Siamo lieti di presentare e ospitare nella sezione “Ricerche” la voce Diritti della natura di Michele Carducci, estratto dal Digesto delle Discipline Pubblicistiche, pubblicato da UTET e diretto da Rodolfo Sacco, a cura di Raffaele Bifulco, Alfonso Celotto e Marco Olivetti. Si tratta di un ricco e corposo compendio sulla relazione tra “natura” e “diritto” che si articola attraverso il discorso storico, filosofico e giuridico fino a definire la “natura come bene comune”. Il lemma è accompagnato da un’ampia sezione che presenta la bibliografia, la legislazione e la giurisprudenza principali.
Presentazione dell’autore
La natura ha diritti? E qual è il rapporto tra natura e democrazia? Queste domande sono relativamente recenti nel panorama comparato, ma non inedite nella storia del diritto ambientale e delle stesse Costituzioni (si pensi alla “Carta della Foresta” del 1217, a quella africana di “Kouroukanfouga” del 1222-1239, al dibattito nella seconda Convenzione francese del 1792, alla Costituzione di Haiti del 1805). Attualmente sia l’ONU che il preambolo dell’Accordo sul Clima di Parigi (in occasione di COP21) hanno fatto proprio il richiamo alla natura. In particolare, secondo le deliberazioni dell’Assemblea delle Nazioni Unite, la natura “ha diritti”. Il programma “UN Harmony with Nature” documenta questa nuova linea normativa, fornendo anche aggiornamenti su leggi e sentenze che, in giro per il mondo, affermano o riconoscono questo e lo legano o meno a pratiche e metodi democratici. Bisogna allora comprendere in che cosa possano consistere i “diritti della natura” e come si possa costruirne un nesso con i “metodi democratici” del governo umano.
Natura, diritti e tradizioni giuridiche
In sintesi, è opportuno puntare sulle seguenti osservazioni. Come scrisse Italo Calvino, ne “Le capre di Bikini” (1946), l’umanità del Novecento ha conosciuto le sue più profonde contraddizioni: negazione disumana della dignità umana; esaltazione universale dei diritti umani; de-umanizzazione dei diritti, in favore di “altro” (dalla tecnica agli animali: la commozione americana per le capre di Bikini uccise dalla sperimentazione atomica, non per i giapponesi sterminati dalle bombe). Heidegger parlò di un umano ormai definitivamente “separato” dalla realtà “senza mondo” (le cose) e dal vivente “povero di mondo” (animali e piante). Ma il Novecento ha tracciato anche, con le parole di Bobbio, l’“età dei diritti”. Insomma, dal Novecento il nuovo millennio ha ereditato complesse definizioni dei diritti, tra umanesimo, fiducia nella tecnica (che sfrutta la natura e manipola la vita), naturalismo che può arrivare a ignorare il differenziale culturale dell’umano rispetto a qualsiasi altro vivente (le capre di Bikini invece delle vittime di Hiroschima). Questo percorso, però, segna il culmine della cultura giuridica occidentale degli ultimi due secoli, quella che uno storico del diritto, Bernd Marquardt, ha definito “diritto costituzionale fossile”, perché fondato sullo sfruttamento delle risorse naturali esauribili, a fini di sviluppo di bisogni dell’umanità di contenuto materiale (trasporti, luce ecc…), considerati separati e persino prevalenti rispetto all’accesso ai bisogni naturali di sopravvivenza (mangiare, bere, respirare). Questa separazione (tra bisogni materiali e bisogni naturali) non solo è estranea ad altre culture giuridiche che si praticano nel mondo (si parla, con H.P. Glenn, di almeno cinque “tradizioni giuridiche” diverse da quella occidentale in termini ecologici), ma soprattutto è considerata causa di devastazioni naturali e ingiustizie sociali globali, tra Nord e Sud del Pianeta, proprio sul fronte della sopravvivenza umana. Il recente secondo ultimatum lanciato all’umanità da 15000 scienziati (World Scientists’ Warning to Humanity: A Second Notice 2017), focalizzato sul consumo ingiusto di risorse e servizi ecosistemici per i bisogni naturali, ne ha certificato la ineludibile rilevanza.
Natura e democrazia
Nonostante la denuncia di una simile situazione risalga già alla seconda metà del secolo scorso, solo ora, per la prima volta, l’ONU l’ha fatta propria, almeno come premessa metodologica dell’Agenda Globale 2030. In questa nuova visione, l’ONU parla di “diritti della natura”. Tuttavia, quali siano i “metodi” per concretizzare tali “diritti” non risulta ancora del tutto convergente nel panorama mondiale. “Diritti della natura” sembra significare: legittimazione ad agire in giudizio per rappresentare e tutelare interessi di sopravvivenza non solo umana ma di altri componenti viventi o vitali (la c.d. “azione di protezione” costituzionalizzata in alcuni Stati); istituzione di autorità indipendenti dalla politica e dagli interessi corporativi, composte da rappresentanti della società, della scienza, delle culture (lì dove esiste il pluralismo giuridico), con poteri di vigilanza e proposta nei confronti degli organi politici (c.d. “Agenzie di difesa della terra”); istituzionalizzazione dei rapporti tra università, organizzazioni non governative, associazioni territoriali e poteri locali, al fine di creare circoli virtuosi di conoscenza, discussione e condivisione di problemi e ricerca di soluzioni sul c.d. “sviluppo sostenibile” (per es. con le “Consulte”); recupero dei saperi contadini, coniugandoli con (non sacrificandoli a) le acquisizioni della scienza e della tecnica; pratica della c.d. “demodiversità” (la democrazia non è solo elezione e legittimazione alla decisione, ma condivisione di “metodi” in diversi ambiti riguardanti i bisogni vitali del bere, mangiare e respirare). È quest’ultimo il profilo più rilevante di tutti: il tema dei “diritti della natura” può abilitare nuove sperimentazioni democratiche eco-compatibili.
