Labsus rende omaggio a uno dei fari della partecipazione e della deliberazione come metodi per prendere decisioni che riguardano la collettività. Luigi Bobbio si è spento lo scorso ottobre ma ricca è l’eredità che ci lascia, a partire da un libro fresco di stampa edito da Mondadori su “Le politiche pubbliche. Problemi, soluzioni, incertezze, conflitti”, scritto insieme a Gianfranco Pomatto e Stefania Ravazzi, due suoi strettissimi collaboratori che abbiamo avuto l’onore di intervistare.
Qual è il vostro primo ricordo di Luigi Bobbio?
G.P. In uno degli ultimi esami dell’università c’era un suo libro opzionale che mi aveva proprio appassionato, sui conflitti nelle grandi opere e come affrontarli in modo più consensuale. In copertina c’era il profilo di lui come curatore e si parlava di un suo master sulle politiche pubbliche. Neolaureato decisi quindi di iscrivermi e lì lo conobbi: il migliore docente che avessi mai incontrato, era molto interattivo e sapeva appassionare. E durante quell’anno ho orientato la mia vita futura.
S.R. Io invece l’ho conosciuto come docente al primo anno di dottorato e lui aveva fatto alcune lezioni sulle politiche pubbliche: tutto nuovo per me. Ma il ricordo iniziale che mi è rimasto più impresso, il primo momento di sintonia reciproca fortissima, risale a una presentazione: è stato lì che ci siamo apprezzati reciprocamente per un aspetto del nostro carattere che era quello di rendere le cose semplici.
Cosa vi ha insegnato come studioso, a proposito della democrazia? Quali occhiali per guardare e interpretare la realtà vi ha insegnato a mettervi?
G.P. Innanzitutto ad essere curioso e aperto alle sperimentazioni, anche in tema di democrazia. Io devo dire che, se torno indietro di 15 anni, ero piuttosto diffidente sulla partecipazione dei cittadini comuni. Da Luigi ho imparato che si possono trovare modalità per allargare la partecipazione e allargarla veramente fino al cittadino comune senza perdersi nel populismo o in derive egoistiche oppure in prese di posizione che non hanno relazione con la realtà dei fatti. I suoi occhiali sono quelli di uno studioso attento a sperimentare e a lasciarsi stupire.
S.R. Aggiungerei una cosa che mi pare abbia detto anche lui pubblicamente varie volte e che mi colpiva sempre: sono sempre le piccole cose che sono rilevanti. Luigi Bobbio era molto interessato ai piccoli meccanismi e ai piccoli passi che potevano aiutare processi in corso d’opera. L’insegnamento è l’attenzione ai particolari e al dettaglio, a quelle cose che da un punto di vista esterno possono sembrare marginali ma in realtà in fondo fanno un po’ la differenza.
Qual era il suo concetto di partecipazione?
S.R. Luigi mescolava due aspetti che mi lasciavano sempre in dubbio: non aveva assolutamente una concezione militante della partecipazione (non era lo studioso che lotta per una causa o perché ci sia più partecipazione) e tuttavia era estremamente ottimista. Era qualcosa in cui credeva ma da cui cercava di mantenere il dovuto distacco, mescolando questi due aspetti.
G.P. Il suo fuoco era sulla formulazione delle decisioni, più che sulla decisione in sé. Spesso diceva che ciò che ci manca sono buone idee. Questo è ciò che ci manca di più, anche se è vero che mancano le risorse e abbiamo problemi economici e dei tagli, ma più di ogni altra cosa siamo spesso incapaci di formulare nuove idee per risolvere i problemi che ci affliggono. Il fatto è che ciascuno ha sempre una visione molto parziale della realtà. Quindi se si allarga la partecipazione – a persone però molto diverse – avremo tante visioni parziali ma se riescono ad interagire contribuiscono a costruire qualcosa di più completo.
Dalla democrazia partecipativa alla deliberativa: è corretto dire che per Luigi Bobbio al centro del processo stava la decisione (più dell’azione, ad esempio)?
S.R. Luigi era una delle pochissime persone che io ho conosciuto nella vita per cui la deliberazione viene spontanea: è sempre stato estremamente argomentativo. Giustificava in modo razionale e ragionevole le cose che diceva mentre io stessa e altri colleghi non abbiamo mai avuto questa dote, se mai ce la siamo costruita nel tempo. Quindi questo passaggio negli interessi di ricerca gli è derivato secondo me dal suo stesso carattere. Ha scritto tantissimi articoli accademici ma il testo “A più voci” è il più immediato e intuitivo, si capisce davvero qual è il metodo e fa incuriosire.
G.P. Rispetto al fatto che “Luigi è la deliberazione” vorrei aggiungere una cosa su come gestiva le riunioni di lavoro o anche nel rapporto con un allievo: io notavo che tendenzialmente non esprimeva la sua opinione in prima battuta, faceva prima esprimere gli altri e specialmente le persone più giovani. Faceva sempre attenzione a non influenzare con il suo parere o a non inibire la libertà di espressione di altri. Se poi tu dicevi una cosa che era esattamente quella che pensava lui, non ti dava ragione subito ma anzi ti sottoponeva a un interrogatorio. Voleva capire le tue argomentazioni ed evitare che gli si desse ragione senza costrutto.
Quali esperienze sul campo avete fatto insieme? Che tipo di braccio destro della politica era (se, secondo voi, lo era)?
