Per decenni l’abitare è stato l’elemento che ha trainato iniziative pubbliche finalizzate a garantire il diritto a una città che supportasse una popolazione in crescita demografica ed economica. L’eredità – nonché grande occasione – che ci lascia questa fase della nostra storia urbanistica sono i complessi di Edilizia Residenziale Pubblica o ERP. Questa eredità appare oggi come di poco valore, soprattutto per la connotazione di disagio urbano che a queste conurbazioni è spesso associato. Ma le sperimentazioni in ambito periferico sono ad oggi molteplici, e ci si chiede dunque che ruolo possano giocare le case popolari in questa nuova e importante partita verso la rigenerazione urbana. Una risposta può essere data partendo dalla valorizzazione dell’intelligenza comunitaria che in essa risiede: le persone. Le grandi conurbazioni dell’abitare pubblico possono diventare piattaforme ideali per mettere in pratica approcci collaborativi, utilizzando strumenti che in altri contesti stanno prendendo ampiamente campo. Come i patti di collaborazione.
Patrimonio ERP: beni comuni sì, ma per chi?
Le case popolari sono un patrimonio di proprietà pubblica ascrivibile tra i beni comuni intesi come “beni che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona” (Statuto toscano 2018, art. 4, comma 1), come lo è appunto il diritto alla casa. Ma la percezione dei beni comuni viene prima della loro definizione: se i beni comuni sono tali quando generano anche un “indotto emotivo” (cit. Simona Bottiglioni), appare chiaro che la strada delle case popolari in tal senso è ancora lunga. Lo spazio comune, vero volano di un possibile cambiamento, non è percepito come un bene comune né dagli inquilini né dal quartiere circostante. Di conseguenza, non c’è alcuna percezione degli edifici ERP come moltiplicatori di benessere per la comunità. Eppure le comunità urbane, se informate e coinvolte in modo adeguato, sono in grado di generare valore, inclusione e innovazione sociale. Lo spazio comune può diventare luogo di relazione tra gli appartenenti alla comunità di abitanti e con il quartiere circostante, rispondendo a esigenze percepite su scala cittadina, nell’ottica di un welfare di prossimità che può dare vita a banche del tempo, tool libraries, gruppi di acquisto solidali e altre esperienze di condivisione. La mancata percezione di questi luoghi come beni comuni rappresenta quindi una lente sfocata che ha bisogno di essere (ri)abilitata. Ma per fare ciò c’è bisogno innanzitutto di una comunità di riferimento a cui rivolgersi.
Quale comunità per le case popolari?
I quartieri di edilizia residenziale pubblica appaiono spesso come monadi problematiche di dimensioni impressionanti che non hanno alcun rapporto con la cultura della città. Luoghi dove gli abitanti si trovano bloccati in uno spazio che non gli appartiene mai completamente e dal quale le nuove generazioni che lì crescono vogliono affrancarsi. Nessuno è più disposto a unire il proprio destino individuale a una scommessa collettiva. Per recuperare questo desiderio, è essenziale partire da politiche “di prossimità” che promuovano forme di riappropriazione di tali quartieri, sviluppando relazioni umane di vicinanza e (ri)costruendo comunità. Il termine comunità è da intendersi qui non solo come comunità di relazione legata al tema della coesione sociale, ma anche e soprattutto come comunità di intenti, comunità progettuale, comunità di scopo. In una situazione iniziale come quella dei condomini di case popolari in cui una comunità di relazione non esiste, anzi la conflittualità ha terreno fertile, partire dall’obiettivo di costruire una comunità di scopo costituisce un primo passo fattivo e fattibile che permette di attivare le persone, valorizzando i loro talenti. Serve però un innesco che dia il via a tale processo.
Solo una “manutenzione incredibile” può innescare il processo
Periodicamente le Aziende Casa attuano gli interventi di manutenzione straordinaria necessari a preservare l’integrità fisica degli edifici e gli inquilini si fanno carico delle azioni di manutenzione ordinaria che ne garantiscono la vivibilità. Oggi tuttavia, al fine di promuovere non solo la riqualificazione degli edifici ma anche la creazione di comunità di vicinato, serve che entrambi i soggetti mettano in atto insieme una “manutenzione incredibile”, con azioni che vanno ad agire tanto sul patrimonio fisico quanto su quello emotivo. Nel progetto sperimentale CondoMio, realizzato nell’Empolese Valdelsa da Publicasa s.p.a., tale “manutenzione” è fatta attraverso un processo di micro-rigenerazione urbana e umana che, coadiuvato da pratiche di facilitazione, prevede la partecipazione degli abitanti del condominio popolare, in un’ottica di sussidiarietà. L’Azienda Casa fornisce un contributo a fondo perduto per l’acquisto del materiale e sono le persone che individuano priorità condivise e mettono in atto quei cambiamenti che danno un valore emotivo ai luoghi: un colore diverso alle pareti, un angolo per attrezzi da giardinaggio condominiali, un linoleum più luminoso, magari finto legno. Durante i lavori, si valorizza il proprio talento, si scambiano competenze e si iniziano ad intessere relazioni. Inoltre si modifica la qualità del dialogo tra inquilini e Azienda Casa, ponendo le basi per un rapporto di fiducia reciproca e future azioni di collaborazione civica. Per gli abitanti, “sentirsi valorizzati è la premessa per creare valore”. Affinché il processo possa avere un seguito costruttivo è necessario che dall’innesco si passi all’innesto (cit. Guido Lavorgna): serve rendere solida la volontà di collaborazione e cooperazione attraverso la (ri)scoperta di modelli di governance partecipativa. Come possono essere proprio i patti di collaborazione.