La “demodiversità”: origini e orientamento
Il termine “demodiversità”, del resto, nasce in America latina e Africa, proprio a seguito della insorgenza di bisogni connessi alla natura in un triplice significato: come tutela prioritaria e non negoziabile della salute di qualsiasi forma di vita rispetto soprattutto agli interessi economici di estrazione e sfruttamento fossile del suolo; come criterio di distribuzione delle competenze tra Stato ed enti territoriali, alternativo a, o integrativo di, quello del ritaglio per materie (si parla di “politiche integrate di sistema” con i viventi dei territori, prima ancora che con gli enti); come fonte di legittimazione del coinvolgimento diretto delle popolazioni locali in tutte le decisioni pubbliche sul futuro. Esso, in altri termini, nasce non come semplice ulteriore forma di partecipazione sussidiaria, bensì come condivisione diretta di due problemi specifici: la salute di tutto il vivente (diritto alla salute come interesse dell’ecosistema e non solo della collettività umana); la tematizzazione dei “diritti delle generazioni future” in termini di riduzione del “deficit ecologico” del Pianeta. In tal senso, le pratiche di “demodiversità” vanno oltre anche le tecniche delle “valutazioni di impatto” per la tutela ambientale, almeno per due ragioni: perché queste ultime continuano a fondarsi sulla differenziazione tra interessi umani e biodiversità (intesa quest’ultima solo come flora e fauna), funzionalizzando agli interessi economici la discussione sui bisogni vitali; perché esse, proprio per la suddetta separazione, presuppongono e accettano le “esternalità negative” degli interessi economici, traducendole in compensazione di costi e benefici di qualsiasi contenuto.
Una nuova frontiera metodologica e un nuovo approccio
Così impostata, la “demodiversità”, in quanto “metodo” dei diritti della natura, definisce una nuova frontiera metodologica del consenso informato per i trattamenti sulla salute. Se si condivide l’ecosistema come un insieme di soggetti viventi, in quanto tali titolari di diritti (appunto i “diritti della natura”), qualsiasi intervento su di esso equivale di fatto a una sorta di “trattamento”, che, incidendo sulla salute ecosistemica, richiede necessariamente un consenso informato dei soggetti viventi, secondo una logica di educazione-promozione-prevenzione per e su tutti i viventi.
Insomma, la “demodiversità” altro non rappresenta che il risvolto giuridico-costituzionale del c.d. “approccio ecosistemico” per la gestione delle biodiversità, inaugurato dalla Conferenza di Trondheim del 1999 e fondato su quel nesso di educazione-informazione-promozione-prevenzione (si v. i principi 2, 7 e 12 dell’“approccio” nel documento ENEA “Biodiversità. Risorse per lo sviluppo”, 2009), dagli ecologi reputato indispensabile per liberarsi dalla “tirannia delle piccole decisioni” (la formula si deve a William E. Odum, per denunciare come la somma globale di tante piccole decisioni istituzionali, divise per materie, competenze e sussidiarietà, non comporti di per sé la riduzione del “deficit ecologico” del Pianeta). In alcuni Stati extraeuropei, questo “approccio” è stato costituzionalizzato per garantirne una effettività preponderante su altri metodi di governo (in particolare in Ecuador e Bolivia, pur tra non poche difficoltà).
La situazione in Italia
In Europa, esso non ha ancora preso piede in modo particolarmente evidente sul piano costituzionale. Documenti come il “Green Paper on Citizen Science for Europe” del 2014 o il Regolamento europeo 347/2013, sull’utilizzo della “democrazia ambientale” della Convenzione di Aarhus nei PIC (Programmi di interesse comune europeo), ne assumono le premesse, ma non ne spiegano ancora le conseguenze sul come procedere rispetto alle forme di democrazia degli Stati membri (complice la clausola di “identità costituzionale” dell’art. 4.2 del Trattato UE). Anche in Italia se ne riscontrano meri cenni nella “Strategia nazionale della Biodiversità” del 2010 e nella c.d. “Carta di Siracusa” (Clima, economia, servizi ecosistemici, scienza e politica). Tra l’altro, se l’“approccio” non si è ancora concretizzato in innovazione istituzionale adeguata appunto ai problemi della biodiversità e del “deficit ecologico”, è soprattutto perché il concetto di biodiversità trova ancora declinazione come attributo del vivente non umano (ne offre un esempio, in Italia, la recente istituzione del “Registro degli alberi monumentali”, in cui il vivente vegetale non assurge a soggetto coprotagonista del governo dei territori).
