“Condividere con gli altri diritti, doveri e responsabilità attraverso le regole”: questa l’essenza della cultura della legalità per Umberto Postiglione, già prefetto di Palermo e commissario straordinario della Provincia di Roma, al vertice del Dipartimento per gli affari interni e territoriali del Viminale ma anche sindaco di Angri per due mandati. Per quasi tre anni ha guidato l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC). Oggi, da prefetto in pensione, è Commissario per la gestione provvisoria del Comune di Gioia del Colle su nomina del Prefetto di Bari.
L’importanza della formazione
Lo abbiamo voluto incontrare per farci raccontare, in particolare, la sua esperienza da direttore dell’ANBSC essendo, quello dei beni confiscati alla criminalità, un tema di particolare interesse per Labsus.
“Credo nel lavoro che svolgete: per innescare i processi serve non solo la buona volontà, non solo la partecipazione dei cittadini, quanto trasmettere agli stessi cittadini le conoscenze e le competenze per moltiplicare i risultati”, dichiara Postiglione. Gioia del Colle ha adottato il Regolamento comunale per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, seppur resta ad oggi un Regolamento poco attuato sul territorio comunale. Postiglione si dichiara però fiducioso e condivide l’entusiasmo di quei cittadini gioiesi che hanno costituito un comitato di quartiere (Comitato Quartiere Rinascita, zona 167): “Ho partecipato già a due incontri su invito, ho girato abbastanza il quartiere e prossimamente sarò di nuovo con loro per altre iniziative. Sarebbe interessante la gestione condivisa dei beni comuni, anche confiscati qualora disponibili, con il principio di sussidiarietà rafforzato dalla trasmissione di nuove competenze ai cittadini”.
I beni confiscati in cifre
Si tratta di un patrimonio di 18.270 immobili e 1.985 aziende che l’ANBSC ha in gestione, cioè beni sottoposti a confisca anche non definitiva, mentre per quelli già destinati parliamo di 14.099 immobili e 927 aziende. Nel 2017 sono stati destinati 2.411 immobili e 7 aziende (dati aggiornati al 18 agosto 2018, fonte ANBSC). L’82% dei beni destinati si trova nel Mezzogiorno: il 40% in Sicilia, quasi il 18% in Calabria, il 14% in Campania e l’11% in Puglia. Subito dopo le regioni meridionali troviamo la Lombardia, con quasi l’8% dei beni, a dimostrazione del fatto che le mafie, ormai, non hanno confine.
I beni immobili possono essere trasferiti al patrimonio del comune (in via prioritaria), della provincia o della regione dove sono ubicati, per finalità istituzionali o sociali. A loro volta, gli enti territoriali possono amministrare direttamente il bene, assegnarlo ai soggetti previsti dalla normativa (associazioni maggiormente rappresentative degli enti locali, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, centri di recupero e cura di tossicodipendenti, associazioni di protezione ambientale) o destinarli all’emergenza abitativa. Possono anche essere mantenuti nel patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, ordine pubblico, protezione civile e, ove idonei, anche per lo svolgimento di attività istituzionali da parte di amministrazioni statali, università, agenzie fiscali, enti pubblici e istituzioni culturali di rilevante interesse.
Le criticità nella gestione dei beni
“Quando ero direttore dell’Agenzia – racconta Postiglione – abbiamo consegnato al comune di Palermo più di 600 alloggi da assegnare alle famiglie in lista d’attesa per una casa popolare. Utilizzare i beni per rispondere al disagio abitativo nei grandi centri è quanto da me proposto e realizzato da direttore dell’Agenzia. Ora quegli alloggi non sono più solo simboli della lotta alla mafia, sono beni riutilizzati per risolvere i problemi di abitazione per le fasce più povere”. Ma quali sono i problemi relativi all’effettivo riutilizzo del bene confiscato? “Si aspettavano tutti da me che buttassi fuori dai beni confiscati gli ex proprietari, quando sarebbe bastato dare un ordine alla Polizia Giudiziaria per liberarli. L’atto della liberazione del bene dal vecchio proprietario è fondamentale per poterli poi riutilizzare a fine processo, che dura circa dieci anni per ottenere l’effettivo riutilizzo sociale del bene confiscato. Tuttavia, durante il mio mandato ho moltiplicato i beni confiscati e restituiti alla società: da 300 a 3mila. Ho potenziato il sistema informatico per la mappatura di tutti i beni confiscati in Italia, un sistema che è a disposizione, dietro registrazione sul sito, di tutti i possibili destinatari. Quel sistema è stato utilizzato in tutte le conferenze di servizi informatiche: una novità prevista dalla legge, nel 2016, per restituire il bene confiscato in trenta giorni”.
Le criticità restano tante, prima fra tutte la variabile tempo. Troppo quello che intercorre tra la confisca e il riutilizzo del bene, eppure era un rischio ben presente se già nella relazione parlamentare che ha istituito l’ANBSC è scritto “se non compressi drasticamente i tempi intercorrenti tra l’iniziale sequestro e la definitiva destinazione dei beni, si rischia di provocare una crisi irreversibile nel sistema di contrasto alle mafie, con patrimoni rilevanti destinati all’abbandono e al degrado con riflessi negativi per la credibilità e l’autorevolezza delle istituzioni”. Allora il tema all’ordine del giorno deve essere quello di costruire, sul tema dei beni confiscati, una nuova alleanza tra istituzioni e comunità capace di superare lo schema tradizionale e bipolare, applicando il modello dell’Amministrazione condivisa per integrare legalità, sviluppo e coesione sociale.
