Ricorre sempre più frequentemente l’uso dell’espressione “diritto delle città”. Si tratta di una locuzione davvero difficile da afferrare in prima battuta, perché verrebbe quasi spontaneo associare questo tema al diritto degli enti locali o al diritto urbanistico, ma in entrambi i casi sfuggirebbero i motivi di questa nuova espressione. E, in effetti, la sua coniazione prescinde da questi riferimenti.
Città come creature di comunità
Riprendendo la dicotomia utilizzata da uno studioso americano molti anni fa (G.E. Frug, The city as a legal concept, in Harvard Law Review, 1980, 93, 6, 1059 ss.) ridurre le città agli enti locali o al diritto urbanistico significa ricondurre le città a “creature degli stati”, entità cioè che svolgono funzioni in quanto conferite, delegate o attribuite dallo stato mediante atti puntuali di carattere normativo. In questo senso le città verrebbero assunte come organismi – certo complessi – chiamati ad assolvere funzioni pubbliche che collimano con gli interessi dello stato.
Quando si parla, però, di diritto delle città si intende altro e, secondo la bipartizione di Frug, le città dovrebbero essere considerate come libere associazioni di soggetti che si consociano nell’uso comune di un territorio conurbato che presenta una complessità di interessi. Le città, insomma, come “creature di comunità”. In questo senso le città sono viste sempre all’interno di ordinamenti più ampi che le comprendono, ma capaci anche di esprimere potenzialità che la prima accezione manifesta solo in modo parziale. In questo senso le città eserciterebbero un’autonomia che è innanzitutto normativa, la cui fonte è direttamente data dalla politicità degli interessi rappresentati sul territorio (Giannini).
Possiamo così dire che per diritto delle città si deve intendere quel complesso di regole che governano spazi urbanizzati la cui origine trova fonte nella rappresentanza della comunità che le istituzioni cittadine interpretano e nel diretto coinvolgimento delle organizzazioni o delle individualità della società civile.
Diritto creativo delle città
In questo modo le città non vengono evidenziate tanto come soggetti chiamati ad applicare la legge, quanto come soggetti capaci di creare diritto innovativo insieme alle realtà sociali che le animano. È un diritto che dipende poco dalle leggi e che invece è alimentato dall’incontro delle esperienze sociali autoprodotte con gli interessi generali che le istituzioni cittadine sono chiamate a preservare. A svolgere questa funzione di incontro è il principio di sussidiarietà orizzontale, come affermato dall’art. 118, c. 4, cost., che obbliga infatti le autorità pubbliche a favorire le autonome iniziative di cittadini, singoli e associati, rivolte a curare le attività di interesse generale. Il diritto delle città, così, risponde anche a un disegno costituzionale ben preciso che vuole disegnare gli ordinamenti giuridici non come esperienze chiuse o impermeabili a quelle sociali, ma aperte ad esse e capaci di delineare le condizioni che ne consentano l’emancipazione da meri fatti a elementi del diritto.
Dentro questa cornice vanno collocate quelle esperienze sociali che, pur originando al di fuori di un quadro di legalità, assumono rilievo perché agenti su spazi e beni che sono andati in disuso o si trovano in stato di abbandono al fine di riattivarne l’uso per finalità sociali: ne sono un esempio gli interventi per il decoro urbano, la gestione di spazi verdi lasciati in degrado, la rigenerazione di spazi ed edifici che hanno perso la loro destinazione originaria e altro ancora.
Tre modelli di diritto creativo
Rispetto a tutto questo si delineano tre modelli di reazione delle città.
Il primo è fondato sulla tolleranza, in cui cioè le istituzioni non si prefiggono l’obiettivo specifico di “recuperare” al diritto esperienze che originano al di fuori ma allo stesso tempo ne ammettono l’esistenza e ci convivono. Naturalmente nel momento in cui questo implicito riconoscimento si stabilisce è difficile che tale condizione di tolleranza resti a lungo tale: è probabile che prima o poi questa esperienza venga riassunta nell’ambito di una condizione di sostenibilità piena giuridica e a questo esito sono interessati tanto le istituzioni quanto le realtà sociali. Il caso recente di Roma con la sentenza della Corte di conti, commentata su questa Rivista, ne è un caso esemplare.
