessandro Rinaldi per farci spiegare e raccontare questa esperienza.
Partiamo da una definizione del concetto di social art. Cosa significa per te, e per voi di DMAV, fare social art?
La social art è un modo di trovare ispirazione e fare arte da qualcosa che già c’è. In modo esclusivo partire dalla comunità , avendo però in mente una circolarità , ovvero dare forma a produzioni artistiche che abbiano un impatto sulla comunità stessa.
Quindi l’evento di Udine. Il progetto #numbers è partito il 1 ° luglio nelle strade, per poi arrivare due giorni dopo nel Museo Etnografico del Friuli, dove la mostra si è conclusa il 28 agosto…
Si, abbiamo fatto un lavoro preliminare a corta distanza proprio con la comunità , perché il modello di partecipazione di una comunità per noi è fondamentale. Prima di portare l’allestimento nel museo abbiamo presentato due diversi tipi di attività : la prima ha riguardato le performance, sempre legate al tema generale dei numeri del nostro tempo. Abbiamo scelto delle vie e delle piazze di Udine a volte poco note e, usando la musica, la danza, il teatro e il contatto anche fisico con lo spettatore, abbiamo intercettato le persone che si avvicinavano attratte dall’evento e che volevano fermarsi a parlare con noi. Una strada, Vicolo Sottomonte, la prima via illuminata di Udine, oggi disertata ma molto affascinante, quei giorni è stata inondata da numeri e colori. Numeri in generale e numeri per la comunità , un modo per attivare un pensiero critico. Oltre al lavoro delle performance abbiamo portato avanti un progetto di assemblee partecipate, incontri sulla partecipazione condivisa sempre in tema di arte pubblica.
Dal 3 luglio, invece, vi siete trasferiti al Museo Etnografico del Friuli. Cosa avevate preparato per il visitatore?
Al museo abbiamo portato tutto il materiale raccolto, quindi i video e una rilettura di tipo fotografico di Udine. Ci siamo addentrati in spazi alla deriva della città , cercando di inserire nel contesto trovato l’elemento umano. Un esempio può essere quando siamo entrati nell’ex Mattatoio, ora chiuso, uno spazio molto suggestivo con grandi potenzialità . Qui abbiamo introdotto i nostri performers. Azioni molto minimali, molto semplici, ma che danno l’idea che si può riattivare un processo di comunità , un processo relazionale con quel luogo. Con questo gioco, in cui le persone riconoscono dei luoghi che in fondo pensavano perduti e che rinascono con questa rilettura, reintroduciamo il discorso sulla città .
Nella descrizione della mostra si parla anche di istallazioni interattive, sempre in un’ottica di partecipazione attiva del visitatore. Di cosa si trattava?
Abbiamo costruito un computer, noi lo chiamiamo la numbers machine. Un’istallazione particolare. La consolle lavora sul numero semplice con una serie di domande legate allo sviluppo della città che noi rivolgiamo alla comunità . Questa consolle ti chiede di prendere una posizione. Le persone quando hanno una doppia scelta paradossalmente tendono a non scegliere. Noi invece volevamo riprodurre questa idea: oggi più che soffermarsi a meditare bisogna decidere, fare in prima persona. Con questa consolle abbiamo registrato gli impulsi di comunità . Un modo di chiudere il cerchio. Il concetto di social art, infatti, si completa nel processo di feedback. Se in una prima fase è arte sociale, perché prende spunti rilevanti per la comunità , cerca di riattivare la connessione tra la comunità e i suoi spazi, ad un certo punto, però, il fatto di essere arte sociale implica anche il fatto di produrre feedback, registrando le idee della comunità da lasciare all’amministrazione e alle imprese per attivare un progetto di rigenerazione costante.
E’ in programma la pubblicazione di questi risultati? Leggevo sempre dal sito del progetto, della pubblicazione di un volume a riguardo…
Assolutamente si. Abbiamo già stampato un catalogo artistico con le testimonianze degli stakeholders di settore e in prospettiva invece, nelle fasi successive di #numbers vorremmo costruire un volume che abbia proprio tutti i dati. Ma vogliamo prima fare altre tappe, in città che hanno richiesto di ospitare #numbers per offrire un’analisi più completa.
A proposito di stakeholder, quale è stata la reazione dell’amministrazione pubblica e delle realtà imprenditoriali della zona? Avete trovato il supporto che vi aspettavate?
Devo dire totalmente. Abbiamo svolto un lavoro preliminare con cui abbiamo ottenuto il patrocinio del Comune di Udine e la collaborazione dell’Università degli Studi di Udine e del gruppo di Giovani di Confindustria. Questa rete di collaborazione di partners ha sbloccato l’apertura e la disponibilità dei cittadini, ma anche molti servizi di facilitazione. Alcune librerie hanno messo a disposizione i propri spazi per le assemblee, altre aziende hanno offerto le loro sedi per l’esecuzione delle performance, altre ancora ci hanno permesso di utilizzare del materiale da fiera ottimo per le istallazioni, recuperando gli scarti industriali e innescando, quindi, un percorso virtuoso di gestione delle risorse.
E invece in termini di numeri, avete già avuto un riscontro sui risultati della mostra?
