Con il parere n. 2052/2018 il Consiglio di Stato in sede consultiva si è espresso sulla compatibilità degli istituti della co-programmazione, co-progettazione, accreditamento e delle convenzioni previsti dagli artt. 55 e ss. del Codice del Terzo Settore con la normativa vigente in tema di contratti pubblici, manifestando criticità considerate non superabili se non in peculiari e specifiche applicazioni, tali da frustrare, se non addirittura cancellare, l’effettiva portata innovativa di tali istituti.
La richiesta di parere dell’ANAC
Il provvedimento consultivo emesso dal Consiglio di Stato deriva dalla esplicita richiesta avanzata dall’Anac, che aveva manifestato dubbi interpretativi in merito alla disciplina applicabile per gli affidamenti di servizi sociali, alla luce della regolamentazione degli appalti di servizi sociali prevista dal Codice dei contratti pubblici e della manifestata preoccupazione di coordinare tali previsioni con gli innovativi istituti proposti dal d.lgs. n. 117/2017.
Pertanto, nell’ambito del più generale fine di predisporre il Piano Nazionale Anticorruzione 2018, l’Autorità garante ha indicato la necessità di provvedere all’adeguamento delle “Linee guida per l’affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali”, emanate precedentemente all’approvazione del Codice del Terzo Settore (e dello stesso Codice dei contratti pubblici attualmente vigente), chiedendo al Consiglio di Stato di verificare alcune potenziali criticità.
Il parere del Consiglio di Stato lungo le direttrici del principio pro-concorrenziali e della gratuità
Sollecitato su tale (in)compatibilità, il Consiglio di Stato si è preoccupato di enucleare la normativa vigente nell’ambito degli appalti pubblici, con particolare riferimento agli affidamenti di servizi sociali, per poi soffermarsi sulla descrizione degli istituti oggetto di potenziale contrasto.
Viene ricordato l’approccio imposto dal diritto comunitario nell’ambito dei contratti pubblici, informato ai criteri ordinatori di matrice europea con particolare rilievo al principio pro-concorrenziale.
Ancora, si sottolinea l’accezione funzionale propugnata in campo europeo per definire i concetti di “impresa” ed “appalto pubblico”, nonché l’importanza della qualifica di un servizio quale “economico” o “gratuito” al fine di veder applicate le disposizioni dei Contratti pubblici nel settore dei servizi sociali: solamente l’affidamento di un servizio sociale mediante una procedura non selettiva ovvero a titolo “integralmente gratuito” potrebbe non esser soggetto alla disciplina euro-unitaria in tema di appalto pubblico (che comunque prevede alcune “semplificazioni” relative alla tipologia di servizio sociale proposta e al valore dello stesso).
Le direttrici del carattere selettivo, quale negazione del principio concorrenziale comunitario, e della gratuità circoscrivono così la portata dei nuovi istituti proposta dal Consiglio di Stato.
A valle di tale ragionamento, plurime appaiono le delimitazioni proposte: l’accreditamento risulta compatibile con il diritto europeo solamente laddove sia aperto a tutte le compagini sociali, privo di alcun carattere selettivo, risolvendosi “in una sorta di abilitazione”; ancora più critici appaiono gli istituti della co-programmazione e del conseguente rapporto di partenariato previsto dall’art. 55, comma 4, in quanto risulterebbero compatibili con il diritto euro-unitario solamente laddove venga rispettato il principio di gratuità enucleato dallo stesso Consiglio di Stato. Viene peraltro sottolineata l’ulteriore problematica di carattere coordinativo che incontrerebbe la nuova formulazione dell’istituto della co-progettazione: già prevista nel nostro ordinamento per la realizzazione di “interventi innovativi e sperimentali” ai sensi dell’art. 7 del D.p.c.m. 30 marzo 2001 attuativo della legge n. 328/200, la nuova disciplina prevista dall’art. 55, comma 2 ne prevede un utilizzo generalizzato, non più vincolato a tali interventi di carattere eccezionale.
