Il saggio di Johnny Dotti e Andrea Rapaccini “L’Italia di tutti. Per una nuova politica dei beni comuni” offre spunti interessanti su quelli che possono essere gli sviluppi futuri per questo tipo di beni. Anzitutto, una delle questioni affrontate sin dall’inizio nel testo, è quella della necessità di superare la dicotomia pubblico/privato, in favore di una terza categoria che contenga i beni comuni, un terzo pilastro, come viene definito dagli autori stessi. Questo nuovo pilastro permetterebbe un’apertura verso l’economia civile e quindi verso una “coabitazione armoniosa e proficua tra tutti gli attori” (p. 24).
Beni comuni ed economia civile
Secondo gli autori i beni comuni dovrebbero essere riconsiderati come punti di mediazione tra la partecipazione, il bisogno e la realizzazione di sé, come veri e propri generatori di valore sotto l’aspetto economico, ma anche sociale; contengono infatti la caratteristica intrinseca di potersi trasformare in leve per l’innovazione sociale, solo però se prima si provvede alla creazione di istituzioni nuove che siano capaci di riportare l’attenzione sulla mutualità e solidarietà e al tempo stesso di generare valore economico e legami sociali (pp. 26-27).
È un’innovazione di tipo complesso perché riguarda i campi della tecnologia, dell’economia, della sfera sociale ed organizzativa, ma offrono anche l’occasione di innovazione nei servizi e nelle politiche attive del lavoro. Gli autori però ritengono che per il raggiungimento di queste condizioni sia necessaria la destatalizzazione dei beni, non al fine della privatizzazione, bensì per la creazione di alleanze generative tra pubblico, privato e società civile (p. 45).
Alleanze generative
La gestione di questi beni andrebbe ricercata nell’ambito dei modelli di economia generativa, diversi da quelli tradizionali perché in grado di generare, attraverso modelli multi-stakeholder, valore sociale ed economico che sia condiviso e quindi distribuito equamente tra i portatori di interesse. In questi modelli di economia generativa il ruolo dello Stato e del privato vengono integrati in nuove forme di “collaborazione, privatizzazione temperata o modelli avanzati di socializzazione dei beni comuni” (p. 54). Nel saggio vengono descritti almeno tre diversi modelli che si collocano in posizione intermedia tra l’impresa privata tradizionale e l’attore pubblico.
Tre modelli tra pubblico e privato
Il primo esempio è quello della “impresa benefit” la cui mission è quella di svolgere un ruolo sociale sul mercato grazie alla connessione del ritorno economico dell’investitore privato ad obiettivi specifici di impatto sociale, creando così un rapporto indissolubile tra interessi economici e sociali (p. 56).
Il secondo esempio è quello delle “imprese sociali” ossia quel tipo di imprese appartenenti al Terzo Settore senza fini di lucro che si pongono l’obiettivo di generare benessere sociale attraverso la vendita di prodotti e servizi sul mercato, operando con modelli di business innovativi su ambiti del mercato meno profittevoli. In Italia il modello che si avvicina di più a questo tipo di imprese sono le cooperative sociali, anche se non tutte le cooperative hanno le caratteristiche tipiche delle imprese sociali; molte di queste infatti vedono una collaborazione nella gestione da parte delle amministrazioni locali ed inoltre spesso si sostengono attraverso commesse pubbliche o finanziamenti devoluti da parte di enti istituzionali (p. 57).
L’ultimo esempio è quello dell’“economia civile” intesa come l’associazione di un numero rilevante di cittadini che si aggregano per gestire un bene comune di loro interesse. L’amministrazione del bene comune attraverso l’associazione può avvenire inizialmente attraverso una raccolta fondi tra i cittadini-utenti grazie al quale si provvede ad acquisire la proprietà e la governance del bene, per poi passare a un modello gestionale che può essere quello di partecipazione popolare per il controllo di un’impresa sociale. Il soggetto che gestisce il bene quindi, sotto l’occhio vigile delle associazioni di cittadini, avrà una missione di natura sociale, ma dovrà anche provvedere a mantenere un equilibrio economico nell’attività. In questo modo il plusvalore economico generato sarà in parte restituito ai cittadini finanziatori e in parte reinvestito per il miglioramento del servizio o la riduzione del costo dello stesso, favorendone così l’utilizzo anche da parte dei cittadini meno abbienti (p. 59).