S.R. Lo è stato sicuramente in quanto esperto di questo tipo di percorsi. Dagli episodi che ci raccontava non era mai stato interessato a entrare in politica. Ma io con lui ho fatto in gran parte esperienze di ricerca. Forse a questa domanda potrebbe rispondere meglio Jolanda Romano, con riferimento ad esempio a tutto il percorso di approvazione della legge toscana.
G.P. Nel suo ultimo articolo, pubblicato a luglio su “Partecipazione e conflitto”, dice: noi viviamo un’epoca in cui oscilliamo tra due polarità, entrambe insoddisfacenti. Una è la tecnocrazia e l’altra è il populismo. I processi deliberativi e partecipativi in fondo sono un tentativo di costruire una terza via tra queste due polarità. Lui dice “la terza via ibrida”, cioè che mette elementi di partecipazione come un tot di persone comuni, ma mette anche elementi di expertise e mette elementi di democrazia. Quindi di fronte alla società contemporanea forse lui pensava che questa fosse una modalità che quanto meno andrebbe esplorata maggiormente, visto che la situazione in cui viviamo è insoddisfacente.
Quali ricordate con più piacere e perché?
S.R. I processi sperimentali che abbiamo fatto sul campo… sia perché queste cose sono divertenti in sé, ma anche perché Luigi riusciva a reagire sempre al contesto in cui si trovava. Ho bellissimi ricordi della Biennale democrazia e degli esperimenti di giurie dei cittadini, oltre che quando andavamo con Avventura urbana di qua e di là ad accompagnarli a fare i percorsi. Poi ovviamente gli ultimi due anni in cui abbiamo lavorato tutti e tre a questo libro sono stati molto belli e più maturi, anche molto più alla pari per il modo in cui interagiva con noi.
G.P. Io in particolare ho avuto l’opportunità di seguirlo passo a passo dietro le quinte durante l’esperienza del dibattito pubblico di Genova. È stata un’esperienza molto intensa da tutti i punti di vista e anche dal punto di vista umano, perché lì non si trattava di gestire una giuria di cittadini di venti persone che non avevano il problema direttamente su di sé ma che ragionavano su una questione importante in maniera compassata, ma di interagire con persone che rischiavano di vedere la propria casa abbattuta e che spesso vivevano in condizioni non così soddisfacenti e in alcuni casi in edifici di pessima qualità.
Come vedeva il futuro della nostra vita di cittadini?
G.P. Secondo me era molto critico su quello che succedeva nel presente ma non era affatto nostalgico. Poteva dire “era diverso” ma un diverso che non era migliore, anzi per alcuni aspetti era peggiore. In termini dialettici faceva sempre osservare cosa ai tempi non c’era.
S.R. E’ vero: tutte le volte che nelle discussioni veniva fuori che una volta i partiti erano così e le associazioni così e questi percorsi così… lui ti diceva: “Non credo affatto, penso invece che le cose vadano oggi meglio che in passato”. Lo diceva sulla qualità dei politici, sul rimpicciolimento del ruolo dei partiti, sul ruolo dell’associazionismo e del terzo settore. Magari lo faceva anche in modo un po’ forzato; in fondo ognuno di noi si costruisce certe convinzioni.
Che carattere aveva Luigi Bobbio?
S.R. Era un osservatore appassionato ma non necessariamente passionale. Probabilmente riusciva a vedere delle cose che i passionali e gli emotivi nella concitazione non riescono a vedere. Non era ideologico. Reagiva in modo deciso ma non ho mai visto sbottare Luigi o perdere le staffe in modo incontrollato, se non a Genova…
G.P. Cosa era successo? C’erano stati dei cittadini comuni che avevano presentato delle loro controproposte senza far parte di nessuna associazione e nessun comitato e alcun partito, e lui li aveva invitati a presentare queste loro idee in assemblea. Ma quando l’assemblea li aveva aggrediti senza lasciar loro la possibilità di parlare lui lì ha messo un punto fermo. Disse “Qui tutti devono poter parlare, tutti hanno parlato, adesso fate parlare anche loro altrimenti io chiudo il dibattito qui”. Era un cinema pieno, c’erano circa duecento persone, molto calde, c’era molto rumore. Lui ha sbattuto il microfono sul tavolo e si è infilato la giacca, come per uscire. Ed è stato un punto di svolta perché allora hanno preso la parola i leader dei comitati presenti in sala, lo hanno fermato, tutti hanno fatto un intervento molto importante in cui hanno detto che fin dall’inizio erano stati molto critici e sospettosi rispetto al percorso ma riconoscevano che avevano avuto spazio e che la gestione era stata corretta, quindi aveva ragione lui, era tempo di ascoltare cosa diranno queste persone.
Ci sono aneddoti che vi fa piacere raccontare?
S.R. Durante il dottorato un nostro collega lo prendeva in giro perché gli diceva “tu sei quello dei tre concetti” e allora scherzando venne fuori che il suo motto – in relazione agli studenti che facevano le tesi come ai colleghi che scrivevano un libro – era che tutto era riassumibile in tre concetti chiave. Poi mi ricordo quando alzava la mano, di fronte a giovani baldanzosi per i risultati pazzeschi delle loro ricerche, e chiedeva: “Ma cosa c’è di nuovo? È un fenomeno che esiste da più di vent’anni…”. Oppure: “Tu dici questo ma in realtà non è vero perché…”. Insomma, riusciva a spiazzarti e al tempo stesso a darti uno spunto costruttivo.
Avevate mai parlato insieme del tema dell’amministrazione condivisa dei beni comuni?
G.P. Ne avevamo un po’ parlato in riferimento alla nostra esperienza di bilancio deliberativo, sulla gestione delle aree in chiave di amministrazione condivisa. Aveva espresso curiosità.
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