Qual è il ruolo dell’ambientalismo nella fase che si è aperta con la più grave emergenza sanitaria globale della modernità? Bastano gli strumenti d’analisi, le chiavi di lettura consolidate quantomeno durante gli ultimi sessant’anni, per misurarci con le molteplici incertezze che provoca la pandemia? In teoria sì, anzi: il pensiero ambientalista è quello con le carte più in regola per interpretare fenomeni complessi come quelli che derivano dal salto di specie e dalla diffusione di un virus su scala planetaria, per comprenderne le cause alla luce degli squilibri sistemici che favoriscono la circolazione di questi e altri microrganismi. E soprattutto per indicare alla comunità umana l’unica via praticabile al cospetto del processo biologico che si presenta, vale a dire l’adattamento alle nuove condizioni al contorno (ben oltre l’utilizzo delle mascherine, bisogna ripensare per intero i nostri parametri di convivenza) e la costituzione di un nuovo equilibrio.
Le nuove emergenze dell’ambientalismo post-Covid
In teoria, appunto. Nella realtà invece le cose sembrano stare diversamente. Perché il movimento emerso durante gli anni Sessanta fra gli Stati Uniti (con la pubblicazione del celebre saggio contro i pesticidi di Rachel Carson, “Primavera silenziosa” del 1963) e l’Europa (con le prime mobilitazioni in Gran Bretagna e Germania, poi nella stessa Italia), che stava vivendo peraltro una nuova fioritura grazie alle convocazioni di Greta Thumberg, fatica ad emergere nel dibattito sulla ripresa economica, tantomeno a guidarlo in una direzione utile, per esempio a proposito del Recovery fund. Colpito al cuore o quantomeno spiazzato da uno choc che ha portato in auge ben altre emergenze rispetto a quelle che hanno costituito la narrazione prototipica dell’ecologismo: l’inquinamento come fattore di rischio per la salute, la sostenibilità come sfida anche sotto il profilo economico per abitare la Terra senza pregiudicare il benessere delle future generazioni riducendo per di più le disuguaglianze, gli sconvolgimenti climatici come massima minaccia e sintomo di un errore individuato, con mirabile anticipo, nel 1972 dal Club di Roma attraverso il rapporto del Mit su “I limiti della crescita”.
È sempre colpa dell’arbitro?
Ci sarà, certo, l’ostracismo dei media cui gli ambientalisti pagano storicamente pegno, esacerbato dal regime d’emergenza che relega ancora più ai margini il discorso scomodo del cambio di paradigma: in fondo il messaggio che più spesso circolava durante il lockdown riguardava il desiderio di “tornare” alla normalità, dunque verso quelle stesse strutture economiche, sociali e culturali che avevano determinato la proliferazione del virus. E non sarà un caso che Extinction Rebellion, fra le più recenti esperienze di mobilitazione socio-ambientale, si sia scagliata nelle scorse settimane a Londra contro le testate di Rupert Murdoch colpevoli di concedere poco spazio all’emergenza climatica. Ma è sempre colpa dell’arbitro? E l’ambientalismo oggi può rimanere uguale a sé stesso, se tutto intorno cambia, è del tutto scevro da responsabilità al cospetto della sua stessa impotenza? Il sistema di pensiero, il repertorio di conoscenza e le forme organizzative maturate durante la “fase uno” del movimento, per quanto cariche di senso, sono ancora esaustive dei bisogni che si pongono nell’epoca post-Covid?
