Quando poco più di venti anni fa Gregorio Arena, presidente di Labsus, scrisse il suo saggio Introduzione all’amministrazione condivisa (in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1997, 117-118, 29) probabilmente non immaginava che quella sua elaborazione teorica si sarebbe trasformata non solo in sperimentazioni pratiche ma addirittura in un vero e proprio modello di amministrazione aggiuntivo a quelli che già si conoscono. Già, perché è questo che gradualmente comincia a intravedersi man mano che le sperimentazioni cominciate su base comunale salgono di scala.
Ne ha parlato nell’ultimo editoriale di questa rivista Rossana Caselli, con riferimento alla creazione di veri e propri distretti dell’amministrazione condivisa su scala provinciale. La costituzione di una rete mista tra amministratori (ma anche tra associazioni e cittadini) per condividere le esperienze, le difficoltà, le opportunità e per accrescere la consapevolezza anche culturale di un processo mosso sul piano locale.
Le diverse scale territoriali dell’amministrazione condivisa
In occasione della pubblicazione di questo editoriale i lettori troveranno il commento di Laura Muzi alla prima legge regionale sull’amministrazione condivisa entrata in vigore qualche giorno fa. Per la prima volta in Italia, dunque, viene approvata una legge che assume come riferimento l’amministrazione condivisa, i regolamenti che la sostanziano e i patti di collaborazione. Si tratta di una legge che ha, in primo luogo, il primato di applicare questo modello all’amministrazione regionale perché la regione, tra le altre cose, gestisce patrimoni sul territorio, governa l’edilizia residenziale pubblica, gli enti parco, la sanità, settori – cioè – che presentano notevoli potenzialità di sperimentazione per l’amministrazione condivisa. In aggiunta a questo è una legge che mette la regione al servizio dei suoi comuni: si offre come soggetto che favorisce la formazione, elemento cruciale per questo nuovo modello organizzativo, mette a disposizione le proprie risorse infrastrutturali e anche, in misura minore, finanziarie per sostenere e diffondere oltremodo l’amministrazione condivisa. Ha l’intelligenza – questa legge – di non stabilire dall’alto quali sono i patti di collaborazione da favorire, discriminando e indirizzando i comuni, ma si mette al servizio dei loro progetti senza definizioni preordinate.
Infine, solo per il fatto di essere una legge, questa ha il merito di rassicurare anche i tanti funzionari e dirigenti che su questo tema sono frenati dalle preoccupazioni in ordine alla responsabilità amministrativa. Come è sempre accaduto nella storia d’Italia, le migliori cose sono state prodotte e sperimentate spesso nella periferia e si deve a molti bravi amministratori, dirigenti e funzionari pubblici il coraggio di aver intrapreso un percorso di rinnovamento dell’amministrazione anche correndo qualche rischio. Da questo punto di vista la legge regionale del Lazio è una prima risposta che va nella direzione di incoraggiare i dipendenti pubblici a rinnovare le prassi amministrative e il modo di amministrare la cosa pubblica.
Altrettanto ancora si vede sul territorio con le unioni di comuni e con le Città metropolitane. Milano è la prima Città metropolitana ad aver approvato il regolamento dei beni comuni urbani e ciò ha un valore particolarmente forte perché avviene in un’area territoriale che ha anche sviluppato le zone omogenee ed ha avviato quella politica della differenziazione delle policy che è particolarmente utile per l’amministrazione condivisa: quanto più le sperimentazioni civiche si caratterizzano come forme di integrazione di politiche pubbliche chiare, rinnovate e decentrate, tanto più l’amministrazione condivisa avrà la forza di distinguersi come un vero e proprio sistema.
La realtà supera le intuizioni
Ma questo processo non riguarda solo le scale territoriali. La creazione di un sistema si vede anche dallo sforzo che nei territori si produce per integrare le esperienze. In una fase iniziale, che è stata di apprendimento per tutti, si sono spesso esasperate le distinzioni, le diversità e le valutazioni tra modelli diversi. Accanto all’amministrazione condivisa si sono sviluppate esperienze fondate più sull’autogestione civica.
In Italia spesso questo si è tradotto in una contrapposizione tra modello di Bologna e modello di Napoli. In verità, pur essendo vero che si sono avute esperienze diverse di rinnovamento dell’amministrazione civica e che probabilmente questi modelli sono anche maggiori di due, la tendenza recente va sempre più nella direzione di integrare. Alla contrapposizione si sta sostituendo la proposta di allacciare le diverse esperienze, consapevoli che ciascuna presenta punti di forza e debolezza e, soprattutto, ognuna risponde con diversa efficacia a obiettivi differenti. Al giudizio si sta sostituendo la curiosità di vedere la capacità di queste esperienze di stare assieme. Lo si vede – ancora una volta – nella regione Lazio, la cui legge fa menzione anche delle autogestioni. Lo si vede con i regolamenti comunali sui beni comuni urbani dal forte tratto innovativo come quello di Ferrara. Anche Torino annuncia cambiamenti del proprio regolamento che vanno nella stessa direzione. Ed è anche quello che reti di cittadini, attivisti e collettività stanno provando a creare da qualche tempo a questa parte, cercando ponti anziché erigere muri. Per non parlare della straordinaria esperienza del progetto delle scuole aperte di cui la scuola Di Donato si sta facendo interprete sul piano nazionale, dopo una sperimentazione di successo avuta a Roma.
Tutto questo produce, peraltro, anche un ampliamento e un allargamento del concetto di amministrazione condivisa che Arena aveva intuito. La realtà non si è limitata a seguire la sua intuizione, ma sta andando oltre. Con gradualità ma anche con perseveranza. Che poi è il modo migliore per vedere buoni cambiamenti.
Foto di copertina: Teresita Garit su Unsplash