In un post del 1 agosto 2017, la nota sociologa partecipativa Marianella Sclavi scrisse su Facebook: “Labsus, Laboratorio per la sussidiarietà, è la nuova rivoluzione Basagliana che riguarda non solo i manicomi, ma quel attuale manicomio diffuso che è il funzionamento «normale» della pubblica amministrazione”. Perché una “studiosa in azione” come lei, che di percorsi partecipativi in Italia e all’estero ne aveva ideati, praticati e conosciuti moltissimi, richiamava il lavoro di rottura con il passato dello psichiatra Franco Basaglia per parlare dell’amministrazione condivisa dei beni comuni? Se quella rivoluzione culturale portò a chiudere i manicomi, dove approderemo con questa?
Partecipare e condividere non sono sinonimi
Nei due anni che sono trascorsi dalla provocazione social di Marianella Sclavi, possiamo osservare che molte persone interessate a capire come fare per condividere la cura dei beni comuni percepiscono l’innovazione sociale e amministrativa proposta da Labsus come un modo nuovo di partecipare a un percorso guidato dalla pubblica amministrazione locale. Non è così. L’amministrazione condivisa dei beni comuni si basa sull’autonoma iniziativa degli abitanti. È un modo nuovo di essere cittadini, che parte dal riconoscimento di un diritto che può suonare persino strano, le prime volte che ne si senta parlare: quello di potersi attivare per la cura dei beni comuni – pubblici quanto privati -, impegnandosi reciprocamente nei patti di collaborazione e stabilendo precise responsabilità. L’amministrazione ci deve essere, ma queste alleanze si fanno tra persone che si considerano sullo stesso piano.
La scala della (non) partecipazione
Ormai mezzo secolo è trascorso da quando l’attivista e studiosa americana Sherry Arnstein ha teorizzato, nel 1969, la celebre “scala della partecipazione dei cittadini”. I gradini più bassi sembrano ancora attuali, affermando cosa, ancora oggi, non è partecipazione. Il primo gradino è quello della manipolazione: gli abitanti vengano invitati a prender parte a comitati e tavoli, ma le loro richieste restano sempre lettera morta. Il secondo gradino è quello della falsa cura dei problemi dei cittadini, che vengono distratti e raggirati attraverso iter fintamente partecipativi, da responsabili tecnici e politici per nulla interessati a migliorare l’efficacia delle azioni pubbliche.
La partecipazione “di facciata”
La mera informazione ai cittadini (terzo gradino), senza possibilità di replica, e a giochi di potere fatti, è seguita dalla consultazione (quarto gradino) attraverso cui “[…] la partecipazione viene misurata in base al numero di persone che partecipano alle riunioni, portano a casa gli opuscoli o rispondono a un questionario.” (Arnstein, p.219). Al quinto gradino troviamo le azioni per placare la voglia di partecipare dei cittadini: chi governa invita chi è governato ad assistere a commissioni, comitati, task force e altri tipi di situazioni molto ambigue, in cui di fatto gli abitanti non si assumono responsabilità.
E John Lennon cantava Power to the people
Solo arrivati agli ultimi tre step della scala della partecipazione si può finalmente parlare di cittadini che partecipano alle dinamiche di potere in modo sempre più reale. Il partenariato (sesto gradino) è la prima forma di negoziazione tra i cittadini e i tradizionali detentori del potere. La delega del potere (settimo gradino) è intesa come assunzione diretta di responsabilità da parte delle comunità, anche con la gestione di quote di denaro significative, in una decina di città pilota statunitensi. Infine, al vertice della scala, ecco il controllo dei cittadini, massimo livello di partecipazione possibile praticato in un ristretto numero di “società d’avanguardia”.
Dopo mezzo secolo, possiamo pensare che il massimo della partecipazione sia cambiato ed evoluto?
L’ipotesi che qui avanziamo è che il massimo della partecipazione sia attualmente costituito da un nuovo diritto: prendersi cura dei beni comuni in modo condiviso. La condivisione, come i lettori di Labsus sanno, è intesa anche come principio di diritto amministrativo: si intendono cioè processi di gestione (e non solo decisionali) alla pari tra soggetti pubblici, privati e del terzo settore, profondamente diversi dalle dinamiche partecipative decise e gestite dall’alto, dai responsabili politici. Per arrivare a questo nuovo top della scala della partecipazione (Ciaffi, 2019) è importante ripercorrere alcuni passaggi fondamentali.
I beni comuni e la società della cura
È la caring society (Nakano, 2000), che prende forma e si rafforza in seguito alla crisi del 2008 anche per differenza con la società del consumo, a iniziare a esprimere la volontà di progettare e gestire i beni comuni: beni urbani come rurali, materiali, immateriali e virtuali. Si pensi, in Italia, alla straordinaria risposta dei cittadini al referendum sull’acqua come bene comune (e non come servizio pubblico) del 2011. Già nel 1968 Garrett Hardin focalizzò la sua attenzione sui beni comuni – come oggetto da mettere a fuoco in modo diverso sia dai beni pubblici che da quelli privati – esprimendo il proprio pessimismo riguardo all’impossibilità di trovare forme di gestione capaci di salvaguardarli. È vero peraltro che in questi cinquant’anni molte risorse di tutti sono state sprecate e consumate, così da poter affermare che la profezia ipotizzata da questo autore – la nota “tragedia dei beni comuni”, intesi soprattutto come risorse naturali – si sia purtroppo parzialmente avverata (Mattei, 2013).