Qual è l’uso migliore che si può fare dei beni confiscati?
“Non amo molto vedere le foto in posa dopo la destinazione di un bene confiscato, se poi non si possiedono i mezzi per conseguire il fine. A mio avviso, anche per le finalità sociali dei beni confiscati alla criminalità si deve pensare sempre a chi ha le competenze, anche di formazione, affinché quel bene sottratto sia effettivamente utile alla comunità. Quel principio di sussidiarietà, di amministrazione condivisa che voi promuovete ha senso se la partecipazione dei cittadini, che è certamente utile perché l’amministrazione pubblica non ce la fa da sola ad amministrare questi beni, è accompagnata dalla conoscenza oltre che dalla buona volontà. La conoscenza chi ce la mette? Ecco, per me la conoscenza è fondamentale per i processi anche educativi. Io ho cercato di fare questo, ho promosso vari protocolli con i ministeri per giungere ad attivare accordi con gli organismi locali affinché vi fosse la migliore valorizzazione possibile dei beni confiscati”.
Postiglione fa l’esempio dei terreni agricoli confiscati, in particolare di una sua proposta quando era Direttore dell’Agenzia: “Parliamo sempre di come fare con i migranti che arrivano per mare sulle nostre terre, io dico insegniamo loro a coltivare i terreni difficili che sono in Sicilia, in Calabria, in Puglia – che non sono così diversi dai terreni che si trovano nell’Africa settentrionale. Il Cnr ha studiato nuovi meccanismi di irrigazione dei terreni cosiddetti difficili che possono essere utilizzati anche altrove, in altri Paesi. Insegniamo agli immigrati a utilizzare questi nuovi metodi agricoli, finanziamo queste attività con accordi bilaterali con la Tunisia, l’Algeria, il Marocco, la Libia. Non è una proposta a caso la mia, perché tra qualche anno ci ritroveremo con un fenomeno migratorio moltiplicato rispetto ai dati di oggi ed è un fenomeno che non possiamo fermare perché la fame ti porta a migrare, così com’è stato per il fenomeno dell’emigrazione italiana”.
Il paradigma dell’intelligenza e della furbizia
Questa idea potrebbe rappresentare una buona pratica di accoglienza, ma la nostra è “una nazione dove la furbizia ha preso il sopravvento sull’intelligenza”, dichiara Postiglione. “Quando prevale la furbizia sull’intelligenza quest’ultima muore perché scoraggiata. Noi dobbiamo stare sempre dalla parte dell’intelligenza che ci richiede programmi, progetti, tempi e attività per realizzarsi ma, soprattutto, dobbiamo stare lontani dalla furbizia. Pensate a degli operai che devono finire di costruire una casa e mettiamo che la sera, dopo aver dismesso i panni degli infaticabili lavoratori, subiscano un furto ai marmi, la sera dopo alla rubinetteria, quella dopo ancora agli attrezzi: come la finiscono di costruire questa casa? Questo paradigma vale per tutti i settori, soprattutto per l’amministrazione pubblica, dove tanti fingono di essere quello che dovrebbero essere, ma non lo sono”.
Postiglione si dichiara soddisfatto del lavoro svolto negli ultimi anni, pur realizzato nella precarietà nella quale l’Agenzia è costretta a sopravvivere. Ci vuole coraggio, chiediamo, per governare un territorio controllato dalla criminalità organizzata e, nello stesso tempo, svolgere il delicato ruolo di promotore della legalità? “Io non lo chiamerei coraggio, per me compiere determinati compiti orientati a certi obiettivi è la bussola che dovrebbe orientare ognuno di noi nel proprio operato pubblico, altrimenti saremmo tutti speculatori in attesa di allungare la mano al primo soldo che ci passa davanti”.
La legalità percepita
Ci racconta che nella sua lunga esperienza ha spesso cercato di incontrare i bambini nelle scuole per rigenerarsi, per trovare nuove energie e rimettersi al lavoro dopo aver conversato di legalità con i più piccoli.
“In tutta la mia esperienza ho maturato il concetto della legalità percepita, che non è organizzare incontri per discutere ore e giorni interi sul tema della legalità con un pubblico che magari ne è già arricchito. Io preferisco partecipare agli incontri sulla legalità quando sono presenti i cittadini che appartengono alle fasce più deboli, per riflettere insieme sullo Stato, sugli Ordinamenti e sui rapporti normati che servono proprio a evitare ogni forma di violenza e abbruttimento del Paese. Io andavo nelle scuole e parlavo con i ragazzi per costruire insieme una storia condivisa sulla legalità e renderla effettivamente percepibile. Mi capitò una volta con bambini di quinta elementare, quando mi resi conti che i discorsi degli adulti non li rendevano partecipi. Decisi di alzarmi per ridurre la distanza dello spazio che ci divideva e cominciai a chiamare qualcuno di loro per rappresentare insieme dei personaggi e costruire una storia. Durante il racconto, in base ai protagonisti della storia, chiamavo qualche bambino e qualche bambina dal pubblico e insieme rappresentavamo delle scene e si avviava una riflessione su alcuni concetti. In quel caso furono tutti in grado di uscire dal proprio io, dal proprio egoismo, per condividere con gli altri diritti, doveri e responsabilità attraverso le regole. La norma, la regola serve a questo: iniziamo dalle semplici regole, spiegate e raccontate, per far capire agli alunni quanto sia importante il loro rispetto per il bene comune”.