L’analisi del rapporto tra sport e beni comuni non può non partire da un problema definitorio. Se infatti il concetto di bene comune, nel dibattito pubblico e nell’azione sociale e istituzionale, ha ormai assunto un significato sufficientemente condiviso, pur con le inevitabili sfumature che emergono da quel caleidoscopio di esperienze sociali e amministrative nelle quali si sta realizzando, lo stesso non si può dire riguardo lo sport. Con lo stesso termine si definiscono ambiti sociali, culturali ed economici che, anche agli occhi dell’osservatore meno attento, non potrebbero essere più diversi, e che addirittura finiscono per diventare antitetici e conflittuali.
Di cosa parliamo quando parliamo di sport
È “sport” la grande macchina del calcio professionistico, con le sue derivazioni turbofinanziarie e la sua “economia parallela”, come l’ha definita il sociologo Pippo Russo; è “sport” lo spettacolo mediatico dei grandi eventi sportivi, che induce a paradossali derive di passivizzazione; è “sport” il grande mosaico dello sport di base, radicato nella società italiana grazie ad un tessuto associazionistico diffuso capillarmente sul territorio, nonostante lo scarso riconoscimento normativo e istituzionale; è “sport” il crescente fenomeno sociale dell’attività liberamente praticata, individuale e destrutturata, che porta addirittura a parlare di processi di “sportivizzazione della società” e “desportivizzazione dello sport”, citando la celebre definizione del sociologo olandese Paul De Knop.
Dichiarare “di cosa parliamo quando parliamo di sport”, è quindi non solo una forma di trasparenza politica e intellettuale, ma una necessità semantica, una condizione fondamentale per delimitare il campo e per rendere chiaro l’orizzonte di azione: quando l’obiettivo è la pianificazione di strategie pubbliche per il benessere e la salute, la qualità urbana ed ecologico-ambientale, l’inclusione sociale, è necessario partire da definizioni condivise.
Il documento di riferimento, in questo senso, non può che essere il Libro bianco sullo sport dell’Unione europea, adottato dalla Commissione Europea nel luglio 2007, che per la prima volta ha fornito un orientamento strategico sul ruolo dell’attività sportiva nell’Unione europea: “ruolo sociale dello sport”, “migliorare la salute pubblica attraverso l’attività fisica”, “sport per l’inclusione sociale” da allora sono diventati linguaggio comune, nonostante l’Italia non si sia ancora dotata di una legge nazionale coerente con le strategie europee.
L’UISP: dallo sport popolare allo sport per tutti
L’UISP, con una storia settantennale alle spalle (1948-2018), fin dalla sua nascita si è data come obiettivo la creazione di concrete opportunità di accesso alla pratica sportiva per tutti i cittadini, indipendentemente dalla condizione economica e sociale, dal paese di nascita o dal territorio di residenza, dal genere e dall’orientamento sessuale, dalle diverse abilità. Non si tratta della scontata affermazione di un diritto, ma di una costante azione sociale e politica per rivendicarne l’esigibilità: un’azione che impone continui cambiamenti, nuove analisi sulle trasformazioni sociali e conseguenti strategie per adeguare la struttura e l’attività associativa ai mutati contesti.
In questo senso l’Unione Italiana Sport Popolare all’inizio degli Anni Novanta è diventata Unione Italiana Sport Per tutti: non un semplice maquillage lessicale, ma – usando le parole del presidente dell’UISP Vincenzo Manco – “un enorme salto culturale, dalla popolarizzazione e diffusione della pratica sportiva ad una denominazione più moderna ed attinente ad un fenomeno sociale in mutamento in Italia e nel mondo, che guarda soprattutto alle esperienze di stampo nord europeo”.
Beni comuni e impiantistica sportiva
Da qualche anno, l’UISP ha introdotto nel suo modello di governance una nuova area di intervento, legata ai beni comuni e all’impiantistica sportiva. Un intreccio, questo, apparentemente forzato. Da un lato – rimanendo allo specifico dei beni comuni urbani – spazi ed elementi della città che, tradizionalmente immaginati, qualificati e gestiti come beni pubblici, diventano “beni comuni” nel momento in cui, innescandosi un processo politico e sociale, la comunità che si relaziona con quel particolare bene inizia a gestirlo in modo condiviso e partecipato, con l’obiettivo di tutelarlo e rigenerarlo; dall’altro, strutture di proprietà privata o pubblica, con queste ultime che possono essere gestite anche da soggetti privati, ferma restando la natura di attività di servizio pubblico, aperta alla fruizione collettiva.
Che rapporto può intercorrere, dunque, tra i beni comuni intesi come oggetto di cura collettiva e come processo di condivisione, e l’impiantistica sportiva nel suo senso più tradizionale di bene pubblico assoggettato a regole di carattere amministrativo?
Sembra contraddittorio, ma un rapporto c’è: perché se anche la gestione di un bene pubblico come un impianto sportivo può essere affidata a un soggetto privato (tanto più se associativo e no profit), in questa gestione – al di là delle procedure di affidamento e del rigoroso rispetto dei vincoli contrattuali – non può mai venire meno la tensione a limitare ogni forma di esclusione e di discriminazione nell’accesso, e a porsi in una logica non solo di pubblica utilità, ma di sperimentazione di una dimensione sempre più vicina a quella che caratterizza i beni comuni: ovvero la capacità di generare risorse comunitarie, di superare la logica della competizione, di sperimentare forme di collaborazione tra diversi soggetti, con l’obiettivo di aprire spazi di uguaglianza e di contrasto alle discriminazioni che, purtroppo, condizionano ancora le reali possibilità di esercizio del diritto allo sport e al gioco, al movimento, alla salute.
