Nel 1976 Massimo Severo Giannini[1] scrive che i beni culturali pur avendo a supporto una cosa, non si identificano con essa; infatti “la cosa è elemento materiale di interessi di natura immateriale e pubblica […]”: “come tale è bene culturale, su cui lo Stato-Amministrazione dei beni culturali ha delle potestà che non riguardano l’utilizzabilità patrimoniale della cosa, bensì la conservazione alla cultura e la fruibilità nell’universo culturale”.
Il concetto di “bene culturale”
Dire che il bene culturale è un bene “di fruizione” più che “di appartenenza”, significa, secondo Giannini, che “lo Stato amministrazione dei beni culturali non ha il godimento del bene culturale, poiché il godimento lo ha l’universo dei fruitori del bene medesimo, cioè un gruppo disaggregato e informale di persone fisiche, indeterminate ed indeterminabili come universo, ma individuabili in concreto nel tempo presente in elementi o in gruppi aggregati particolari che si costituiscono nell’universo, mentre incerte nell’individuazione ma certe quanto all’esistenza nel tempo futuro”; in altre parole, “il bene come bene culturale non ha altra utilizzazione che la fruizione universale”.
In quel momento si pongono così le basi per la speculazione successiva, sia dottrinaria sia giurisprudenziale, sul concetto di bene culturale, ma, soprattutto, si evidenzia a chiare lettere il collegamento necessario tra il bene culturale e la collettività, presente e futura, alla quale esso è necessariamente e fisiologicamente destinato.
La Costituzione italiana e la nuova idea di “culturalità”
Tale connessione emerge, d’altro canto, dalla stessa lettura dell’art 9 Cost. [1. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. 2. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione] proposta da Fabio Merusi[2] un anno prima (e che oggi costituisce opinione unanimemente condivisa), secondo la quale i due commi della disposizione costituzionale devono essere letti unitariamente e, dunque, la tutela del patrimonio storico-artistico deve essere finalizzata a quella generale “promozione di cultura” dei consociati prevista dal 1° comma del medesimo disposto costituzionale.
A monte di tale considerazione, peraltro, il testo costituzionale disegna (in piena rottura col passato) altresì una nuova idea di culturalità, fondata (anziché sulla valenza estetica o di pregio) sul diretto collegamento con la comunità territoriale di riferimento, insito in quel riferimento all’appartenenza “alla Nazione” del patrimonio storico-artistico, con cui si indica non già una relazione di tipo privatistico tra lo Stato ed il patrimonio, ma piuttosto l’essenza più profonda di quest’ultimo, ossia il suo essere espressione dell’identità, ossia di quei valori condivisi dal popolo stanziato sul territorio.
Si aggiunga che, se nella intenzione originaria dei Padri costituenti l’espressione “Repubblica” contenuta nella disposizione costituzionale era volutamente ambigua, nel senso che mirava a lasciare impregiudicato il ruolo delle istituende regioni (consentendo l’attribuzione ad esse, una volta istituite, di particolari funzioni in materia), oggi è pacificamente accolta l’idea che in tale locuzione vadano ricompresi tutti i soggetti dell’ordinamento, ciascuno naturalmente secondo le competenze che gli sono proprie, ivi compresi i soggetti privati.
Il valore del “patrimonio culturale” come strumento di inclusione e pace anche in prospettiva intergenerazionale
A questo può e deve aggiungersi – in una prospettiva, per così dire, “più globale” – come già a partire dall’atto istitutivo dell’Unesco, venga riconosciuto proprio al patrimonio culturale un ruolo cruciale nella promozione di processi di pace e di integrazione sociale. Significativamente, peraltro, la recente Dichiarazione di Hanghzou – adottata in sede Unesco ad Hangzhou (nella Repubblica popolare della Cina) il 17 maggio 2013, in occasione del Congresso Internazionale su “La cultura: chiave dello sviluppo sostenibile” – evidenzia, tra l’altro, la valenza strategica del recupero del patrimonio culturale (unitamente alla ripresa delle attività culturali) nelle zone teatro di conflitti violenti o di catastrofi naturali, al fine di permettere alle popolazioni coinvolte di rinnovare la loro identità e di ritrovare un sentimento di dignità e normalità.