Città, servizi e benessere comune
Nella parte finale del testo, sempre rispetto al tema della gestione dei beni comuni, gli autori si spingono oltre, affermando che la qualità della vita nelle città dipende dal modello di servizi pubblici locali che le amministrazioni scelgono di adottare, rispetto a quei servizi di interesse generale quali l’energia elettrica, le telecomunicazioni, i trasporti, l’erogazione del gas e dell’acqua potabile, ecc… (p. 111). Anche per la distribuzione di questi servizi è possibile l’applicazione dei tre modelli di gestione dei beni comuni sopra elencati, superando così la dicotomia tra gestione pubblica e privatizzazione.
Non a caso infatti in alcune città, questi modelli vengono già utilizzati sui beni di interesse generale, come dimostra l’esempio di Barcellona, dove avviene un forte e reale coinvolgimento della popolazione nel disegno delle politiche cittadine e dove l’amministrazione comunale in primis si impegna a governare in un’ottica partecipativa. Nel caso di Barcellona la differenza rispetto ad altri modelli di politiche partecipative sta nel tentativo di trasformare i cittadini da destinatari passivi delle scelte politiche ad agenti attivi, protagonisti del cambiamento della città. E questo è dimostrato dalla gestione dei servizi essenziali, dove oltre alla scelta tra pubblico e privato vi è una terza via, quella che immagina le risorse e i servizi come beni comuni che siano controllati, prodotti e distribuiti ai cittadini in base ai loro bisogni (p. 122-124).
Una prospettiva per il futuro
A seguito di tutte le osservazioni fatte fino a questo momento, gli autori elencano infine alcune azioni che le amministrazioni dovrebbero affrontare per garantire in futuro una gestione responsabile e sostenibile dei beni.
La prima di queste azioni è integrare, ossia impegnarsi in una politica che crei valore condiviso e partecipato tramite la misurabilità delle azioni e degli impatti determinati dagli attori politici delle pubbliche amministrazioni, per consentire una collaborazione autentica tra amministrazioni e cittadini. Un suggerimento degli autori è quello di istituire un’unità di economia sociale in grado di leggere in un’ottica di community holder gli impatti delle politiche dei singoli soggetti, inquadrando così le azioni nelle policy complessive dell’amministrazione. Inoltre quest’unità si occuperebbe di valutare nel tempo gli effetti delle decisioni legate ai beni comuni.
La seconda azione è orientare, in quanto la pubblica amministrazione necessita di conoscere e sperimentare alcuni strumenti per le valutazioni di impatto, non solo economico, ma anche ambientale, culturale e sociale. Un metodo proposto è quello di allargare la stessa governance della valutazione d’impatto per renderla uno strumento di democrazia partecipativa.
Terza azione è quella di ingaggiare: secondo gli autori infatti è necessario un processo di trasformazione per il management dei beni comuni, che faccia sue alcune delle caratteristiche essenziali dei modelli di management delle imprese.
Infine le P.A. sono chiamate a scegliere, in particolare a scegliere il peso degli indicatori raccolti durante la fase di valutazione d’impatto (pp. 133-145).
Per concludere gli autori affermano che i beni comuni vanno gestiti in una nuova fase di politica post-ideologica, inclusiva e partecipativa per enti locali e Regioni, in grado di diventare laboratorio di policy e di strumenti nuovi per proporre, anche a livello internazionale, un modello diverso di gestione dei beni comuni, che superi quello liberista di matrice anglosassone e che si basi di più sui tratti mediterranei che enfatizzano il rapporto fra persone, Stato e Mercato, armonizzando le differenze e le esperienze dei vari territori. È dunque necessaria una convocazione culturale collettiva che trovi una nuova via per amministrare i beni comuni per il bene comune (p. 147).