I luoghi dello sport per tutti
Ma se intendiamo lo sport per tutti come un diritto, “un riferimento immediato ad una nuova qualità della vita da affermare giorno per giorno”, è necessario uscire dai confini degli impianti sportivi tradizionalmente intesi e cominciare a immaginare i “luoghi dello sport per tutti” come tutti quegli spazi della città nei quali i cittadini svolgono attività sportiva e motoria, dentro e fuori i contesti organizzati, con pratiche sempre più differenziate e che si distaccano dall’idea di competizione regolamentata. Non limitandoci quindi alla rivendicazione del diritto allo sport, ma promuovendo reali e concrete opportunità di accesso ad uno sport che sia pratica inclusiva, parte integrante della vita quotidiana, scelta libera di ogni cittadino e, in ultimo, occasione di partecipazione e protagonismo civile e sociale.
L’obiettivo di promuovere il benessere e la salute dei cittadini combattendo le disuguaglianze, non può che passare dunque da una nuova centralità della pianificazione strategica delle città, sapendo che non è sufficiente pretendere ottime strutture sportive, se esse non sono inserite in un contesto urbano disegnato e organizzato con l’obiettivo di garantire a tutti i cittadini le condizioni di un pieno equilibrio fisico e psichico. Lo sport per tutti, in questo senso, può diventare uno dei diversi fattori da integrare negli obiettivi della pianificazione e della programmazione, e al contempo può essere uno strumento per attivare processi partecipativi che valorizzino le reti sociali e il capitale sociale di una comunità e di un territorio.
Il progetto Open Space: giovani attori di trasformazione sociale e rigenerazione urbana
Il progetto nazionale Open Space – finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nell’ambito della legge n. 383/2000 e recentemente concluso, sul quale sono stati impegnati per oltre un anno 10 Comitati territoriali dell’UISP – è stato un significativo banco di prova per misurare la capacità dell’associazionismo sportivo di integrare lo sport con nuovi modelli di coinvolgimento e attivazione dei giovani e, tramite il loro protagonismo e la valorizzazione delle loro competenze, il ripensamento degli spazi urbani. Obiettivo principale, la loro riappropriazione da parte dei cittadini e la costruzione di legami più saldi tra le comunità e gli spazi della città, soprattutto lì dove il degrado delle strutture e la carenza di luoghi di aggregazione contribuisce a generare marginalità e inattività sociale.
Il progetto si è fondato sull’idea che la strada, il parco, la piazza siano “beni comuni”, e che lo siano non in quanto tali ma solo come esito di un processo, che parte dalla rivendicazione di un diritto e arriva a forme di gestione condivisa e di partecipazione democratica. Quindi, lo sport sociale e per tutti può essere uno dei possibili inneschi di questi processi, che diventano da un lato “scuole” per valorizzare e promuovere saperi e competenze, dall’altro “palestre” di educazione alla cittadinanza attiva.
I giovani coinvolti sono stati centinaia, ma gli esiti maggiormente positivi non si possono spiegare con i semplici numeri di partecipazione. Sono le due associazioni sportive nate a Ciriè (TO) e a Empoli dall’auto-organizzazione dei ragazzi, l’impegno delle amministrazioni di Empoli e Legnago a rigenerare due parchi cittadini grazie alla progettazione partecipata e al coinvolgimento attivo dei giovani skater, l’entusiasmo creato a Crotone intorno alla possibile gestione condivisa e riqualificazione di una struttura cittadina, e tanti altri piccoli e grandi risultati di reale trasformazione sociale a dare valore e significato alla valutazione del progetto.
Accorciare le distanze
Ma l’esito forse più importante è legato alla consapevolezza che i processi di partecipazione realizzati intorno ai beni comuni – lì dove protagonismo sociale e maturità politico-istituzionale trovano un comune terreno di azione – hanno la straordinaria capacità di accorciare le distanze tra i cittadini e le istituzioni della democrazia rappresentativa. Un risultato che vale ancora di più quando i cittadini coinvolti sono giovani e adolescenti, spesso diffidenti nei confronti dell’istituzione pubblica, da loro percepita come distante, come una cosa “altra”; vista con sfiducia e talvolta antagonismo, e non invece come un elemento organico della comunità in cui si vive, vero e proprio “partner” con cui agire in modo sinergico per realizzare le proprie aspettative e dare risposta ai propri bisogni. Diffidenza spesso ricambiata da parte della cittadinanza adulta e delle istituzioni stesse, quando i riflettori si accendono su pratiche e culture di strada (skate, parkour, break dance …) sulle quali con troppa superficialità spesso cala l’accetta dello stigma e della criminalizzazione.
Lo sport per tutti può quindi interpretare un ruolo di primo piano in questa nuova stagione di protagonismo sociale, fondato sul principio di collaborazione civica e sulla responsabilità diffusa, mettendo in campo non solo una fitta rete di radicamento territoriale, ma soprattutto un patrimonio di saperi, competenze e progettualità, per diventare un vero e proprio attivatore di comunità.
Tommaso Iori è Responsabile nazionale delle Politiche per l’impiantistica e i beni comuni – UISP.