Dal 2014 in Italia, anno in cui è stato approvato il primo Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, molte città beneficiano di una nuova forza, quella dei cittadini, capace di ridare vita a luoghi prima abbandonati e degradati. Grazie all’introduzione del primo regolamento infatti, i cittadini per la prima volta vengono legittimati a prendersi cura dei beni comuni tramite i patti di collaborazione, atti negoziali attraverso cui il comune e i cittadini concordano gli obiettivi da raggiungere nel progetto di riqualificazione proposto dai cittadini stessi, col fine di perseguire il soddisfacimento dell’interesse generale.
I patti quali strumenti di sviluppo locale
A 5 anni di distanza, sono 185 i comuni ad aver adottato il regolamento (la lista è in continuo aggiornamento) e circa un milione i cittadini attivi. Grazie ai patti insomma i cittadini rigenerano e riqualificano i beni comuni, che quindi vengono tolti dallo stato di degrado iniziale e restituiti alla comunità come luoghi fruibili per tutti. Molto spesso inoltre, dai patti non solo si creano nuove opportunità di rigenerazione dal basso, ma nascono anche delle occasioni per nuove forme di sviluppo locale e benessere sociale.
Ed è proprio su questo aspetto che si è concentrato il lavoro dell’elaborato di tesi, dove si è cercato di comprendere la relazione che può esistere tra patti e sviluppo locale, andando ad indagare in particolare sugli effetti che i patti sono in grado di produrre sul territorio. Sono quindi stati selezionati alcuni casi studio, supportati da interviste fatte a testimoni qualificati, che ben dimostrano gli effetti dei patti in termini di sviluppo economico e sociale.
I beni comuni e le pratiche di rigenerazione
Attraverso i patti di collaborazione quindi i cittadini decidono volontariamente di occuparsi dei beni comuni. Ma concretamente, cosa si intende per beni comuni? In realtà non esiste una definizione univoca di questo concetto, infatti si parla di beni comuni in diversi campi, dall’economia alla giurisprudenza, dalla sociologia all’ecologia, in ognuno dei quali viene data un’interpretazione diversa. Generalizzando si può dire che per beni comuni si intende un insieme di risorse rilevanti per la soddisfazione dei bisogni essenziali della collettività, in quanto permettono lo svolgimento della vita sociale e la soluzione di problemi collettivi (C. Donolo, 2010).
Ecco perché è importante prendersi cura dei beni comuni e i cittadini ne sono consapevoli. È per questo che esistono già da svariato tempo, sia a livello nazionale che internazionale, diverse pratiche di rigenerazione dal basso, basate su percorsi auto-organizzati e partecipati, in cui la popolazione si riappropria di immobili pubblici per avviare all’interno iniziative di vario genere.
Tra queste pratiche ritroviamo anche il modello dell’amministrazione condivisa, che si differenzia però da quelle più tradizionali perché in quest’ultimo la gestione dei beni comuni diventa partecipata tra le amministrazioni pubbliche e la cittadinanza attiva. La pubblica amministrazione infatti detiene un ruolo di coordinamento, di tutela degli interessi coinvolti e assicura la fruizione del bene; la cittadinanza attiva si fa portatrice degli interessi della comunità e delle conoscenze necessarie per la loro soddisfazione (M. Bombardelli, 2016), partecipando attivamente alla cura del bene e non limitandosi ad esserne destinataria.
Una delle grandi novità del modello dell’amministrazione condivisa è proprio il rapporto di collaborazione che si crea tra ente pubblico e cittadini, che supera le incertezze e la sfiducia reciproca tra i soggetti, per giungere insieme alla risoluzione di problemi.
Il principio di sussidiarietà nella Costituzione
Ciò che ha fatto sì che i cittadini fossero legittimati ad occuparsi della cosa comune, è stata la riforma del Titolo V del 2001, dove al comma 4 dell’art. 118 della Costituzione, per la prima volta viene introdotto il principio di sussidiarietà orizzontale, che ha dato vita ad una nuova visione del rapporto tra cittadini e amministrazioni. Al comma 4 infatti gli enti pubblici sono incentivati a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale. Grazie alla riforma del Titolo V quindi è potuto nascere il Regolamento, senza il quale il principio di sussidiarietà orizzontale dell’art.118 sarebbe rimasto inapplicato; allo stesso tempo il Regolamento sarebbe rimasto inefficace senza i patti di collaborazione.
Sviluppo locale e patti di collaborazione
Dopo queste premesse quindi possiamo dedicarci all’approfondimento della relazione tra patti di collaborazione e sviluppo locale. Quando si parla di sviluppo locale, si parla di territorio che non è semplicemente identificabile con un’area geografica, ma è costituito da elementi di natura materiale e immateriale che ne individuano una specifica realtà. Questi elementi sono rintracciabili nell’insieme di beni comuni, patrimoniali ed immobili legati alle caratteristiche del territorio stesso, tra cui ritroviamo le condizioni e risorse dell’ambiente naturale, il patrimonio storico culturale (sia materiale che immateriale), il capitale fisso (dato da infrastrutture e impianti) e il capitale umano locale. Ciò che caratterizza e contraddistingue un territorio quindi, oltre le risorse e il patrimonio, sono le relazioni economiche, sociali, culturali e istituzionali, dalle quali nel tempo sono derivate pratiche, conoscenze e saperi difficilmente trasferibili altrove.
Ma come l’azione dei cittadini può generare sviluppo locale? Quando i cittadini si prendono cura dei beni comuni da un lato contribuiscono al miglioramento della qualità della vita della propria comunità, favorendo in determinati luoghi lo svolgimento di attività sociali, ludico-ricreative, culturali, ecc. Dall’altro il valore del bene così recuperato genera un aumento del valore economico d’acquisto di tutta l’area in cui questo insiste. In tal modo si crea una stretta connessione tra sviluppo sociale ed economico (R. Caselli, 2018).
Dall’analisi di alcuni casi studio e dalle interviste fatte, si conferma l’ipotesi secondo la quale tutti i beni comuni sono in grado di diventare dei catalizzatori per lo sviluppo locale (anche se questo avviene più frequentemente nei casi dei beni immobili); infatti, la rivitalizzazione di un bene incide sia sull’aumento del valore economico dell’area che sull’aumento dei servizi offerti (come nel caso di Bologna e Lucca). Inoltre, in alcuni casi, la rigenerazione del bene può influire anche in termini di sviluppo turistico (come nel caso di Condove).
In conclusione i patti si pongono come nuovi strumenti in grado di produrre nuove politiche per il governo del territorio e per la trasformazione della città, senza una contrapposizione tra cittadini e amministrazioni, ma anzi in una prospettiva di collaborazione.
Foto di copertina: Ivan Bandura su Unsplash
ALLEGATI (1):