Infine, un discorso a parte viene dedicato alle convenzioni, dove l’istituto viene interamente demolito: la clausola di apertura prevista dall’art. 56 del d.lgs. n. 117/2017 che ammette il ricorso alle convenzioni “se più favorevoli al mercato” presupporrebbe l’applicazione dell’istituto in settori di mercato e, pertanto, l’economicità del servizio; stipulare una convenzione con un ente del Terzo Settore in un ambito che risulta aperto al mercato determinerebbe una condizione che si porrebbe in contrasto con il principio pro-concorrenziale comunitario, con conseguente inapplicabilità pressoché totale dell’istituto (salvo in specifici settori aventi un particolare regime connesso alla peculiarità del servizio prestato, quale quello di trasporto sanitario di emergenza e urgenza), ontologicamente inidoneo a presentare i caratteri della “gratuità” come ricostruiti dal Consiglio di Stato.
Il concetto di gratuità elaborato dal Consiglio
La nozione di gratuità propugnata dal Consiglio di Stato si basa su un’interpretazione particolarmente restrittiva, strettamente connessa al concetto di “non economicità”.
Per il Consiglio di Stato, infatti, “la effettiva gratuità si risolve contenutisticamente in non economicità del servizio poiché gestito, sotto un profilo di costi e benefici, necessariamente in perdita per il prestatore”.
Il mancato equilibrio tra costi e ricavi non basta però ad affermare con certezza la gratuità del servizio, essendo necessario indagare le singole voci oggetto di rimborso per il servizio prestato: solamente il rimborso spese a pie’ di lista, documentato e non forfettario, può esser compatibile con la gratuità della prestazione di un servizio, escludendo qualsiasi forma potenzialmente riconducibile ad una remunerazione anche indiretta. Ancora, anche la copertura assicurativa a carico dell’Amministrazione nell’ambito delle convenzioni ex art. 56 CTS sarebbe perlomeno di dubbia ammissibilità.
Tale ricostruzione porterebbe ad escludere a monte qualsiasi gratuità delle convenzioni ex art. 56 del CTS, in quanto la copertura assicurativa è prevista a carico dell’Amministrazione stipulante per espressa disposizione normativa ex art. 18 CTS.
Solo al ricorrere di tale caratteristiche il servizio “non è reso dal mercato, anzi è fuori dal mercato” e quindi può esser effettuato attraverso l’applicazione degli istituti del CTS. Come se non bastasse, anche in tale scenario, molto ristretto, sorgerebbe un ulteriore ostacolo per l’Amministrazione, consistente in uno stringente obbligo motivazionale: l’Amministrazione procedente dovrà giustificare perché, in un potenziale mercato, abbia prescelto di ricorrere a una procedura di tipo gratuito, rea di tagliare fuori “ex antegli operatori economici tesi a perseguire un profitto”, creando così “un vulnusal meccanismo del libero mercato”.
Il commento
Occorre premettere che il Parere della Commissione del Consiglio di Stato, per quanto autorevole, si presta a plurime analisi e presenta potenziali criticità, connesse alle diverse censure mosse dallo stesso Consiglio di Stato che conviene analizzare autonomamente.
La compatibilità con i principi comunitari
Uno dei primari aspetti critici sottolineati dalla Commissione riguarda l’asserito contrasto con il principio euro-unitario della concorrenza.
Come noto, si tratta di uno dei principi di primaria importanza nell’ambito della normazione europea, e soprattutto nel settore degli appalti pubblici, ancorché non l’unico: la disciplina comunitaria è ispirata ad altri principi quali la parità di trattamento, la trasparenza, la semplificazione solo per citarne alcuni, ed anche al principio di sussidiarietà, sebbene enucleato principalmente (ma non esclusivamente) nella sua dimensione verticale.
