Proponiamo per la sezione “Ricerche” la tesi di dottorato di Domenico Callipo dal titolo Aspetti amministrativi e tributari del Terzo Settore: evoluzioni e prospettive nel terzo millennio. L’autore accompagna e introduce la sua ricerca con un breve articolo per presentare ai nostri lettori il contenuto, le riflessioni e le finalità della sua ricerca, ponendo in evidenza la stretta relazione fra sussidiarietà orizzontale, diritti sociali e Terzo settore.
Introduzione dell’autore
Il lavoro di ricerca qui presentato si propone di analizzare il Terzo Settore e il nonprofit, concentrando la sua attenzione su alcune tematiche in particolare che presentano collegamenti con il diritto amministrativo, con il principio di sussidiarietà, presente nell’articolo 118 della Costituzione italiana, e con i beni comuni. E proprio l’articolo 118, ultimo comma non potrebbe essere letto senza tenere nella debita considerazione sia il termine che lo precede (sussidiarietà) sia quello che segue (beni comuni), dato che essi impattano giocoforza sui rapporti che vengono a instaurarsi tra la cosiddetta società civile e le istituzioni. Tale intreccio virtuoso consente ai cittadini attivi di manifestare pienamente tutto il loro potenziale, mettendo in campo risorse non indifferenti per riuscire a migliorare il sistema sociale nel suo complesso.
All’interno della società civile non a caso esistono già risposte ai bisogni espressi dalla collettività, di conseguenza i principi della collaborazione e della sussidiarietà consentono di capire quali potrebbero essere i comportamenti e le scelte più idonee da attuare. Ciò permetterebbe di mettere in campo delle azioni adeguate, eque e che riescano a far emergere le migliori risorse umane, espressione anche del ruolo che dovrebbe svolgere il Terzo Settore. L’approvazione della Legge costituzionale n° 3 del 2001 ha fatto così emergere, fra i condivigiuristi e non solo, alcune questioni in merito alla definizione e alla funzione della società civile. La nuova ridistribuzione degli ambiti di intervento, attribuiti a livello statale e regionale, ha infatti modificato non poco il principio di ripartizione delle competenze, attraverso un elenco di campi dove è lo Stato a dover intervenire, un altro dove vengono chiamate in causa esclusivamente le Regioni e un terzo nel quale le Regioni possono intervenire in maniera concorrente, attenendosi ai principi di base fissati dall’ordinamento statale.
Nuove forme di organizzazione istituzionale e sociale
Tuttavia, al di là della ripartizione delle competenze e della divisione degli ambiti di intervento, occorre evidenziare come, nel momento in cui sia indispensabile portare avanti l’esercizio di un’attività mirante alla conservazione dei diritti sociali, intesi nella loro accezione più ampia, unitamente alle funzioni che puntano a salvaguardare il benessere sociale, in termini di prestazioni di servizi oppure di preservazione di beni, quella che tende a emergere è la sussidiarietà orizzontale, sulla base dell’articolo 118 ultimo comma della Costituzione. La stessa Pubblica amministrazione è cambiata nel corso del tempo, per cui oggi sono i comuni a espletare la maggioranza delle funzioni amministrative. Ciò è ancora più evidente se si osservano gli orientamenti europei e si tengono presenti le numerose deroghe che attengono all’attribuzione delle competenze suddivise tra livelli diversi, nonché la permeabilità della stessa sussidiarietà orizzontale e verticale.
Una tale architettura istituzionale condurrebbe a un sistema “interconnesso”, fondato sulla cooperazione e focalizzato sul livello locale, in cui la Pubblica amministrazione non può più ignorare le intese e gli accordi siglati ai vari livelli, anche con la partecipazione dei privati, in ossequio alle logiche della sussidiarietà orizzontale. Ma, costretta a riconoscere tali connessioni spontanee, viene sollecitata a definire norme trasparenti in materia. La stessa giurisprudenza ha iniziato a interessarsi all’attuazione della sussidiarietà orizzontale in modo complessivo, ragion per cui quest’ultima verrebbe utilizzata come criterio tramite il quale definire esattamente la connessione tra la società civile e le istituzioni nelle loro suddivisioni di government. Un esempio proviene dalle decisioni n° 300 e n° 301 del 24 settembre del 2003, con cui si è stabilito che le fondazioni di origine bancaria possano operare a pieno titolo, quali soggetti in grado di influire sulle libertà sociali.
Sussidiarietà e benessere sociale
Il criterio della sussidiarietà, inoltre, è in grado di tenere nella giusta considerazione e in modo realistico la posizione dell’uomo nella società grazie alla visione della cosiddetta antropologia positiva. Attraverso questa prospettiva è possibile interpretare diversamente anche lo sviluppo storico del welfare state, avviato su basi sociali e non istituzionali e volto a garantire le libertà fondamentali e l’edificazione in ambito sociale.
Quello che appare evidente, in ogni caso, attiene al fatto che il comportamento della società non sempre è in linea con quello dello Stato, anche perché lo stesso Hobbes si è soffermato su una concezione specifica, ossia il cosiddetto “paternalismo” statale, dove, per l’appunto, è lo Stato che dovrebbe intervenire, sempre e comunque, alla stregua del buon padre di famiglia, in contrapposizione all’agire della società civile, dove sono i cittadini ad organizzarsi e ad autodeterminarsi. Di conseguenza, l’innovazione introdotta dall’articolo 118 ultimo comma della nostra Costituzione tende a superare questo stadio, puntando sull’attivismo delle formazioni sociali intermedie, rientranti pienamente in quella che oggi viene definita la società civile.