Fiducia, autonomia e responsabilità civica per riscrivere le regole
Le disposizioni contenute nei Regolamenti di utenza dell’ERP disciplinano diritti e doveri degli inquilini, normano i rapporti con le Autogestioni e costituiscono un sistema di regole necessario per garantire la durabilità degli immobili. A loro volta, i Regolamenti condominiali stabiliscono regole di convivenza civile, come gli orari del silenzio, la gestione degli animali domestici e la pulizia degli spazi comuni. Però si può sicuramente fare un passo avanti, muovendosi verso regolamenti condivisi che stipulino accordi di convivenza non solo civile, ma creativa e generativa. Per fare questo è necessario introdurre i temi dell’autonomia e della responsabilità, basati a loro volta sul tema della fiducia reciproca che si instaura nella comunità del condominio e nei rapporti tra condominio, Amministrazione locale e Azienda Casa. I patti di collaborazione sembrano costituire un naturale prolungamento organizzativo del processo di costituzione di consapevolezza verso le potenzialità dei condomini pubblici come comunità coesa che attua una comunione d’intenti e definisce il proprio ruolo per la cura dei beni comuni nel quartiere. Le sperimentazioni che vanno in questa direzione per fortuna non mancano. Tra le altre, ACER Rimini ha utilizzato processi partecipativi per la formulazione del Regolamento per la gestione degli spazi comuni, attraverso il progetto Condomini Attivi, mentre ACER Ravenna, con il progetto Condomini Collaborativi, configura il Regolamento stesso come uno strumento di welfare generativo, prevedendo già i patti di collaborazione tra le forme di gestione condivisa attivabili con l’Azienda Casa.
L’abitudine alla cura però perché possa radicarsi ha bisogno di processi lenti e che possano contare su una forma di continuità. In tale quadro, come possono Aziende Casa e Amministrazioni supportare il processo?
La sfida per Aziende Casa e Amministrazioni comunali
Le Aziende Casa si stanno chiedendo quale ruolo assumere nella rigenerazione urbana dei quartieri e nella gestione sociale degli alloggi, soprattutto nei confronti dei condomini esistenti, dove non è stato messo in atto nessun processo di community building a monte. Lo strumento della mediazione sociale viene utilizzato sempre più frequentemente, ma il tema dell’innesco di azioni che sollecitino il protagonismo positivo e collettivo dell’utenza e non il ricorrere alla mediazione nel momento della segnalazione, resta un aspetto sfidante. Sia perché lo stanziamento di risorse per tali processi deve trovare un fondamento nella programmazione di bilancio delle Aziende Casa, sia perché gli enti devono poter trovare dall’altra parte un interlocutore chiaro con cui stipulare degli accordi che prevedono responsabilità giuridiche, soprattutto se entrano in gioco pratiche di autorecupero. Tale interlocutore può essere trovato nelle realtà del Terzo Settore, ma in un’ottica di cittadinanza attiva sarebbe auspicabile che fosse un soggetto di riferimento nato nel condominio stesso. Alcune riflessioni iniziano ad essere fatte anche nell’ambito della tradizione cooperativa, basandosi sull’idea fondante che una gestione cooperativa possa garantire nel lungo periodo la costruzione e la tenuta della comunità. La pubblica amministrazione d’altro canto può scegliere di abbracciare e potenziare il suo ruolo di facilitatore di processi in questo ambito, fornendo gli strumenti burocratici per mettere in atto nuove strategie, ispirate ai principi dell’uso temporaneo degli spazi o ai Regolamenti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni.
Per vincere la sfida delle case popolari servono azioni coordinate e di sistema, che contemplino un’apertura verso nuovi modelli gestionali ibridati di cui i Patti di collaborazione possano essere obiettivo e strumenti. Senza però dimenticare che nessuna evoluzione in tale ambito può essere possibile se non si coltivano inedite e sincere alleanze con le persone che nelle case popolari ci vivono.
Alessia Macchi è architetto e ricercatrice specializzata in progetti di rigenerazione urbana e innovazione sociale legati alla creazione di spazi capacitanti. Fa parte della startup DU IT e dello staff di Semi di Rigenerazione. Vive e lavora a Firenze.
Foto di copertina di Charles L. su Unsplash