Appare invece chiaro come il Consiglio di Stato abbia valorizzato il solo principio di concorrenza, tralasciando o comunque mantenendo in secondo piano gli ulteriori principi di origine comunitaria, peraltro in un settore, come quello sociale, che di certo non mira (rectius dovrebbe mirare) a valorizzare la dimensione economico-concorrenziale.
Viene così fuori quello che appare essere il “peccato originale” a monte del parere: il Consiglio di Stato analizza le potenziali criticità degli istituti predisposti per realizzare la collaborazione tra Stato ed enti del Terzo Settore dall’angolo visuale dei contratti pubblici, mettendo in risalto le settoriali caratteristiche e regolamentazioni, a discapito delle peculiarità del Terzo Settore, a cui invece è dedicato l’apparato codicistico su cui il Consiglio è stato chiamato a pronunciarsi.
In altri termini, il Consiglio di Stato sembra voler seguire a tutti i costi un ragionamento tipicamente contrattual-pubblicistico, ordinario ambito su cui è solito esprimersi, sottacendo qualsiasi valutazione della dimensione collaborativa che ispira gli istituti analizzati; un vestito che in realtà non può modellarsi perfettamente sul corpo del settore sociale, che risponde ontologicamente (anche) ad altre regole e bisogni.
A conclusione di tale ragionamento, occorre peraltro evidenziare come il Consiglio di Stato fosse già stato interpellato, sempre in sede consultiva, sullo schema di decreto istituente il Codice del Terzo Settore: con il parere del 14 giugno 2017, n. 1405la Commissione speciale non aveva manifestato un contrasto con i principi comunitari tale da menomare a tal punto l’operatività degli istituti di cui agli artt. 55 e ss.. Conflitto invece pluralmente sottolineato in quest’ultimo parere.
Dal favor alla iniquitas
Ancora maggiore appare la distonia con il precedente parere del medesimo Consiglio di Stato analizzando la critica rivolta alla clausola residuale inserita all’inizio dell’art. 56 del CTS.
La locuzione “se più favorevoli al mercato” difatti, non prevista nella prima versione dell’articolo, è stata inserita su precisa indicazione della Commissione speciale, introduzione consigliata proprio al fine di trovare un punto di equilibrio con le esigenze di tutela della concorrenza; virgolettato oggi invece criticato dallo stesso organo allora “consigliante”.
Dinnanzi allo spauracchio della carenza di concorrenza, il Consiglio di Stato propugna un “eccesso di concorrenza”, creando una pericolosa commistione tra la dimensione solidale e il mondo for profitsenz’altro a discapito degli enti senza fine di lucro, inidonei a rispondere a logiche di mercato e a confrontarsi, su di esse, con gli operatori economici di settore.
Appare così ridimensionato e frustrato, fino quasi a scomparire, quel favorper gli enti del Terzo Settore alla base degli istituti introdotti nel Codice del Terzo Settore ed attuativi dell’art. 118, comma 4 della Costituzione. Anzi, si può dire che l’intero innovativo assetto costruito per il Terzo Settore esca molto danneggiato dal confronto con gli organi consultivi, indebolito nelle poche certezze che le singole amministrazioni stavano sedimentando nelle loro virtuose iniziative di coinvolgimento delle realtà sociali; eliminati gli anticorpi che il legislatore aveva introdotto per tutelare e, appunto, favorire le collaborazioni in chiave solidale tra amministrazioni e corpi sociali, è prevedibile l’innesto di un pericoloso cortocircuito, nel quale le forme collaborative non potranno che risultare fortemente ridimensionate.
L’altra strada non intrapresa dal Consiglio
Non solo le prevedibili ricadute nefaste che un approccio così rigido avrebbe portato con sé, ma anche l’analisi di istituti e principi vigenti palesano come fosse possibile seguire una via diversa.
Accanto alla già lamentata lesione del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale ed alla cancellazione del favor verso le compagini sociali in esso propugnato, occorre sottolineare come il nostro ordinamento già conosca alcuni istituti compatibili con l’approccio indicato dal Codice del Terzo Settore.