Ci vorrebbe un’autocritica
Diciamo innanzitutto che almeno un’autocritica la cultura ecologista, verso la quale chi scrive nutre peraltro un debito fortissimo, deve compierla. Se ambisce infatti a indicare la via della transizione, se basa la propria analisi in forma trasversale su diverse discipline, biologia compresa, con il proposito di organizzarle in una direzione innovativa, avrebbe potuto certamente tirare l’allarme per tempo – come accade giustamente a proposito degli sconvolgimenti climatici – circa il rischio della zoonosi che ci ha travolto. E sì che le basi per comprenderlo non mancavano: nel 1979, James Lovelock, oggi ultracentenario, marginalizzato a causa delle sue posizioni filo-nucleariste (fortunatamente oggi ridimensionate) ma capace di visioni che pochi hanno raggiunto nell’ultimo secolo, varava la teoria di Gaia che descrive il pianeta come un superorganismo vivente di cui anche la nostra specie rappresenta una funzione, con i suoi processi fisiologici e le sue patologie. Gaia sarebbe anche capace di “vendicarsi”, come recita il titolo di un suo volume del 2006 (“The revenge of Gaia”, Penguin), tanto che in una recente intervista alla Bbc lo studioso ha indicato il Coronavirus, non senza scatenare ulteriori polemiche, proprio come un fattore di autoregolamentazione del sistema. Il concetto di “One-health” poi, coniato negli anni Novanta dall’eminente veterinario statunitense Calvin W. Schwabe, chiama in causa proprio l’idea che la salute delle specie animali, compresa quella umana, vada salvaguardata nel suo insieme attraverso la cura dell’habitat planetario. Ne discendono, nel 2004, i Principi di Manhattan adottati da una rete di medici, studiosi ed esponenti dell’Oms, della Fao, dell’agenzia americana per la salute pubblica Cdc e di altre istituzioni sanitarie internazionali che richiedono una visione sistemica e una sorveglianza integrata fra medicina umana e animale.
Siamo noi gli invasori, non i germi!
I punti da evidenziare, fra i 12 che compongono questo documento meno noto di quanto meriti, sarebbero molti. Ne estrapoliamo tre: «1) Riconoscere il legame essenziale tra la salute di esseri umani, animali domestici e specie selvagge e la minaccia che le malattie pongono alle persone, la sicurezza alimentare ed economica, ed alla biodiversità necessaria al mantenimento di un ambiente sano ed un ecosistema ben funzionante di cui noi tutti abbiamo bisogno; 2) Riconoscere che tutte le decisioni riguardanti l’uso della terra e dell’acqua presentano implicazioni rilevanti per la salute. Ogni qualvolta ignoriamo questa relazione si manifestano alterazioni dell’ecosistema e l’emergenza di nuove malattie»; e ancora, cinque punti più sotto: «7) Ridurre il commercio e regolare la conservazione e la caccia delle specie selvagge, non solo per proteggere tali specie, ma anche per ridurre il rischio di trasmissione delle malattie, anche tra le specie, e lo sviluppo di nuovi ospiti per i patogeni». Un approccio rivoluzionario, insomma, quello di One health, che mette in discussione il paradigma del “germe invasore”, derivante dagli studi ottocenteschi di Pasteur e Koch, tanto da richiedere una narrazione diversa anche nel campo delle politiche sanitarie, come spiega la giornalista statunitense Sonia Shah (autrice fra l’altro di “Pandemic: Tracking Contagions from Cholera to Ebola and Beyond”, Farrar, Straus & Giroux, 2016): «La maggioranza dei patogeni che sono emersi dal 1940 in poi hanno avuto origine in animali e sono entrati in contatto con le popolazioni umane non perché ci hanno invaso ma perché noi abbiamo invaso i loro habitat», scriveva in un intervento illuminante pubblicato a luglio su “The Nation” e ripreso in Italia da “Scienza in rete”, «invadendo le aree umide e tagliando le foreste abbiamo costretto animali selvatici ad ammucchiarsi in frammenti di habitat sempre più ristretti, portandoli in contatto intimo con le popolazioni umane. È questa prossimità, che noi forziamo grazie alla distruzione degli habitat della fauna selvatica, che consente a molti microbi animali di avere accesso ai corpi degli umani».
L’ambientalismo moderno e il rapporto fra i viventi
Quanto appartengono queste visioni alla cultura egemone dell’ambientalismo moderno, quanto “pesa” questa componente d’estrazione naturalistica, olistica e microbiologica, centrata appunto sul rapporto fra conservazione del bioma e salvaguardia della salute, nel dibattito “verde” per come si è sviluppato dalla Conferenza di Stoccolma del ’72 in poi, dall’Earth Summit di Rio del ‘92 a Rio+20, dal protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi? La battaglia ambientalista, centrata in larga parte sull’hardware delle fonti energetiche, sul tema delle emissioni industriali e della riconversione alla green economy, ha tenuto sufficientemente conto di quanto covava sotto la cenere del superorganismo, nel rapporto fra i viventi?
