Un interessante dibattito su amministrazione condivisa, patti e beni comuni si è sviluppato a margine della presentazione online del Rapporto Labsus 2019.
Nella chat attivata durante la presentazione in diretta (per vedere la registrazione integrale clicca QUI) sono emersi contributi, idee, opinioni, domande per arricchire il panorama di azioni e pensieri che l’idea dell’amministrazione condivisa sta suscitando in queste giornate di crisi, e, soprattutto, ora che si pensa alla ricostruzione di un Paese sfiancato dal lockdown forzato. “La palestra dei patti è stata sempre aperta nella pandemia!”, ha scritto con entusiasmo Luca, e anche fuor di metafora, nel pieno rispetto delle norme di sicurezza.
Circa 9 mila persone raggiunte, con un picco di 200 persone connesse contemporaneamente e oltre 500 tra commenti e “reazioni” (compresi semplici mi piace e condivisioni), che difficilmente possono essere qui rappresentati per intero.
Molti partecipanti alla diretta, stimolati dalle introduzioni dei relatori intervenuti (Domenico Chirico, della Fondazione Charlemagne, Daniela Ciaffi, di Labsus, Donato Di Memmo, del comune di Bologna e Jacopo Sforzi, di Euricse), sono andati al di là delle semplici questioni organizzative e tecniche. Hanno, in decine di interventi qui riassumibili solo in parte (vedi la pagina Facebook), toccato temi di fondo e di principio che animano lo spirito dei patti di collaborazione.
Una ricostruzione vera richiede un Patto per l’Italia
Partendo da un punto certo che il presidente dell’associazione, Gregorio Arena, ha messo in luce vista la governance di questi tragici mesi di pandemia: «Senza la collaborazione della cittadinanza la pubblica amministrazione non riesce a trovare soluzione ai problemi di “sistema”. Basti già pensare alle grandi questioni della raccolta differenziata, del cambiamento climatico e dei flussi migratori. Il governo, anziché stabilire sanzioni, avrebbe dovuto stipulare un vero e proprio patto con la comunità nazionale sulla cura del bene comune “Italia”. La ricostruzione non potrà che essere tripolare: Stato, privato e, soprattutto, cittadini attivi che, da semplici “assistiti” saranno chiamati a svolgere un ruolo da co-protagonisti».
Gli fa eco, in piena sintonia, Enrico: «È vero che situazioni di eccezionale gravità possono legittimare il ricorso ad atti d’imperio ma, senza l’adesione partecipata della comunità, non si raggiungono grandi risultati. Occorre una svolta epocale destinata a modificare il modo di intendere e gestire le cose. Soltanto la condivisione di responsabilità può sfociare nell’esercizio di buone pratiche, utili alla tutela dell’interesse generale». E quindi invoca – anche citando indirettamente la Costituzione – un cambiamento che non sia di facciata, pur utili rimedi alle sofferenze, ma un vero e proprio radicale «cambio di paradigma nello stile di vita, nelle scelte quotidiane ma anche nella condotta delle istituzioni. Il potere pubblico, per essere credibile, semplifica le regole e diventa compagno di viaggio verso la meta finale. Non abbandona la sua mission originaria. Prosegue nella rimozione degli ostacoli sociali ed economici che impediscono alla persona di fiorire e di vivere un’esistenza bella e felice».
