Quattromila. È la cifra complessiva degli articoli pubblicati sul portale di Labsus, da dicembre 2007 ad oggi. Ancora più impressionante sarebbe forse l’elenco delle migliaia di persone che in questi quattromila articoli hanno letto la propria storia di cittadinanza attiva, o hanno trovato lo spazio per raccontarsi in prima persona.
La felicità si racconta male perché non ha parole. Sono storie che difficilmente fanno notizia, quelle su cui si concentra la nostra rivista. Non solo perché è più semplice descrivere sentimenti come odio, disprezzo, rassegnazione, rispetto a fiducia, solidarietà, collaborazione. Sono storie che difficilmente fanno notizia, perché i cittadini che si prendono direttamente cura dei beni comuni veicolano un messaggio non sempre intuitivo: alcune attività che possono essere svolte attraverso i patti di collaborazione possono infatti apparire come banali azioni di manutenzione. Quello che non si vede, è che le pratiche di sussidiarietà orizzontale sono in grado di riattivare ulteriori beni comuni, ovvero quelli che il sociologo Carlo Donolo definiva commons virtuali, come le conoscenze tacite, le motivazioni, le capacità individuali e relazionali, la fiducia. Sono beni cognitivi “invisibili”, eppure sono necessari per quei processi di apprendimento altrimenti destinati a rimanere latenti nella tradizionale relazione tra amministrazione pubblica e cittadino.
Le tantissime esperienze che in questi anni Labsus ha raccontato, le testimonianze di chi le ha vissute da protagonista, la realtà oggettiva dei beni che sono divenuti “comuni” grazie alla pratica condivisa, rivelano uno scenario tutt’altro che banale: composto dall’innesco di alleanze inedite, dall’emersione di energie latenti, dall’assunzione di responsabilità collettive. La cura condivisa dei beni comuni è una vera e propria palestra di apprendimento civico, come dimostrano “le pareti di una scuola elementare che rimangono pulite più a lungo, perché i bambini stessi hanno contribuito a dipingerle”, racconta spesso Gregorio Arena durante i suoi incontri.
L’obiettivo di Labsus non è solo quello di far conoscere queste storie, ma anche quello di metterle in connessione: di tradurre l’invisibile in qualcosa che possa essere sentito e visto da tutti, per poter essere appreso, condiviso, replicato, innovato. Una missione a sua volta difficile da comunicare, ma che nel tempo è riuscita a manifestarsi in modi diversi, utilizzando strumenti diversi, nel mondo digitale e nei territori, grazie a quella rete reale di persone che crede in un modo nuovo di essere cittadini: non più meri utenti, ma co-produttori dell’interesse generale.
Labsus, da redazione a rete complessa
Quattromila, dicevamo. Una cifra che però non dice nulla sul livello di eterogeneità e complessità dei contenuti: dalla rigenerazione di uno spazio abbandonato al commento di una storica pronuncia della Corte dei Conti; dall’analisi critica dei diversi regolamenti per l’amministrazione condivisa alle riflessioni di ampio respiro pubblicate come editoriali, Labsus paper o recensioni; dai retroscena di un singolo patto di collaborazione alle progettazioni sociali che prendono avvio sui territori, fino ai processi sovranazionali o alle politiche europee che a diverso titolo chiamano in causa la sussidiarietà. E potrei naturalmente continuare all’infinito. Una complessità che riconduco all’essenza stessa di Labsus, in continua evoluzione organizzativa soprattutto a partire dal 2014, ovvero da quando ha iniziato a promuovere il Regolamento e i patti di collaborazione come strumenti di innovazione socio-culturale, prima che amministrativa.
Da quel momento in poi Labsus non è più stata, o almeno non solo, una rivista online. Labsus è divenuta piuttosto una rete di persone e attori diversi: ricercatori, cittadini attivi (abitanti attivi, sarebbe meglio dire), funzionari e dirigenti pubblici, professionisti, creativi, comitati di quartiere, associazioni locali, cooperative sociali, organizzazioni di secondo livello e altri ancora. E tutto questo non poteva non avere riflessi su quella che è la “casa natale” di Labsus: il suo sito web. Se non siamo più solo una rivista, ma una rete riflessiva che abilita, diffonde, connette, la nostra casa deve essere in grado di assolvere a molteplici funzioni, andando oltre la raccolta e l’accoglienza di contenuti: in questo senso, labsus.org è forse più simile a una Casa di quartiere che a un’abitazione privata.