Partecipare alla gestione condivisa dei beni comuni
Ma è altresì vero che un numero consistente di persone hanno intanto maturato una visione basata sulla libertà di prendersi cura dei beni comuni, auto-governando in modo virtuoso la gestione di risorse comuni, intesi anche come beni creati dall’uomo (Ostrom, 1990). Nella società contemporanea iniziano così a manifestarsi attitudini nuove, ispirate a diversi principi più o meno noti: tra i primi, l’uso non esclusivo di risorse come l’acqua, tra i secondi, il principio della sussidiarietà orizzontale introdotto nella Costituzione italiana nel 2001.
Perché non aggiungere un piolo alla scala della partecipazione?
La nuova vetta della partecipazione – aggiungendo un piolo alla scala di Arnstein – potrebbe dunque consistere oggi nel fatto che chi è governato può attivarsi e soprattutto mettersi alla pari di chi governa, per la prima volta nella storia dopo la Rivoluzione francese, con lo scopo di gestire i beni comuni, amministrandoli insieme? Come già ipotizzò Cotturri (2001), le istituzioni potrebbero smettere di detenere il monopolio amministrativo disegnando un modello profondamente diverso di società, caratterizzato dal “potere sussidiario dei cittadini”? A livello teorico, considerare l’amministrazione condivisa dei beni comuni come il gradino partecipativo più alto è possibile. Bisogna però che il concetto di partecipazione evolva nella direzione della condivisione del potere e non continui a rimandare a processi in cui il timone democratico viene tenuto solo dai decisori politici e tecnici delle pubbliche amministrazioni.
Dalla New York di fine anni ’60 all’Italia di oggi
Se la comunità nera del Bronx che gestiva per la prima volta un portafoglio del Comune di New York per riqualificare uno spazio pubblico era agli occhi di Arnstein il top della partecipazione, noi oggi potremmo leggere quella situazione come virtuosa, ma pur sempre concessa dall’allora sindaco della città. Invece, nei tavoli di cogestione dei beni comuni attraverso i patti di collaborazione, in quei comuni che hanno adottato il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni e lo usano in modo virtuoso, la comunità che lanci la riqualificazione di uno spazio ha diritto a convocare la propria amministrazione pubblica locale, sindaco compreso, e a ragionare alla pari su un’alleanza possibile e sempre aperta ad altri contributi. A supporto empirico di questa visione, ancora minoritaria, i patti di collaborazione più eloquenti, stipulati tra soggetti pubblici, privati e del terzo settore, testimoniano che in alcuni contesti pilota la stipula è possibile grazie a un reale snellimento della burocrazia. I cittadini italiani godono finalmente del diritto a prendersi cura dei beni comuni: tra i primi, al mondo. Questa è non solo la rivoluzione Basagliana intuita da Marianella Sclavi, ma anche il nuovo top della celebre scala della partecipazione di Sherry Arnstein.
Rischi reali, da contrastare con patti pilota
Questo diritto alla cura dei beni comuni è culturalmente difficile da mettere a fuoco, poiché in prima battuta viene confuso con il paradosso del doversi prendere cura dei servizi pubblici, favorendo l’arretramento dello Stato. Il rischio è reale e i gradini più bassi della scala della partecipazione devono continuare a servire da monito. Per questo è importante mettere in evidenza quei patti di collaborazione che, al contrario, testimoniano processi in cui l’azione pubblica viene invece rinforzata, a partire dalla libertà ad attivarsi attraverso azioni concrete, esercitando il diritto di prendersi cura di problemi irrisolti, nell’interesse generale.
Riferimenti bibliografici
Sherry R. Arnstein “A Ladder Of Citizen Participation” in Journal of the American Institute of Planners, 35:4, 1969, 216-224
Ciaffi D. “Sharing the Commons as a ‘New Top’ of Arnstein’s Ladder of Participation” in Built Environment, vol. 45, n. 2, 2019, pp. 162-172 (11)
Cotturri G. (2001) Potere sussidiario. Sussidiarietà e federalismo in Europa e in Italia, Carocci, Roma
Hardin G. “The tragedy of the commons” in Science, dicembre 1968, vol. 162, n. 3859, pp. 1243-1248
Mattei U. “I beni comuni fra economia, diritto e filosofia” in Spazio filosofico, gennaio 2013, n.7
Nakano G. E. “Creating a Caring Society” in Contemporary Sociology, gennaio 2000, vol. 29, n. 1, pp. 84-94 (traduzione francese)
Ostrom E. (1990) Governing the Commons, Cambridge University Press, Cambridge