Perché la sussidiarietà fa rima con circolarità
Un cambiamento di mentalità che nasce dalla sperimentazione di una sorta di circolarità – come è stato sottolineato più volte: «La cura oggi non può essere più un concetto unilaterale, chi cura e chi è curato… – afferma Barbara – la cura deve essere circolare, per poter facilitare il cambiamento di mentalità necessario. Abbiamo tutti bisogno, siamo tutti diversamente capaci, ciascuno può dare un contributo. Mi piace moltissimo il concetto di Democrazia contributiva!». E per Alessandro: «L’empowerment relazionale è la circolarità e la condivisione del potere; dove si sfuma la distinzione tra aiutante e aiutato… è un concetto del social work… in termini politici-amministrativi è la sussidiarietà circolare»; «la sussidiarietà è fondamentale», per Pier Paolo. E Cosimo Damiano aggiunge: «Se vogliamo uscire da questa emergenza (e soprattutto non tornare indietro), la sussidiarietà deve diventare il “criterio di governance” sia locale che globale. Questo vuol dire che ciascuno (Stato, mercato, imprese e cittadini) deve agire in modo da aiutare l’altro a fare ciò che l’altro è in grado e può e deve fare. Non sostituirlo, non mortificarlo, non ignorarlo, ma “capacitarlo” nel senso di coltivare le capabilities (A.Sen)».
Prove tecniche (e concrete) di democrazia partecipativa
Insiste e integra Alessandro: «Stiamo provando a realizzare la democrazia partecipativa e la sussidiarietà circolare, principi fondamentali per la costruzione della governance sussidiaria multilivello, la nuova organizzazione mondiale». E Jenny pone in evidenza il fattore competenza, utile perché la democrazia non rimanga pura forma, metodo: «I cittadini, tramite i patti, mettono a disposizione la loro expertise. Ognuno quella che possiede… ed è un’occasione per metterla a disposizione di tutta la comunità… dietro i cittadini attivi, ci sono veri e propri professionisti!».
Democrazia partecipativa che interseca un altro tema importante (Arena ne ha sottolineato ed evidenziato il valore, ma, per ovvie esigenze di tempo, non ha potuto trattare il tema con lo spazio che merita): la coprogettazione. Per Marta «La coprogettazione e gli strumenti di governance e democrazia partecipativa sono questioni fondamentali per lo sviluppo dei patti»; Pietro ne sottolinea il peso legandola a temi come Trasparenza e Legalità; Alessandro si domanda se la «normativa specifica sulla coprogettazione si può integrare con i patti di collaborazione»; e Alfina se «chi lavora nella scuola è già sono coinvolto nella coprogettazione».
Ma se le amministrazioni locali sono sorde?
Non sono mancati i riferimenti agli ostacoli e le difficoltà che i percorsi di attuazione dell’amministrazione condivisa inevitabilmente incontrano nelle dinamiche territoriali: a partire dal «rapporto tra Municipi e Amministrazione centrale, una questione che riguarda tutte le grandi città», (Alessandro); passando per la necessità di fare i conti con la scarsità future delle risorse, che per Luigia potrebbe essere ovviato con il “modello distretto civico”; fino al grido preoccupato di Gennaro: «cosa si deve fare quando le amministrazioni sono SORDE ?? io avrei qualche idea…ma servirebbe il vostro aiuto!». Al quale – forse – dà una parziale risposta Enrico che, riferendosi ad un contesto di “vita reale”, quello dell’ente locale, suggerisce di «coinvolgere gli operatori pubblici al tavolo della co-governance, considerandoli un bene comune da valorizzare al pari degli altri, facendo in modo che si sentano anche loro protagonisti».
E al Sud? No, non è tutto negativo
E con una dose pesante di realismo, Domenico, dalla Campania, afferma perentorio: «Come realizzare quei modelli di cittadinanza attiva, patti di collaborazione e tutte le cose belle che vorremmo quando in alcune zone del nostro paese, la criminalità organizzata controlla quasi tutti i tessuti sociali in sostituzione dello Stato democratico che non è mai esistito». Un grido di allarme che prova ad essere contrastato, almeno, da una esperienza molto positiva quale quella di Palmi (citata spesso dai relatori), dove, informa Consuelo: «abbiamo previsto per i beni confiscati alle mafie il Regolamento per la gestione dei beni confiscati, e si parla con regolamento per beni comuni».