Al movimento ambientalista sono mancate le “antenne”
Sta di fatto che gli unici soggetti che hanno preconizzato la diffusione esponenziale di un virus, al di là delle fake news e dell’aneddotica, non sono certo degli ambientalisti. Si tratta, infatti, di Bill Gates con la sua relazione durante un Ted Talk di cinque anni fa, mentre l’Oms cercava a fatica di fronteggiare la tragica evoluzione di Ebola, evocando appunto le conseguenze della diffusione di un patogeno altamente contagioso; e del divulgatore americano David Quammen con il suo “Spillover” (pubblicato in Italia da Adelphi dal 2015) che ha goduto di un’improvvisa popolarità la scorsa primavera visto il tema che tratta, il salto di specie appunto dei microrganismi verso l’uomo come lo stesso Hiv-1 ha insegnato nella seconda parte del Novecento. Vogliamo dirlo? Al movimento ambientalista storicamente strutturato sono mancate le “antenne” – e forse la capacità di stare dentro le nuove forme di mobilitazione sociale, dopo l’epoca di Porto Alegre – anche al cospetto di un’altra pandemia sbocciata apparentemente dal nulla e di segno fortunatamente diverso, quella dei millennials che hanno popolato le piazze (da noi e altrove) dalla primavera del 2019 con i “Fridays for future”. Salvo inseguire, il giorno dopo, questa forma di “ambientalismo virale” per individuarne le origini, cercarne le lacune, immaginarne i desideri, studiarne le procedure quasi fossero esemplari da laboratorio. E magari ricondurlo nell’alveo dei processi già noti.
Ci vorrebbe un “ecologismo liquido”
L’ambientalismo (alla stregua di altri “-ismi”) ha esaurito, dunque, la sua spinta d’innovazione, la sua attitudine alla divergenza? Sarebbe paradossale affermarlo in un momento tanto cruciale, quando la riconversione verso modelli di convivenza a basse emissioni di carbonio, più coerenti anche sotto il profilo della socialità fisica con le forme della natura, appare a tutti (o quantomeno a molti) come una necessità, complice anche l’endorsement, ci si passi il termine, dell’enciclica “Laudato si’…” che proprio cinque anni fa esplicitava anche sul piano confessionale la centralità di questa sfida. Eppure nel frattempo molte cose sono cambiate e la capacità d’interpretare fenomeni virali, in ambito sociale e naturale, anticipata dall’evoluzione collaborativa del web, diventa essenziale perché un organismo, compresa una comunità di idee, possa ritenersi contemporaneo. Sono le forme – ma quante volte, da McLuhan in poi, per rimanere in ambito sociologico, abbiamo ripetuto che la forma è sostanza – che probabilmente devono adeguarsi e qui ci soccorre un intervento che il politologo Mario Giro ha pubblicato sul primo numero del quotidiano “Domani” (il 15 settembre), evocando l’idea di un “ecologismo liquido”, magari meno istituzionale, meno ossessionato dalla proiezione o dalla cooptazione politica, più orientato verso l’azione diretta e la virtù civica, coerentemente con altre forme d’intervento che oggi si presentano.
Rimettiamo al centro la riflessione sulla natura
Guai a smontarne il percorso, per carità. Ma accettare l’evoluzione del movimento ambientalista con l’imprevedibilità che questo comporta e rimettere al centro la riflessione sulla natura, anziché la sostenibilità dello sviluppo antropico, in un’ottica di alleanza fra le generazioni e di ampliamento delle conoscenze che permetta di tutelare in forma collaborativa il bene comune dell’ecosistema, è forse indispensabile per rendere utile questa corrente di pensiero alle problematiche umane che comunque si sarebbero poste, anche se un virus di nuova generazione non avesse sconvolto la nostra esistenza.
Marco Fratoddi è direttore di Sapereambiente e caporedattore di Agricolturabio.info, docente di scrittura giornalistica presso l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, direttore artistico del Festival della virtù civica.
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