Sussidiarietà, cultura e beni comuni per una società della cura

Che cosa lega insieme cultura, identità e beni comuni? La sussidiarietà può combinare questi termini, sostenendoli con la partecipazione dei cittadini in funzione di una società più inclusiva che risponda a nuovi bisogni e generi forme di democrazia attiva? E l’amministrazione condivisa come può coadiuvare questo sforzo che nasce dall’orgoglio di cittadini attivi, sempre più numerosi e coinvolti nell’attività di cura delle nostre città? È poi possibile estendere tale cura anche a valori immateriali che trascendono le identità tradizionali (nazionalità, religione ecc.), cioè a valori e sensibilità comuni che nascono da un processo di condivisione?
Esiste un filo che tiene insieme queste parole, con cui è possibile disegnare una nuova concezione della vita associata, una nuova idea di comunità. Naturalmente non si tratta di un mondo perfetto, né di una soluzione esclusiva, ma di una prospettiva nuova e creativa che nella complessità della società contemporanea riesce a tracciare una rotta nel mare dell’incertezza per aprire l’immaginazione sociale a nuove frontiere. Tra queste, la cultura è forse il terreno ideale su cui costruire questo nuovo edificio comune perché predispone al dialogo, premessa di fertili contaminazioni. Due fatti recenti possono aiutarci a riflettere sulla relazione tra cultura, identità e beni comuni. Il 19 gennaio 2019, il Presidente della Repubblica ha tenuto il discorso inaugurale di “Matera capitale europea della cultura 2019”, sottolineando il ruolo fondamentale del patrimonio culturale nella storia della nostra civiltà. Cinque giorni più tardi, sempre Sergio Mattarella ha aperto la celebrazione del Giorno della Memoria con un discorso che, nella rievocazione del passato, invitava a riflettere sui rischi che oggi derivano dalla “negazione del diverso” e dalla chiusura delle società cosiddette “aperte”.

Cultura, identità e beni comuni

Il Presidente sottolineava come la cultura costituisse “il tessuto connettivo della civiltà europea”, intendendo per “cultura” una risorsa sociale straordinaria, un patrimonio umano in continua trasformazione che si arricchisce della pluralità delle esperienze e della varietà delle voci che partecipano alla vita di una comunità. Una cultura non solo in senso tradizionale e di pochi, “che marca diseguaglianza dei saperi […] ma cultura che include, che genera solidarietà; e che muove dai luoghi, dalle radici storiche”. Una cultura, dunque, frutto della convivenza di tradizioni e di saperi antichi e intreccio di questi con il territorio. La diversità, a partire da quella di genere, è l’essenza stessa della cultura e la chiave della conoscenza.
Mattarella ricordava poi come dalla negazione del diverso fosse sorta una società disumanizzante, fondata sull’odio e sull’indifferenza. Occorre ricordare quel passato per costruire una cultura della memoria che guardi al futuro, in cui potersi riconoscere tutti. La memoria è espressione della cultura di un popolo, ma anche di una città, di una comunità o di una famiglia e, in questo senso, è un bene comune da custodire e condividere, su cui è possibile costruire una rete di identità inclusive. Il patrimonio culturale, che sia individuale o collettivo, materiale o immateriale, è pur sempre un ponte che avvicina e tende la mano a chi nella diversità sa riconoscere negli altri una parte di sé.

Dal patrimonio culturale all’inclusione sociale

Diversamente dall’indifferenza, che non comporta alcuno sforzo se non talvolta il fastidio del pungolo morale, l’inclusione è faticosa e presenta ostacoli non sempre facilmente superabili, ma spinge alla comprensione reciproca e alla nascita di un nuovo punto di vista “culturale” condiviso. Dalla cultura ai beni comuni il passo non è lungo. Secondo Stefano Rodotà, i beni comuni sono beni necessari per la soddisfazione dei diritti fondamentali delle persone e sono estranei a logiche mercantili; quelli immateriali, poi, rispondono a necessità ancora più profonde che hanno a che fare con la natura delle persone. Più in generale, il prendersi cura dei beni comuni, che si tratti di un parco o di un idioma, ha a che fare con “il nostro essere cittadini”, attivi e responsabili; i beni comuni, spiega Rodotà, sono il frutto di costruzioni culturali, della cultura applicata agli ambienti in cui viviamo.
Il collegamento con la comunità territoriale di riferimento è alla base di una nuova idea di “culturalità” che, secondo una lettura originale della costituzione (art. 9), dovrebbe finalizzare la tutela del patrimonio storico-artistico “alla generale promozione di cultura dei consociati”. In questo senso, è possibile considerare la cultura e, più nello specifico, i beni culturali come attori di sviluppo e il patrimonio culturale come strumento di inclusione sociale. Quello culturale è quindi un bene che trova inizialmente la propria ragion d’essere nella comunità territoriale, perché ne esprime l’identità, tende poi ad attraversare le generazioni e a trascendere la materialità del bene, sfumando oltre i confini fisici e politici in un’idea più astratta e universale di cultura, in cui si rispecchia l’umanità intera. Questa interpretazione si ritrova nel concetto di Cultural Heritage definito dall’UNESCO.

La sussidiarietà orizzontale può agevolare questo processo?