Ci si riferisce all’art. 12 della legge n. 241/1990, ai sensi del quale l’Amministrazione può addivenire all’emanazione di provvedimenti attributivi di vantaggi economici previa determinazione a monte dei criteri e delle modalità, in modo da garantire l’imparzialità e la parità di trattamento dei potenziali interessati mediante una piena trasparenza dell’operato pubblico.
Si tratta di uno strumento che, sebbene riguardi vantaggi di carattere economico, non è vincolato al rispetto delle ordinarie logiche di mercato né tantomeno alle procedure di affidamento tipiche della contrattualizzazione pubblica.
Come già sottolineato in questa rubrica, tale approccio non è peraltro sconosciuto ai giudici amministrativi, che ne hanno affermato esplicitamente le potenziali ricadute nell’ambito della tutela dei beni comuni.
La compatibilità degli istituti previsti nel Codice del Terzo Settore non appare potersi incontrovertibilmente negare neanche analizzandone il rapporto con i principi di matrice comunitaria, secondo le considerazioni già riportate.
Peraltro il parere appare sintomatico di una particolare attenzione, solo in parte giustificabile alla luce di alcune vicende che hanno caratterizzato la storia recente degli appalti pubblici (a maggior ragione se si pensa che il parere richiesto si inserisce nel più ampio approfondimento sul tema dell’immigrazione avviato dall’Anac), propria dei giudici italiani, volta ad evitare a monte qualsiasi potenziale contrasto con il diritto comunitario, e contemporaneamente sostituendosi al competente organo europeo.
Ciò appare ancora maggiormente criticabile in casi come quello attuale, dove viene in esame un settore come quello dei servizi sociali, ritenuto particolare dallo stesso diritto europeo e tutelato in maniera diversificata dai singoli ordinamenti comunitari, attenti a tutelarne le specificità.
Cosa resta?
E allora cosa resta alla luce del parere del Consiglio di Stato? In attesa dell’adeguamento delle Linee Guida da parte dell’Anac, il Consiglio di Stato sembra “salvare” solamente l’accreditamento (la cui estraneità agli appalti pubblici è affermata ripetutamente nella giurisprudenza europea), laddove operato senza alcuna forma di contingentamento, mentre le ulteriori figure vengono inesorabilmente ridimensionate, fino alla pressoché totale impossibilità di ricorrere alle convenzioni avulse da una procedura di affidamento.
Una possibilità, non esplicitata espressamente dal parere, potrebbe essere quella di ricorrere all’istituto dell’accreditamento per accedere agli altri istituti previsti dall’art. 55: partendo da un accreditamento aperto ed avulso da qualsiasi contingentamento, si potrebbe arrivare a forme di co-programmazione e/o co-progettazione senza violare il principio di concorrenzialità, evitato a monte; ancora, tale meccanismo potrebbe esser azionato anche all’inverso, partendo da una co-programmazione aperta a qualsiasi compagine sociale, precedente ovvero contestuale allo stesso accreditamento.
L’accreditamento (ovvero la co-progettazione) “aperto” sarebbe così idoneo a trascinare con sé gli altri istituti ex art. 55 CTS, creando un flebile spiraglio per la portata innovatrice degli stessi, mentre rimarrebbero pressoché escluse le convenzioni, con ineluttabile frustrazione della portata innovatrice a cui mirava il legislatore: d’altronde, era stato il medesimo Consiglio di Stato a sottolineare come le convenzioni ex art. 56 CTS “condizionano l’effettiva riuscita della riforma perché, da un lato, non v’è dubbio che una delle ragioni d’essere degli enti del terzo settore risieda proprio nell’erogazione – anche tramite convenzione – di servizi di interesse generale pure in ossequio al richiamato principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale (articolo 118, comma 4, Cost.)”.
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