Per molti di noi fu una svolta naturale, undici anni fa, sostenere col nostro voto il referendum sull’acqua come bene comune, e non come servizio pubblico. Essere consapevoli di questa differenza tutta italiana, guardata con meraviglia da molti osservatori internazionali, e tornare a considerarla, attualizzandola, potrebbe essere utile a trovare risposte alle numerose domande che l’emergenza sanitaria ha recentemente aperto. Così come l’acqua può essere pensata sia come servizio (pubblico o privato) che come bene comune (dal cui uso nessuno è escluso), così potrebbe essere per molti altri servizi: la sanità, la casa, la scuola, i trasporti, il verde, la cultura eccetera. Questa è l’ipotesi. E da quando il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni permette di stipulare Patti di collaborazione, migliaia di persone in Italia si stanno, per così dire, allenando a testarla. Impegnarsi in azioni rivolte al benessere di tutti e sempre aperte a nuovi contributi: questo è il principio ispiratore di una palestra a cui sempre più persone partecipano. In questa rivista lo abbiamo scritto spesso: una scuola elementare è, ad esempio, certamente un servizio pubblico, da quando apre al mattino a quando suona la campanella pomeridiana, ma poi può trasformarsi in un bene comune, aprendosi al quartiere fino a sera con attività di interesse generale organizzate da gruppi di abitanti. L’acqua, la scuola e altri servizi simili, come la sanità, insomma, possono essere considerate anche come Beni comuni, e non solo come servizi pubblici.
Prendersi cura dei servizi prendendosi cura della distanza
Spazi e servizi ibridi e condivisi sono già una realtà piuttosto diffusa, che abbiamo peraltro cercato di fotografare nel Rapporto Labsus 2019, uno dei pochi bilanci complessivi su circa sei anni di impegno da parte di soggetti diversi ma accomunati da questa visione del mondo. È la società della cura, che non solo usa e consuma spazi e servizi, ma che se ne prende anche cura, come nell’esempio della scuola elementare sopra citato. Ora, in tempi di pandemia, a questo tema se ne aggiunge un altro, che Virgilio Sieni, esperto dei linguaggi del corpo e della danza, ha recentemente riassunto con l’invito rivolto a tutti di «prendersi cura della distanza». Nei dibattiti on line che Labsus ha organizzato in questi mesi, tutte le testimonianze delle persone attive in questa fase di ricostruzione sono state contraddistinte da questa duplice attenzione: alla cura dei Beni comuni e, al tempo stesso, della distanza. A proposito, un’altra parola su cui Sieni ci consiglia di riflettere è “adiacenza”, concetto centrale anche per parlare di servizi ibridi condivisi, dacché molte esperienze ̶ portate avanti da chi si impegna nei Patti o in altre forme di Amministrazione condivisa dei beni comuni ̶ non sono centrate sull’innovazione dei servizi in sé, ma sull’innovazione intesa come “lavoro al contorno” dei servizi. Molte sono le riflessioni che potremmo fare a questo punto, ma riteniamo che tre, in particolare, siano fondamentali.
Primo: l’integrazione dei servizi attraverso il prezioso contributo spontaneo delle persone
Vi sono questioni di strettissima attualità che riportano la nostra attenzione sulla voglia di contribuire alla gestione dei Beni comuni intesa come integrazione dei servizi, e non come sostituzione dei compiti istituzionali da parte dei cittadini attivi. Usiamo il termine integrazione facendo riferimento a tutte quelle capacità diffuse tra le persone che possono rendere più completo l’uso di uno spazio e/o di un servizio. Ma un buon piano integrato può arrivare talvolta a costituire la sola alternativa a scelte drastiche, come la chiusura di un servizio o il divieto d’uso di uno spazio pubblico, o escludenti, come la privatizzazione che ne consenta l’accesso solo a chi può permetterselo economicamente. Due immagini di queste settimane sono a proposito certamente emblematiche. La prima riguarda l’organizzazione delle spiagge in vista della stagione estiva: lo scenario della privatizzazione in cui i responsabili pubblici scaricano ogni responsabilità sanitaria sul gestore concessionario è l’esatto opposto della logica del servizio ibrido e condiviso. La seconda immagine è quella del divieto di accesso al verde attrezzato per i giochi dei bambini: davvero mamme, papà, nonni, nonne, babysitter e tutti i molti attori che si prendono quotidianamente cura dei più piccoli non potrebbero contribuire a prendersi cura della distanza tra di loro condividendo alcune regole di uso dei giochi e degli spazi, nel rispetto delle regole vigenti, ma anche attraverso un loro spontaneo contributo a farle rispettare, magari anche con creatività?