Il principio di sussidiarietà fa emergere la centralità della persona in ogni costruzione comunitaria, ponendo la sua realizzazione al centro dell’interesse generale e conferisce alla società tutta, organicamente intesa, il fine di realizzare il bene comune. In questo senso la sussidiarietà tende ad armonizzare interessi individuali e collettivi, privati e pubblici, predisponendo le condizioni di un dialogo sempre aperto alla conciliazione. Le sue dinamiche tendono quindi a favorire spontaneamente l’inclusione e a coniugare la libera e autonoma iniziativa di individui e di realtà associate con le responsabilità del vivere civile, nel rispetto di una visione solidale della comunità sociale e politica.
Il vero potenziale innovativo della sussidiarietà “orizzontale”, però, traspare dalla sua capacità di mobilitare, comporre e coordinare le iniziative e le azioni che maturano e sorgono dalla base sociale in forma di partecipazione (volontarismo e attivismo civici) alla cura dei beni comuni e che prendono forma in contesti comunitari ad alta intensità relazionale e promiscuità culturale, come le nostre città. In una società plurale, la sussidiarietà regola l’interazione sociale tra individui, gruppi e istituzioni in funzione di un interesse generale – mediando bisogni individuali e collettivi – sulla base del principio di autonomia e di corresponsabilità. In questi contesti e con l’ausilio di un apparato normativo sensibile alla sussidiarietà e capace di darle applicazione, è possibile ottenere risultati significativi rispetto alla promozione di approcci collaborativi di cura del patrimonio culturale (materiale e immateriale) per il rafforzamento dell’inclusione sociale, per una società più equa e incline alla condivisione delle esperienze e delle risorse.

Un “nuovo paradigma” per creare fiducia e cooperazione

Secondo questa lettura, la sussidiarietà è un principio che può rafforzare la coesione sociale e sostenere una società della cura autonoma e responsabile, dove la partecipazione è espressione di “liberà attiva”; stando anche a quanto recitava il testo di un noto brano musicale di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, che ricordava quanto la libertà non fosse “un gesto o un’invenzione”, “uno spazio libero”, ma partecipazione. Questa lettura ci permette di riconfigurare il quadro dei valori fondamentali della democrazia e suggerisce nuove interpretazioni e modelli integrativi e di supporto alla democrazia rappresentativa.
Tuttavia, senza strumenti adeguati la sussidiarietà non può agire; è, quindi, necessario un apparato normativo che le permetta di operare. Dal 2001 la formalizzazione costituzionale della sussidiarietà orizzontale (art. 118, quarto comma), ha dato vita in Italia a nuove esperienze con l’effetto di promuovere la cittadinanza attiva, di estendere la partecipazione della società civile alla cura e alla rigenerazione dei beni comuni in collaborazione con le amministrazioni locali. Siamo di fronte a un nuovo paradigma, quello dell’amministrazione condivisa che opera, grazie al Regolamento di Bologna e ai patti di collaborazione, anche attraverso la categoria dei “beni comuni”, i quali molte volte si trasformano in qualche cosa che supera la dimensione materiale di un bene e diventa, come diceva Rodotà, espressione di una “costruzione culturale” inedita, capace di legare insieme espressioni libere e diverse di un bisogno comune di appartenenza e di comunità.

Dalla strada al mondo: verso una società multiculturale della cura

Questo bisogno è oggi più forte, soprattutto di fronte allo smarrimento che la società globalizzata genera nell’individuo, portandolo istintivamente a chiudersi e a difendere quelle identità tradizionali che rischiano, però, di fargli vedere ciò che è “straniero” come una minaccia e non come una opportunità. Ecco che allora, anche un giardino di quartiere può trasformarsi in un luogo di incontro, di confronto e di condivisione; in altre parole, in uno spazio culturale. Uno spazio dove potersi riconoscere insieme ad altri, diversi da sé, e, insieme ad essi, costruire nella cura del luogo comune una nuova identità, inattesa, spontanea, inclusiva, fiduciosa e aperta a nuove commistioni. Un luogo in cui anche le tradizioni, le esperienze personali e le storie orali trovino spazio e diventino materia viva che scalda il cuore, riduce le distanze e sfuma le differenze. Uno spazio capace cioè di dissolvere i pregiudizi e permettere a ciascuno nella libera partecipazione di intraprendere un percorso di conoscenza di se stessi e degli altri.
Sarà così possibile plasmare un nuovo senso di appartenenza, più dinamico, magari circoscritto inizialmente al luogo fisico in cui si vive, ma in prospettiva universale perché proiettato idealmente fuori di sé, oltre la comunità di appartenenza, come espressione di un bisogno profondo dell’uomo, da tutti condiviso. Come non riconoscere questa aspirazione “contemporanea” nelle parole di un brano musicale dei Negramaro, che sembra evocare con la suggestione del sogno questo nostro eterno bisogno, quando promette: “torneranno tutte le genti che non hanno voluto parlare, scenderanno giù dai monti ed allora staremo a sentire, quelle storie da cortile che facevano annoiare, ma che adesso sono aria, buona pure da mangiare […] torneranno anche gli uccelli, ti diranno come volare”. Esiste un modo per trasformare i sogni in realtà, quello di condividerli con gli altri per intraprendere insieme un percorso comune di cambiamento.