Con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 13 dicembre 2018 – Ricorso nn. 67944/13 – Causa Casa di cura Valle fiorita S.r.l. contro Italia, i giudici sanciscono l’illegittimità dell’occupazione, prefigurando, tuttavia, un’ipotesi di legittimità “transitoria” per motivazioni di ordine sociale e problemi di ordine pubblico.
L’occupazione del fabbricato e le denunce del proprietario
La Casa di Cura Valle Fiorita S.r.l. (di seguito anche “Clinica” o “ricorrente”) è proprietaria di un fabbricato di circa 8000 metri quadri, situato nel quartiere di Primavalle, a Roma, nel quale ha esercitato attività sanitarie dal 1971 al 2011, in virtù di rapporti convenzionali siglati con l’Ospedale pubblico San Filippo Neri. Con la conclusione dell’ultima convenzione, avvenuta il 16 novembre 2011, l’edifico rimane vuoto ed inutilizzato, fino a che, il 6 dicembre 2012, un centinaio di persone irrompono nell’immobile e si appropriano dei locali, dando luogo ad un’occupazione che perdura sino ad oggi. Da qui l’insorgenza di un pregiudizio a carico della Clinica, che denuncia immediatamente (lo stesso giorno dell’avvenuta occupazione) l’accaduto alla procura della Repubblica, lamentando una violazione del diritto di proprietà. A ciò seguono ulteriori denunce da parte della Clinica, sporte tra il 7 dicembre e il 1° luglio 2013, nell’ambito delle quali spicca la richiesta di sequestro preventivo dell’immobile.
La decisione e i rilievi del Gip
A seguito della denuncia promossa dalla ricorrente, il Giudice per le indagini preliminari (Gip), in data 9 agosto 2013, accoglie la richiesta della procura, disponendo, in particolare, il sequestro preventivo dell’immobile. Dall’indagine, inoltre, emerge che l’immobile risulti occupato da circa 150 persone e che la gestione dell’occupazione, riconducibile all’azione del movimento di lotta per la casa, sia imputabile ad un gruppo ristretto di individui, aventi finalità di lucro.
Il Gip, in ultimo, evidenzia come dall’attività di inchiesta emerga anche una modifica dei locali ad opera degli occupanti, tale da configurare l’ipotesi del reato di occupazione abusiva di immobile (più precisamente “Invasione di terreni o edifici”), prevista e sanzionata nell’art. 633 c.p.
La mancata esecuzione del sequestro preventivo: le ragioni della Digos…
A seguito della disposizione del Gip, il procuratore, allora, delega alla “Divisione investigazioni generali e operazioni speciali” (Digos) l’esecuzione del sequestro, il quale a sua volta delega questo compito al “Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica” (Cposp), istituito presso ogni prefettura.
Sempre in questa fase, inoltre, la Digos, in data 18 settembre 2014, presenta una relazione sulla vicenda relativa all’immobile in oggetto al procuratore della Repubblica.
Al riguardo, la Digos sostiene, anzitutto, che, dato l’incremento delle occupazioni (abusive) di immobili registrato negli ultimi anni, sul territorio romano, ad opera di diversi movimenti per il diritto alla casa, spesso coinvolgenti centinaia di persone, sarebbe stato necessario, in simili circostanze, pianificare scrupolosamente gli sfratti degli occupanti, al fine di preservare l’ordine pubblico, da un lato, e, dall’altro, garantire l’assistenza necessaria alle persone vulnerabili coinvolte.
In secondo luogo, e con particolare riferimento al caso in esame, la Digos chiarisce che, nel settembre 2013, si decise di rinunciare all’esecuzione del sequestro, specie perché la situazione economica (deficitaria) di Roma capitale non avrebbe garantito nuovi alloggi per gli occupanti sfrattati.
… e del Prefetto
Alla luce di tale scenario, la Clinica intima all’amministrazione di dare esecuzione alla decisione del 9 agosto 2013 e, non ricevendo al riguardo alcuna risposta, in data 21 maggio 2015, adisce il Tar Lazio, lamentando una situazione di inerzia.
A questo punto, in data 17 giugno 2015, sopraggiunge anche la risposta del prefetto, il quale, in coerenza con quanto già emerso nella richiamata relazione presentata dalla Digos nel settembre 2014, afferma che, date le sue prerogative, non può eseguire gli sfratti in difetto di una previa garanzia di soluzioni alternative di alloggio, da parte di Roma capitale. Il prefetto aggiunge, inoltre, che non avrebbe potuto fare ricorso all’uso della forza pubblica, se non nel caso di sfratti disposti da un tribunale. Dal giudizio emerge altresì che il prefetto invitò, con nota del 30 marzo 2016, Roma Capitale a trovare soluzioni alternative di alloggio per gli occupanti, al fine di consentire lo sgombero dell’edificio.
Gli addebiti legati al consumo dell’energia elettrica e al mancato pagamento dell’imposta sull’immobile
Nell’ambito della suddetta vicenda, occorre anche ricordare che la ricorrente è risultata destinataria di un’ingiunzione di pagamento per il consumo di energia elettrica, relativa agli anni 2013 e 2014 (avverso la quale ha presentato opposizione al tribunale di Roma) e, come evidenziato in una nota di Roma Capitale del 9 agosto 2013, continua ad essere debitrice nei confronti dell’Amministrazione capitolina, in ordine al mancato pagamento dell’imposta sull’immobile oggetto di occupazione.
Le argomentazioni delle parti in sintesi
Volendo sintetizzare le argomentazioni delle parti, nell’ambito del presente giudizio, occorre sottolineare come la ricorrente denunci, in sostanza, l’inerzia delle autorità nazionali competenti, conseguente all’ordine di sequestro per occupazione abusiva dell’immobile disposto dal Gip.