La situazione in Germania
Solo in Germania si registra un’attenzione più significativa, ispirata alla c.d. “etica dell’evitare” di Hans Jonas (centrata sulla incentivazione normativa alla rinuncia allo spreco e all’egoismo di consumo di energia e di suolo) e alla c.d. Mittbestimmung della conversione ecologica, attraverso pratiche, pubbliche e private, di discussione e condivisione di decisioni eco-compatibili, basate sulla conoscenza-prevenzione nella biodiversità dei luoghi di vita (dai condomini, agli spazi urbani, alle campagne, alle fonti energetiche ecc.). Dopo gli eventi di Fukushima e la decisione politica di uscire dal nucleare, l’agenda politica tedesca ha recuperato risalenti questioni sul c.d. “Stato di diritto ecologico”: dalla necessità di discutere della “ragion pratica negativa” della vita presente, segnata dalla prognosi certa di un futuro problematico e negativo dal punto di vista ecologico; alla critica di Ulrich Beck verso la “irresponsabilità organizzata” (organisierte Unverantwortlichkeit) delle democrazie rappresentative, condizionate da un consenso interessato di breve periodo prevalente sulle esigenze strategiche dei “diritti delle generazioni future”; al fenomeno della c.d. “decomposizione dei diritti fondamentali” (Zerfall der Grundrechte), di cui la vicenda italiana dello stabilimento ILVA di Taranto e del suo c.d. “salvataggio” offre drammatica testimonianza (il bilanciamento dei diritti, compresi quelli di carattere economico e di profitto, descrive una risposta insufficiente e non risolutiva dei problemi ecologici della convivenza civile).
“Deficit ecologico” e le nuove frontiere del costituzionalismo
In definitiva, la “demodiversità” tenta di rispondere a domande inedite per il costituzionalismo. È possibile continuare a fare politica e discutere di istituzioni e decisioni, ignorando la irreversibile condizione di “deficit ecologico” della esistenza umana nel Pianeta? È possibile continuare a utilizzare la semantica del “conflitto” come chiave di lettura delle questioni offerte dallo scenario della “ragion pratica negativa”? O non bisogna piuttosto aprirsi a metodi di governo “multidimensionali” e “multisoggettivi” (comprensivi, cioè, delle esigenze di rispetto delle soggettività viventi non umane)?
Si pensi alla condizione contadina. L’ultimo rapporto del Gruppo ETC del 16 novembre 2017 (Who will feed us?), letto insieme ai dati di Grain (El gran robo del clima), certifica che il 70% della popolazione mondiale si nutre grazie alle reti contadine a piccola scala, composte da circa un miliardo e settecento milioni di persone. Nonostante il numero, i contadini dispongono di meno del 25% della terra, dell’acqua e dei combustibili usati in agricoltura, a causa delle grandi concentrazioni oligopolistiche dell’agro-business (non più di dieci corporation a livello globale) e del loro lobbying, disciplinato solo in pochi Stati (quindi operante in larga misura senza limiti di legalità, come attesta il fenomeno del Land Grabbing). Nel contempo, quel 70% evidenzia un nesso virtuoso tra pratiche contadine e sopravvivenza umana, di cui la democrazia rappresentativa non si fa carico.
Riflessioni conclusive
Provando allora a tracciare uno schema molto riassuntivo delle potenzialità della “demodiversità”, si potrebbe concludere con il richiamo ad alcuni suoi punti fermi: condivisione di priorità sui bisogni naturali di sopravvivenza, al di sopra degli interessi economici; consenso informato sulla salute come bene comune di tutto il vivente; politiche integrate a garanzia dell’eco-compatibilità di qualsiasi decisione; costruzione di agende politiche in logica “bottom-up”; pratica della “Citizen Science” e dell’indagine partecipata; coinvolgimento dei saperi “non esperti” (c.d. “scienza post-normale”); rifiuto delle pratiche di compensazione, per ridurre al minimo le esternalità; elaborazione di linee guida condivise tra pubblico e privato nelle attività produttive e regolative; modifica delle basi normative in funzione della biodiversità; informazione, educazione e discussione sulla “ragion pratica negativa” del “deficit ecologico” e sui “diritti delle future generazioni”. Ma questa via è percorribile a due condizioni: se ci si riconosce nell’esistenza dei “diritti della natura” come elementi costitutivi dei bisogni di sopravvivenza dell’essere umano; se si abbandona il primato di quel “diritto costituzionale fossile”, di cui il “deficit ecologico” rappresenta ormai la pesante eredità con cui fare i conti, oggi e domani.
La “demodiversità” nasce a seguito dell’insorgenza di bisogni connessi alla natura. La democrazia non è solo elezione e legittimazione alla decisione, ma condivisione di “metodi” in diversi ambiti riguardanti i bisogni vitali del bere, mangiare e respirare.
I Diritti della Natura, di Michele Carducci
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