Non abbiamo ancora ricevuto i numeri ufficiali dal punto di vista contabile, ma quello che abbiamo potuto osservare è stato il grande afflusso, dovuto anche al fatto che il museo è molto bello e non cosìtanto raccontato. Quindi l’idea di portare l’arte contemporanea in un museo più tradizionale ha generato molta curiosità . Ci hanno chiesto di tornare ad Udine il prossimo anno.
Parlavi della richiesta da parte di altre città di ospitare #numbers. Quali sono i programmi per il futuro?
Abbiamo fatto questa prima esperienza ad Udine anche per un discorso di km0 e di sostenibilità . Ma l’eco che abbiamo avuto a livello di attenzione mediatica non solo locale, dal Sole24ore al Corriere Sociale, e di settore, come Artribune, è stato notevole. Abbiamo registrato manifestazioni di interesse anche da parte di altre città , nonché una richiesta specifica dei nostri primi partners di mettere su un ” cantiere ” che resti aperto e che funga da contenitore di idee di social art, ricerca sociale e rigenerazione urbana. Per questo il format è pronto per essere esportato in altre città . Abbiamo già in programma di portare questo tipo di esperienza a Napoli la prossima primavera. Abbiamo ricevuto una richiesta di collaborazione da parte del Museo dell’Immaginario Scientifico, una rete museale molto attiva in Friuli Venezia Giulia e che ha contatti con i musei della scienza in diverse città internazionali. L’idea è sempre quella di unire gli elementi di reinterpretazione di paesaggi alla deriva con le nostre performance, con la raccolta di numeri importanti per la comunità . E con questo format, questo progetto un po’ visionario, stimolare ” il fare ” , che coinvolge anche la comunità che ha sposato l’idea e ha contribuito a generarla. Cosìsi raggiunge un livello più alto di partecipazione.
Arriviamo a parlare un po’ di voi di DMAV. Come nasce il collettivo e come siete arrivati a #numbers?
Il collettivo è nato ufficialmente nel 2009. Prima del collettivo noi, come gruppo di formazione e di ricerca, esistiamo dal 1997 e abbiamo sempre lavorato sui processi di facilitazione dentro le organizzazioni e dentro le comunità . Il nostro interesse, quindi, è sempre stato rivolto a questa attività di supporto alla comunità . La nostra vena creativa però è rimasta limitata all’ambito formativo. Non ce la siamo sentita di dire qualcosa anche in ambito estetico fin quando non ci siamo sentiti pronti.
E quindi #numbers…
Quando è venuta fuori l’idea di portare l’arte in luoghi non convenzionali, a stretto contatto con la comunità , tenendo a mente più il coinvolgimento della stessa che l’abilità artistica per compiacere l’ego dell’artista, e quando, anche socialmente, i tempi sono diventati maturi per uscire fuori dalla rigidità procedurale, abbiamo dato il via a diversi progetti. Però è con #numbers che abbiamo trovato una formula che ci soddisfa anche politicamente. La nostra è una posizione di segno in termini di militanza nella visione sociale e politica. A noi interessa stimolare il pensiero critico e vogliamo sìfarlo nelle istituzioni rendendo pubblica l’arte – e quando l’arte diventa pubblica non puoi fare finta che non ci sia – ma anche stimolare la coscienza civile delle persone. Oggi siamo tutti attivisti da divano e abbiamo tutti una posizione. Noi con #numbers ci siamo chiesti cos’è che può davvero scuotere immediatamente una coscienza un po’ assopita. Il contatto con i numeri: dello spreco, della rigenerazione, dell’incompiuto. Ma anche i numeri dei progetti sociali che ci sono, ma sono sommersi. Insomma sono numeri che ci consentono di ricondurci a un senso di realtà per dire ” Ok mai io forse posso dare il mio contributo, posso fare qualcosa, posso far parte di questo algoritmo ” .
Quando si parla di coinvolgere le comunità , di attivare un certo tipo di partecipazione, a prescindere dall’aspetto sociale, o anche politico, il lato emotivo degli organizzatori è quello che troppe volte passa ingiustamente in secondo piano. Cosa ti ha lasciato questa esperienza o qual è stata la sensazione più bella che hai vissuto con #numbers?
Allestire le performance in piazze mai frequentate e vedere come lo spazio che si colorava e le sole prove tecniche attraessero gente che, pur vivendo ad Udine da tempo, non aveva mai fatto caso a quell’angolo di città . Ma anche la loro sorpresa che in uno spazio abbandonato cosìbrutto si potesse vedere qualcosa di cosìbello. E questo dal punto di vista del concetto di rigenerazione è fantastico. Anche perché, quando allestiamo le nostre performance in un teatro o in un museo, lo spettatore che arriva è preparato. Ma coglierlo di sorpresa con le buste della spesa in mano che riscopre la sua città questo è ” quello che voglio fare da grande ” . Un’emozione simile l’ho provata allestendo il Vicolo Sottomonte che al mattino si risveglia con questi colori ovunque, questi numeri dappertutto a terra e sulle pareti e gli abitanti ancora assonnati che entrano nella via e si chiedono stupefatti dove si trovino, cosa sia successo. L’ultima performance che abbiamo tenuto doveva essere all’interno del museo, ma la responsabile era talmente in sintonia con il progetto che ci ha obbligato a esibirci in strada, tra la gente. E’ proprio quel concetto di inclusione che ha animato il progetto.
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