Dal canto suo, il Governo, pur non contestando, in astratto, la configurazione del suddetto reato, sostiene che le autorità competenti – il prefetto e il Cpsop – siano intenzionate a contemperare il diritto di proprietà della ricorrente con i diritti fondamentali degli occupanti e l’esigenza di salvaguardare l’ordine pubblico, circostanza che legittimerebbe – secondo questa tesi – una sospensione dell’esecuzione del sequestro preventivo dell’immobile, in ragione della complessità della situazione e dei diversi interessi in gioco.
Le norme oggetto di contestazione
Ciò chiarito, con particolare riferimento alle norme oggetto di contestazione da parte della ricorrente, i giudici, dopo aver fugato agevolmente l’ipotesi della non ricevibilità del ricorso, promossa dal Governo italiano, per mancato esaurimento delle vie di difesa in ambito interno, valutano la prospettata violazione del “diritto a un equo processo” sancito nell’art. 6, co. 1, Cedu e del diritto alla “protezione della proprietà”, previsto nell’art. 1, Protocollo n. 1.
Il diritto a un equo processo
Così, la Corte, muovendo da una recente giurisprudenza del 2016, chiarisce, in primo luogo, che il diritto ad un equo processo sancito nell’art. 6, par. 1, Cedu, sebbene possa indurre a ragionare esclusivamente sui temi dell’accesso alla giustizia e dello svolgimento del procedimento, in realtà, concerne anche il diritto all’esecuzione di una decisione giudiziaria. A tal riguardo e per quanto più di interesse, secondo i giudici, una sospensione dell’esecuzione di una decisione giudiziaria sarebbe stata ammissibile se volta a trovare, entro un margine temporale strettamente necessario, una soluzione soddisfacente ai problemi di ordine sociale e pubblico. Tale circostanza, tuttavia, non ha trovato riscontro nel corso del giudizio, non rilevando oltretutto le motivazioni addotte dalle autorità amministrative in ordine alla mancata esecuzione del sequestro, che riconducono il mancato raggiungimento di soluzioni alternative di alloggio alle oggettive difficoltà economiche di Roma Capitale: la Corte, infatti, richiamando alcuni precedenti pronunciamenti, ricorda che “una mancanza di risorse non può costituire di per sé una giustificazione accettabile per la mancata esecuzione di una decisione giudiziaria”.
Il diritto alla protezione della proprietà
Secondariamente, la Corte delimita, anzitutto, il campo di applicazione della disposizione invocata in giudizio, chiarendo che la mancata esecuzione della disposizione del Gip da parte delle autorità amministrative è riconducibile alla previsione di cui al primo capoverso del primo comma dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 – secondo cui “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” – non traducendosi “in una misura di regolamentazione dell’uso dei beni” e “non deriva(ndo) direttamente dall’applicazione di una legge che rientra in una politica sociale ed economica in materia”, ipotesi – queste ultime – contemplate nel secondo comma del citato articolo.
In secondo luogo, i giudici sanciscono che l’esercizio reale ed effettivo del suddetto diritto alla protezione della proprietà, oltre a poter imporre allo Stato un divieto di astensione da qualsiasi ingerenza ai danni del privato, possa “esigere delle misure positive di tutela, in particolare laddove sussista un legame diretto tra le misure che un ricorrente potrebbe legittimamente attendersi dalle autorità e il godimento effettivo da parte di quest’ultimo dei suoi beni”. Peraltro, i giudici rilevano che tale assunto, combinato con il principio della preminenza del diritto, giustifichi la comminazione di una sanzione a danno dello Stato che non abbia dato esecuzione ovvero che abbia impedito l’esecuzione di una decisione giudiziaria.
Da tale ricostruzione, i giudici inferiscono una violazione della disposizione in oggetto, sulla base di motivazioni analoghe a quelle emerse con riguardo all’analisi dell’art. 6, par. 1, Cedu.
La decisione della Corte
In conclusione e per quanto di maggiore interesse, la Corte, rilevata la violazione delle succitate disposizioni, condanna lo Stato al pagamento di 20.000 euro a titolo di danno morale e deferisce la quantificazione del danno materiale – assai più cospicuo – ai giudici nazionali.
I punti chiave della sentenza
Ricostruita l’intera vicenda, sembra ora il caso di evidenziare alcuni punti chiave della sentenza. Innanzitutto, come si è avuto modo di constatare, i giudici ritengono inequivocabilmente leso il diritto di proprietà della ricorrente, censurando la mancata esecuzione (in via amministrativa) della disposizione del Gip. Si tratta di una decisione certamente condivisibile, specie perché l’occupazione risulta essere stata perpetrata con violenza e finalità lucrative a danno del privato, il quale si è attivato immediatamente per la difesa dei propri diritti, non trovando, tuttavia, alcuna risposta da parte delle autorità competenti.
Cionondimeno, i giudici ammettono anche che siffatte autorità avrebbero potuto sospendere per il tempo strettamente necessario l’esecuzione del sequestro preventivo (e dunque dello sgombero) dell’immobile, al fine di fronteggiare le prospettate problematiche di ordine sociale e pubblico, mediante la concreta ricerca di soluzioni alternative di alloggio.
Da questo punto di vista, dunque, la Corte afferma che motivazioni di ordine sociale e ragioni di ordine pubblico possano giustificare un restringimento (solo momentaneo) dei diritti del privato proprietario, esigendo, nondimeno, una pronta e adeguata risposta sul piano ordinamentale, la quale, tuttavia – sembra il caso di rimarcarlo – è risultata del tutto carente nel caso di specie.