Secondo: l’imprescindibile dimensione dello stare bene insieme
Una dimensione troppo spesso svilita e sottovalutata nei processi di ricostruzione, quando invece è fondamentale e molte testimonianze del dopoguerra e del post-catastrofe lo confermano, è quella dell’animazione della città e del territorio. Dalle riflessioni sulla scuola e sul verde attrezzato come beni comuni vorremmo passare ai servizi per le persone anziane, citando l’esperienza francese di “Les pas delicats”, che dichiara di non lavorare sui servizi medici agli anziani in senso stretto, ma di occuparsi invece, per riprendere il concetto di “adiacenze” messo a fuoco da Sieni, di tutta una serie di attività ludico ricreative che coinvolgono, oltre a una decina di membri della cooperativa, decine di animatori volontari del territorio. Ispirandosi a valori comuni quali l’ascolto, la cura, la solidarietà, la condivisione e il rispetto della dignità umana, e dandosi come obiettivi la promozione del benessere a casa promuovendo azioni di prevenzione e animazione, la rottura dell’isolamento, il ritardare il ricovero presso strutture per anziani non più indipendenti. Anche in questo caso, quello che potrebbe sembrare un lavoro al contorno del servizio sanitario istituzionale di cura degli anziani si rivela invece centrale, contrastando la logica delle case di riposo, per anziani ancora autosufficienti, isolate dal resto della società: l’ecatombe che si sta verificando in occidente è speculare a quella che in contesti non democratici sta avvenendo negli spazi in cui si accalcano lavoratori schiavizzati. Luoghi di contagio, insomma, dove il valore della vita non è lo stesso che nel resto delle società privilegiate.
Terzo: prevenire e curare sono in una relazione più stretta di quanto si immagini
Come ha sottolineato Donato Di Memmo, del comune di Bologna, il rischio più grave che stiamo correndo è infatti quello di «crisi di marginalizzazione irreversibili». In questo senso le azioni preventive diventano urgenti, chiedendosi anche quale valore preventivo abbia tutto il lavoro fatto in questi anni sul fronte dell’Amministrazione condivisa dei beni comuni, attraverso tutte quelle forme di ibridazione e condivisione dei servizi intesi come beni comuni. Molto concretamente, ad esempio, le esperienze pilota sui beni digitali come Beni comuni vanno in questo senso: quando ripartiranno le scuole e dovesse verificarsi una nuova ondata di epidemia, o una nuova emergenza ambientale, infatti, o avremo lavorato preventivamente su esperienze concrete di condivisione di strumenti tecnologici con chi non ne è provvisto, oppure ancora una volta assisteremo a ingiustizie sociali in termini di fruizione dei servizi di base come quello educativo. La relazione tra prevenzione e cura, sottolineano spesso esperti di settori diversissimi, dall’educazione alla medicina, è tra l’altro assai più stretta di quanto normalmente si immagini. Lavorando ad esempio sulla cura delle reti di prossimità e di comunità tanto gli animatori di strada quanto i medici di base di persone anziane portano frequenti evidenze empiriche quali un minor abbandono scolastico per i giovani e un abbassamento nell’uso di medicinali per gli anziani.
Perché dunque parlare di servizi ibridi e condivisi?
Le fasi dell’emergenza sanitaria e della ricostruzione hanno insomma reso ancora più evidente il tema dell’Amministrazione condivisa, anche dei servizi, come beni comuni. Perché? Da un lato la condivisione è motivata dal fatto che ci è ora ancora più evidente che molti servizi, che sempre più persone percepiscono come Beni comuni, si sono trovati di fronte a sfide che non possiamo continuare a pensare che vengano affrontate solo dai responsabili pubblici. Dall’altro lato abbiamo parlato di ibridazione perché, in questa emergenza sanitaria globale come già da tempo, si è manifestata una diffusa voglia di contribuire insieme alla soluzione dei problemi, ognuno con il proprio saper fare: responsabili pubblici con ruoli tecnici e politici, soggetti privati, associazioni e gruppi informali, ma anche singoli individui.
Foto di copertina: Hussain Badshah su Unsplash