Dopo un lungo dibattito, iniziato nel febbraio del 2016 e finalmente nell’autunno del 2017, l’amministrazione comunale di Livorno ha varato il proprio Regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni urbani, elaborato a partire dal prototipo fornito da Labsus e incentrato sul tema del welfare generativo.
Il testo normativo che ne è scaturito, se da un lato è un’ulteriore conferma della validità del modello di riferimento, dall’altro fornisce anche interessanti spunti di riflessione su alcune disposizioni che hanno invece carattere autonomo e originale. Già nella prima parte del regolamento, quella relativa alle definizioni e ai principi, emerge chiaramente come la discussione che si è animata nella città di Livorno nella fase embrionale di elaborazione dell’atto abbia dato i suoi frutti. Il quadro teorico che è alla base del regolamento è stata compreso e interiorizzato dai livornesi, tanto che l’amministrazione condivisa viene correttamente interpretata come la condivisione, su un piano paritario, di risorse e responsabilità (art. 2, c. 1, lett. a) per alcune ampie ipotesi di attività (art. 1, c. 1) concernenti la cura, la rigenerazione, il recupero, la manutenzione, l’abbellimento e la valorizzazione dei beni comuni urbani.
I cittadini attivi, singoli e associati
La personalizzazione del Regolamento ha, però, portato anche a scelte meno convincenti, come quella di puntare principalmente sull’attivismo civico dei soggetti costituiti in forme associative, anche di natura informale, che per vocazione sono già di fatto impegnati a favore della comunità. La definizione fornita dall’art. 2, c. 1, lett. d, si presenta molto ricca e include dalle associazione ai comitati, dalle fondazione alle cooperative, dalle realtà del Terzo Settore agli organi di partecipazione democratica, ma finisce per trattare l’ipotesi del cittadini attivo singolo – che può comunque svolgere attività di amministrazione condivisa – come sostanzialmente marginale e residuale. Le ragioni potrebbero essere comprese solo in prima battuta, se legate – come si crede – alla necessità di garantire adeguata copertura assicurativa in osservanza del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro (i cui oneri ricadono sul legale rappresentate dell’ente associativo, ex art. 4). Ma sono, in definitiva, poco giustificabili alla luce della recente e importante sentenza della Corte dei Conti intervenuta proprio nell’autunno del 2017, che sposa l’ipotesi di una copertura a carica dell’ente comunale.
Obiettivo: Welfare generativo
Questa tensione a favore delle forme associative risponde, tuttavia, anche ad un’altra chiara ambizione del Regolamento livornese. Quella di porsi a contrafforte delle istituzioni democratiche, della partecipazione alla vita comunitaria, del senso civico in un’ottica di responsabilità collettiva. Non a caso viene enfatizzata la natura paritetica del rapporto tra amministrazione comunale e cittadini attivi (art. 3) e un’enfasi inusuale viene posta sul ruolo degli interessi privati, di cui i cittadini attivi sono portatori (art. 5). Inoltre, da un lato si richiama l’importanza di garantire la sostenibilità economica degli interventi attuati nell’ambito del Regolamento sui beni comuni, dall’altro viene anche stabilito – a chiare lettere – la natura non lucrativa delle attività svolte. Quest’anelito all’auto-responsabilizzazione – o, se si preferisce, all’empowerment – della comunità si riverbera poi anche nelle disposizioni che avanzano le istanze di un welfare generativo, il quale sollecita i soggetti destinatari dei sistemi di welfare, a realizzare azioni a vantaggio della collettività, in un’ottica di valorizzazione e condivisione circolare delle risorse iniettate nella società. A ulteriore conferma che, come sempre sostenuto da Labsus, i beni comuni – materiali e immateriali – sono quelli che “se arricchiti arricchiscono tutti e se impoveriti impoveriscono tutti”, welfare incluso.
ALLEGATI (1):