Il reddito di cittadinanza per la cura dei Beni comuni? Tradirebbe lo spirito dei Patti
Il dibattito a distanza ha toccato temi di attualità emerso anche in queste settimane quali il rapporto tra i percettori del Reddito di cittadinanza e attività svolte a beneficio della collettività. Francesca: «Spesso le persone che percepiscono reddito di cittadinanza non sanno come coinvolgersi in progetti di cittadinanza attiva. In questo la pubblica amministrazione potrebbe coinvolgere queste persone che si metterebbero a disposizione per avere un obiettivo sociale nella giornata», utile, forse, ma di certo non in linea con il concetto di volontariato dei cittadini attivi, che non prevede la obbligatorietà del servizio per un reddito ricevuto dalla Stato. Ne tradirebbe lo spirito e – alla lunga – produrrebbe meno benefici di quel che ci si aspetta.
Idee da mettere in campo per fortificare i Patti
E poi ci sono stati molti suggerimenti, a testimonianza di quanto il circuito (quella circolarità?) prenda sempre più piede. Paolo scrive: «Cosa ne pensate di un patto cittadini volontari-imprese con il pubblico in un ruolo di garante? In questo momento in cui le imprese sono in crisi, potrebbero essere coadiuvate dall’apporto del volontariato per riorganizzarsi in questa fase delicata. Una volta superato questo momento delicato, saranno le imprese a supportare il rilancio delle attività tipicamente pubbliche dell’associazionismo per ricreare il tessuto sociale. Un passaggio dal volontariato d’impresa al volontariato nell’impresa!»; per Teresa: «Si dia maggiore risalto anche all’agricoltura sociale che abbraccia contemporaneamente welfare e comunità»; e Gianfranco punta alto: «Attraverso i patti di collaborazione, attivare quella microeconomia locale post virus».
Infine, precisazioni: «L’idea che lo spazio pubblico collettivo sicuro si generi da condizioni collaborative e statutarie e non da regole e regolamenti sopra la necessità della democrazie dello spazio per come viene vissuto», Consuelo; «L’amministrazione condivisa permette di affrontare le diseguaglianze attraverso l’uguaglianza, è questo è un viatico per il cambiamento», Luca.
E domande che, oltre a porre questioni tecniche invitano ad aprire piste di riflessione: «In quanto tempo si riesce a formalizzare un patto di collaborazione in fase emergenziale?», Giustina; o Andrea, che partendo da una considerazione importante, «L’amministrazione pubblica sarà più disposta a collaborare tanto più sarà costituita da rappresentanti di cittadini formati e consapevoli circa l’esistenza dei patti di collaborazione», chiede: «esiste una strategia per divulgare massivamente la realtà della gestione condivisa dei beni comuni e dello strumento dei patti di collaborazione? Per accedere ad una platea più ampia ed incrementare la consapevolezza dei cittadini…». Bella domanda, si proverà a rispondere nelle prossime settimane dalle pagine di questo sito.
Quindi i ringraziamenti di rito e le testimonianze di una presenza che non viene meno neanche nei peggiori momenti di crisi, anzi, a volte si rafforza: Myriam, per gli operatori di Progetto Collegno giovani, «siamo pronti a ripartire»; Pietro, di Social Community Beni Comuni, Taranto e Provincia; Federica Cooperativa sociale Dumia, «fattoria sociale e per la costruzione di un sogno»; Antonio: «Sarò di parte ma spero che questa nuova realtà dia una maggiore spinta per il Borgo di Chiaravalle, una realtà che potrebbe tornare utile a tutta la comunità in termini di distanziamento sociale».
A proposito: bene ha fatto Arena a sottolineare in chiusura. Ma quale distanziamento sociale, questo è il necessario – e duro – distanziamento fisico! Di socialità, invece, proprio quella che si nutre di fiducia e di vicinanza, il nostro Paese ha più che mai bisogno.
Dovremmo essere capaci, tutti, di adeguarlo a forme e sostanze compatibili con la sicurezza e la salute. Labsus ci prova e qualche idea ce l’ha.