Va infine rilevato come l’evidenziato legame con la comunità non subisca limitazioni neppure in senso temporale: la prospettiva intergenerazionale è infatti fisiologicamente insita nello stesso DNA del concetto di patrimonio culturale, prima ancora che in quello di tutela. Nella Convention for the Protection of Cultural Property in the Event of Armed Conflict (L’Aja, 1954), a cui unanimemente si fa risalire la prima definizione di “bene culturale” come categoria autonoma, infatti, si fa espresso riferimento al più generale concetto di cultural heritage, volendo indicare qualcosa che trascende la materialità del bene e il suo valore economico, ossia una sorta di interesse, superiore, dell’umanità alla conservazione di tutti i contributi che ciascun popolo ha apportato alla “cultura del mondo”, disegnando così un’idea di cultura per così dire “globale” che investe tutta l’umanità e che prescinde dai confini politici e dal momento storico in cui si è manifestata, alla quale concorrono gli apporti di ogni popolo in posizione di eguaglianza (“since each people makes its contribution to the culture of the world”).
Lo stesso uso del termine heritage è in se stesso assolutamente significativo in quanto destinato ad evidenziare proprio la intrinseca dimensione intergenerazionale dei beni protetti e la funzione stessa della tutela di essi: il complesso dei beni che costituiscono manifestazioni di cultura deve essere salvaguardato perché esprime la cultura dell’umanità nel suo complesso e, come tale, va tramandato alle generazioni future.
I rischi per il “patrimonio culturale”
Se questo è il quadro generale di riferimento ove ogni riflessione sulla cura dei beni culturali deve collocarsi, va tuttavia osservato come la crisi finanziaria e i processi di globalizzazione attualmente in atto abbiano finito per indurre molti a guardare al patrimonio culturale di proprietà pubblica come una risorsa in senso economico. In effetti a ben vedere, oggi la tutela del patrimonio storico-artistico è soggetta a pressioni esterne ed interne, rispettivamente riferite alle tensioni con interessi terzi potenzialmente impattanti sulle politiche di conservazione (es. esigenze di sviluppo economico-industriale del territorio) e alle tensioni tra le ragioni della tutela e quelle della valorizzazione/sfruttamento-economico di uno stesso bene (es. eccessiva movimentazione de questo a fronte di richieste di prestiti per le più diverse occasioni purché compensate da congrua compensazione economica), che non possono non impattare sulla sua tutela.
Sebbene l’art. 6, c. 2, Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42/2004), affermi espressamente che “la valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze”, non è, in effetti, infrequente assistere a decisioni dell’amministrazione ovvero anche ad interventi legislativi in cui le ragioni della tutela vengono sacrificate sull’altare di un non meglio specificato sviluppo economico.
Il fenomeno è oggi più massiccio che in passato anche a fronte del combinarsi del (citato) fattore “crisi economica” con una crescente domanda di cultura, che se va naturalmente valutata positivamente ove considerata in se stessa, diversamente, in combinazione col primo fattore, determina irresistibili tentazioni di sfruttamento ad oltranza del patrimonio culturale. Quest’ultimo va così smarrendo quei caratteri di strumento (indispensabile) di promozione di cultura, ben esplicitato dalla nostra Carta Costituzionale, per assumere le pericolose vesti di un “petrolio d’Italia”, testimone di un brand italiano, la cui unica finalità pare quella di trasformarsi in un veicolo di attrazione turistica “a tutti i costi”.
L’impegno nella salvaguardia (termine, quest’ultimo, inteso come comprensiva delle funzioni di tutela e di valorizzazione) del patrimonio storico-artistico, impone dunque di evitare di focalizzarsi sul tema di quelle “potenzialità economiche” che ad esso (rectius, a parte di esso) sono inevitabilmente connesse, per considerare la questione da un punto di vista più ampio che tenga nel debito conto il complesso delle sfide culturali, ma anche ambientali, sociali, economiche e tecnologiche con cui il patrimonio culturale è attualmente chiamato a confrontarsi, mettendo al centro la indiscutibile constatazione che esso costituisce una realtà assolutamente non rinnovabile, unica, non sostituibile e non intercambiabile.
Conclusioni
Per poter intraprendere questo percorso, occorre necessariamente recuperare il (fisiologico e troppo spesso dimenticato) legame con la comunità, perché proprio questa rappresenta il termine di riferimento identitario su cui poggia lo stesso concetto di culturalità. Solo percorrendo questa via pare dunque possibile innescare processi di condivisione facendo emergere l’ambito dei beni culturali come terreno effettivamente ideale di sperimentazione di politiche di coinvolgimento di soggetti privati nell’esplicazione di quelle capacità che sono loro proprie e che costituiscono l’essenza della sussidiarietà orizzontale.
Le tematiche sono oggetto di un’ampia riflessione nel volume C. Videtta, Cultura e sviluppo sostenibile. Alla ricerca del IV pilastro, Torino, 2018.
[1] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim.dir. pubbl., 1976, 5 ss.
[2] F. Merusi, Art. 9, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1975, 434 ss.