Il secondo modello è quello che si è affermato in modo particolare a Napoli, in cui le istituzioni cittadine hanno assunto delibere puntuali attraverso cui qualificare specifici beni, come beni a uso civico urbano. Con questa definizione originale è stata ammessa la possibilità a specifiche organizzazioni collettive di gestire certi beni per assicurarne una fruizione collettiva il cui contenuto e le cui modalità sono autodeterminate secondo metodi decisionali democratici. In questo senso l’intervento del comune è essenziale sia per qualificare in modo originale certi beni, sia per svolgere quella funzione di garanzia nei confronti della cittadinanza nel suo insieme sull’uso appropriato a fini pubblici dei beni oggetto delle delibere.
Il terzo modello, infine, è quello che ha avuto origine nel comune di Bologna nel 2014 e che fa uso dei patti di collaborazione stipulati dai comuni con i cittadini in esecuzione di appositi regolamenti comunali volti a disciplinare – per l’appunto – la collaborazione tra autorità locali e cittadini. Al centro di questi patti sono sempre beni e spazi urbani verso cui vi è l’impegno alla rigenerazione a fini generali, ma in questo caso lo strumento di raccordo con le istituzioni è realizzato con un accordo negoziale. La flessibilità dello strumento negoziale consente alle parti di produrre quel diritto creativo già citato, idoneo ad assolvere specifiche funzioni e non standardizzato.
In tutti questi casi siamo in presenza di reazioni delle istituzioni pubbliche che, di fronte al manifestarsi delle “zone franche” del diritto (A. Nieto, Critica della ragion giuridica, Milano, Giuffré, 2012, 223-224), non reagiscono applicando il comando legislativo, ma producendo nuovo diritto che coesiste con quello strettamente positivo. Si tratta di tre modelli molto diversi tra loro, che esprimono un grado di formalità che non cancella del tutto l’informalità ma con diversa però capacità anche di resistere alle esigenze di legalità che potrebbero essere sempre manifestate. Il primo modello è senz’altro il più precario, il secondo è puntiforme nel senso che richiede sempre una delibera del comune per la qualificazione specifica di certi beni, mentre il terzo ha l’ambizione di delineare una soluzione più strutturale. Sono modelli diversi, non necessariamente alternativi tra loro.
Le città come ecosistema
Tutti, però, permettono di individuare interessanti analogie a raffronto con i modelli biologici prevalenti. Si dà così origine a una sorta di organizzazione complessa di poteri e interessi che riflette più da vicino il mondo vegetale rispetto a quello animale: mentre, infatti, il secondo è fondato sulla centralità di alcuni organi vitali che permettono di assegnare una sorta di priorità gerarchica ai suoi componenti, il primo è fondato su moduli coesistenti e autoorganizzati in cui si trova una pluralità di centri autonomi e reciprocamente condizionati allo stesso tempo. In altre parole, il diritto delle città appare configurare un modello ecosistemico di centri auto-organizzati coesistenti ma tenuti insieme da una regia che ne permette di sfruttare al massimo i vantaggi per le collettività.
Dietro, tuttavia, queste potenzialità esistono anche alcune insidie che è bene tener presenti al fine di contenere alcuni rischi. Il rischio maggiore di questi sistemi è ovviamente produrre nuove esclusioni che possono essere date dalla disponibilità dei patrimoni, dalla cultura e dalla differente distribuzione delle conoscenze. Anche per questo il diritto delle città deve trovare forme di convivenza con il diritto più tradizionale, affinché le potenzialità di entrambi vengano messe a frutto pienamente.
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