La potenza del racconto autentico
Riuscire ad assolvere contemporaneamente, in unica interfaccia, a queste funzioni (sito “vetrina” di una rete complessa, rivista divulgativa, archivio aperto di esperienze e riflessioni… e altro ancora), rispondere alle esigenze del policy maker esperto di rigenerazione urbana e del ricercatore universitario come a quelle di un abitante genericamente attratto dai nostri temi, essere efficaci sui differenti e intrecciati piani di comunicazione, implica lo sforzo di usare linguaggi, canali, strumenti diversi. La ristrutturazione del sito, appena iniziata, si muove in questa direzione (così come l’apertura di Instagram, illustrata da Giovanni Santini in un recente articolo): una nuova architettura delle informazioni che tenta di rispondere a differenti fabbisogni conoscitivi.
Il lavoro è stato lungo e non è certo terminato: dopo aver chiesto un certo numero di feedback ai nostri visitatori, abbiamo cercato di riordinare le informazioni, eliminare le ridondanze, facilitare le ricerche. Se è vero che la forza dei nostri contenuti deriva molto dalla sua capacità di tenere insieme la teoria e la pratica dei beni comuni, questa dialettica stupenda e irrinunciabile tra le due sfere produce anche una complessità notevole, difficile da gestire con risorse finanziarie limitate. Gli sforzi principali sono dunque andati nella direzione della riorganizzazione – posizionando ad esempio tutte le macro-categorie di contenuti in orizzontale e gerarchizzando in maniera più coerente le sotto-categorie – e della facilitazione: potenziando il motore di ricerca interno e inserendo una mappa che permette di trovare per ogni regione i patti e i regolamenti che abbiamo commentato, con l’idea di sviluppare ulteriormente questa piccola applicazione.
Ma la vera usabilità del portale non dipenderà solo dall’efficacia della nuova veste grafica. Siamo infatti convinti che i nostri racconti, commenti e riflessioni siano a loro volta di interesse generale: per tale ragione crediamo che tutti possano contribuire alla loro cura, con la pratica della condivisione.
Continuate quindi non solo a segnalare e proporre casi, ma a contribuire attivamente alla vita del nostro sito, inviando vostri racconti e materiali – come foto, video, riflessioni – utili ad assolvere alle molteplici funzioni della nostra casa, perché la redazione di Labsus siete anche voi. Il racconto autentico è uno strumento potente, una delle poche armi con cui possiamo ancora sperare di combattere le logiche facili del qualunquismo dilagante e dell’informazione mordi e fuggi. E nella dialettica viva dei beni comuni, le esternalità positive della condivisione possono essere, davvero, sorprendenti.
Cooperare per includere
Gli ultimi risultati elettorali hanno lanciato un messaggio chiaro anche a tutte quelle organizzazioni che promuovono la cultura della partecipazione, dell’inclusione, dell’innovazione sociale come motore di cambiamento. Un messaggio in qualche modo atteso e tuttavia sottostimato da molti, complice tra gli altri l’effetto distorsivo delle nostre “bacheche” virtuali e reali, apparentemente estese e aperte, ma di fatto riservate al nostro “giro” e difficilmente accessibili per quelle persone che non parlano già la “nostra lingua”. Sono quelle persone a cui non siamo capaci di spiegare che mestiere facciamo, quelle persone che non trovano risposte adeguate nelle nostre proposte culturali. Oppure a chi non riusciamo davvero ad arrivare, e perché?
Tutte quelle organizzazioni potrebbero forse dedicare del tempo in più alla conoscenza del mondo fuori dal proprio target, e confrontarsi in maniera non estemporanea con altre realtà che si attribuiscono lo stesso ruolo trasformativo in chiave culturale del Paese.
Alzare l’asticella della collaborazione credo sia una delle poche strade, non solo per uscire dall’autoreferenzialità diffusa, ma per immaginare geometrie complementari piuttosto che competitive: per raggiungere insieme quella “massa critica” senza la quale la condivisione fa fatica a generare delle esternalità che siano, davvero, positive e significative per tutti.
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