Il Comune di Gubbio ha adottato, con la deliberazione consiliare n. 43 del 5 aprile 2016, il regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani. L’aspetto che subito emerge da una prima lettura è la sua piena aderenza al modello bolognese, riprendendone i contenuti alla lettera per larghissima parte dell’articolato. Ciò appare emblematico, ancora una volta, dell’attitudine del suddetto testo, adottato a Bologna ormai quattro anni or sono, a fungere da paradigma per numerosi Comuni nella disciplina sui beni comuni urbani, nonostante le differenze dimensionali, geografiche e sociali fra i medesimi.
Poche sono le varianti rispetto al suddetto modello, nondimeno giova riepilogare quelle principali (al di là di meri adattamenti formali). Manca, per esempio, un richiamo alla distinzione dalle forme di sostegno economico ex art. 12 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (articolo 1). È altresì omessa una definizione di “reti civiche” e di “medium civico” (articolo 2), nonché la messa a disposizione di dati, spazi e infrastrutture riconducibili a queste due nozioni nell’ambito dell’innovazione digitale (articolo 9) e della comunicazione collaborativa (art. 28).
Nel definire le disposizioni di carattere procedurale, manca, comprensibilmente, il riferimento al ruolo dei Presidenti di Quartiere, vista l’assenza di organismi di decentramento (ex art. 17 del T.U.E.L.) nel Comune di Gubbio. In loro vece, la valutazione delle proposte di collaborazione è rimessa in toto alla valutazione tecnica “degli uffici e dei gestori dei servizi pubblici coinvolti” (articolo 11, comma 6), riprendendo pedissequamente, per il resto, le procedure tratteggiate dal regolamento bolognese. Non è poi menzionata la possibilità per il Comune di destinare a interventi di cura e riqualificazione i beni confiscati alla criminalità organizzata, a esso assegnati (articolo 16).
Piuttosto significativo, con riferimento alle forme di sostegno in capo all’Amministrazione, è l’esplicito richiamo alla totale gratuità delle prestazioni d’opera dei cittadini attivi, che chiarisce ulteriormente la natura del rapporto tra i proponenti dei patti e il Comune. D’altra parte, è sommario il richiamo alla concessione di agevolazioni nei regolamenti tributari comunali, riconducendo il tema alla previsione “eventualmente” (avverbio sintomatico di una caratterizzazione residuale) di finanziamenti ai progetti oggetto delle proposte di collaborazione, mentre sono incluse tutte le altre modalità di supporto (materiale, economico, burocratico e di riconoscimento) già riconosciute dal regolamento bolognese.
Manca, infine, qualsiasi disposizione transitoria o clausola interpretativa, ritenendo forse sufficiente l’esito di anni di implementazioni in realtà similari.
Orbene, la stretta aderenza del testo eugubino al regolamento bolognese, pur confermandone il successo, offre l’occasione per riprendere alcuni spunti critici sul modello in esame.
Anzitutto, il regolamento di Gubbio ribadisce la natura dei patti di collaborazione quali atti amministrativi non autoritativi, di cui all’art. 1, comma 1-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241. Una simile qualificazione, presente del resto in molti altri regolamenti comunali, non tiene conto del dibattito che c’è stato dopo l’approvazione del regolamento di Bologna del 2014. Essa, infatti, potrebbe indurre a confusione sia sulla natura rigorosamente non onerosa della collaborazione civica, sia sulla distinzione netta con altri istituti previsti invece dal Codice dei contratti pubblici, sia sull’applicabilità dei poteri di autotutela in capo all’Amministrazione, a fronte degli interessi generali in campo. Più appropriato, semmai, sarebbe un rimando alla disciplina degli accordi di cui all’art. 11 della legge 7 agosto 1990, n. 241, pur tenendo a mente le peculiarità del caso di specie: qui, del resto, l’accordo avviene “a monte” e non “a valle” rispetto alla dinamica procedimentale, né sarebbe possibile per l’Amministrazione procedere in via autoritativa in sua assenza.
Parimenti, il regolamento menziona varie categorie specifiche di patti, facendo riferimento agli spazi pubblici (con azioni di cura occasionale, di gestione condivisa o di rigenerazione), agli edifici, alla promozione dell’innovazione sociale e dei servizi collaborativi, alla promozione della creatività urbana e all’innovazione digitale (seppure quest’ultima figuri in maniera più limitata rispetto all’archetipo bolognese). Una categorizzazione così puntuale, tuttavia, potrebbe risultare superflua, sia perché sta al singolo patto definire in concreto la propria portata specifica, sia perché sovente i diversi campi di azione si trovano a essere combinanti e difficilmente distinguibili fra loro (ad esempio, tra la riqualificazione di beni materiali e la cura di beni immateriali).
Un approfondimento merita, infine, la previsione di interventi di cura e rigenerazione di edifici, di cui al Capo IV. Ancora una volta, l’adozione di tali patti è preordinata a un atto di Giunta, volto a individuare periodicamente gli edifici in stato di totale o parziale abbandono che si prestino a simili interventi. Potrebbe costituire, insomma, un aggravamento della procedura, che spesso ha pregiudicato l’adottabilità dello strumento pattizio per intervenire con efficacia nella rigenerazione di stabili dismessi, nonostante questa esigenza si riproponga di frequente in varie realtà comunali.
In conclusione, il regolamento eugubino si inserisce a piena titolo fra i regolamenti sorti sulla scia dell’esempio bolognese, a ulteriore riprova del grande successo di tale modello, sia nell’applicazione concreta sia come fonte di ispirazione altrui. Nondimeno, restano alcuni aspetti che, col tempo, si sono dimostrati meritevoli di un adattamento, se non di una revisione. A ciò, del resto, mira lo stesso lavoro di elaborazione condotto da Labsus, che già dal 2017 ha predisposto un prototipo regolamentare che fungesse da riferimento efficace e che superasse al contempo i suddetti limiti esposti.
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