Beni comuni tra interessi collettivi, pubblici e privati
Un altro punto specifico su cui si sofferma la ricerca è quello dei beni comuni, a partire da alcune considerazioni di carattere generale rispetto a una certa sfiducia nei confronti della politica e ai fallimenti dello Stato; ragion per cui hanno cominciato a emergere quelle organizzazioni alternative sia all’attore pubblico sia a quello strettamente privato. Da questo punto di vista, anche l’austerità, propagandata a più riprese in ambito europeo, ha avuto un certo impatto. Tale politica infatti ha progressivamente eroso i margini dell’azione e del controllo democratici in ambito socio-economico, riducendo lo stesso afflato dei cittadini verso la costruzione di un’identità europea tout court.
Tale scenario ha fatto sì che emergesse in modo preponderante l’argomentazione dei beni comuni, per l’appunto gestiti dalle comunità locali, scavalcando sia logiche privatistiche sia pubbliche. Per questa ragione sarebbe indispensabile, in sede non soltanto europea, che si potesse prima o poi arrivare a una classificazione giuridica ed economica che definisse più chiaramente i beni comuni, come una categoria distinta sia da quelli pubblici sia da quelli privati. Altre due problematiche, di non poco conto, attengono sia alla gestione dei beni comuni medesimi, in termini di definizione esatta dei limiti territoriali e delle comunità di riferimento, sia alla regolamentazione dell’utilizzo degli stessi, anche in termini di risoluzione positiva dei conflitti scaturenti e delle sanzioni applicabili in caso di abuso nel loro impiego.
Un’azione integrata e coordinata?
Un simile quadro, dunque, potrebbe impattare sulle scelte che andrebbero a ricadere sui bene comuni; ragion per cui si potrebbe avere una sorta di azione integrata, coordinata e condivisa tra i decisori istituzionali, a livello nazionale e locale, e le collettività, che potenzialmente potrebbero cogestire con i primi i beni comuni medesimi. In virtù di quest’ultima considerazione, quindi, sarebbe necessario chiedersi se le comunità locali possano contare sul giusto mix fra partecipazione democratica, equità ed efficienza, che dovrebbe essere loro garantito, indipendentemente da tutto, in particolar modo per quanto attiene la conduzione dei beni comuni, da parte delle istituzioni presenti sui diversi territori.
Problematiche e prospettive
I problemi che potrebbero scaturire dalla (co)gestione dei beni comuni, non a caso, sono dunque da ricondursi nel solco del dibattito giuridico ed economico, in particolar modo per quanto riguarda le obbligazioni legate al welfare state. In altri termini si pone la questione delle modalità attraverso cui massimizzare l’uso dei beni e dei diritti fondamentali, assicurando questa stessa facoltà alle generazioni future senza incorrere nelle inefficienze e nelle ingiustizie che hanno portato a quella che viene oggi definita la “tragedia dei beni comuni”.
Al riguardo e sull’uso dei beni comuni, sono emerse nel corso del tempo alcune correnti di pensiero differenti, ossia quella iperliberista (per la quale questi ultimi sarebbero privati), quella cattolica e quella riformista (secondo le quali i beni predetti potrebbero avere un inquadramento tra il pubblico e il privato) e quelle alternative al capitalismo e al dualismo Stato-mercato (per le quali i beni in questione sarebbero in contrapposizione sia a quelli privati sia a quelli gestiti dallo Stato).
Una definizione univoca?
Una delle difficoltà maggiori attiene proprio alla definizione precisa dei beni comuni per differenti ragioni. La prima concerne l’assenza di univocità circa le caratteristiche che essi dovrebbero presentare. La seconda è inerente alle difficoltà che potrebbero presentarsi rispetto a un’eventuale assenza delle suddette caratteristiche. La terza infine riguarda il legame che dovrebbe venire a crearsi tra le peculiarità dei beni comuni, i regimi proprietari e la produzione, l’uso e la conservazione degli stessi.
In definitiva, per poter risolvere almeno in parte i dubbi che scaturiscono dall’esatta classificazione dei beni comuni – oltre a fornire un aiuto di non poco conto al dibattito creatosi nel corso degli anni, almeno in Italia – sarebbe forse utile una revisione della normativa concernente il demanio e il patrimonio che annovera i beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici. In questo quadro rientrerebbero il demanio e il patrimonio dello Stato, delle Province e dei Comuni, nonché degli enti ecclesiastici con una possibile ripartizione in tre macro categorie: quella dei beni pubblici, cioè i beni ad appartenenza pubblica necessaria, quella dei beni pubblici sociali e quella dei beni pubblici fruttiferi.
Conclusioni
Quanto esposto sopra, in definitiva, rappresenta anche uno degli obiettivi delle ricerche compiute nell’ambito del Terzo Settore, quello di evidenziare, cioè, il modo in cui gli enti e le organizzazioni che fanno parte di questo mondo affascinante, ma complesso, possano contribuire a migliorare la società del Terzo millennio, a partire proprio dai beni comuni.
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ALLEGATI (1):