Alle recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti si sono presentati alle urne oltre 160 milioni di cittadini americani, il numero più alto di sempre. Al di là dei numeri, confortanti in termini di partecipazione, il diritto al voto in realtà rimane un percorso ad ostacoli, soprattutto per le minoranze. Partendo da una breve analisi dei dati sull’affluenza e da alcuni cenni storici sulle conquiste nell’ambito dei diritti civili e politici, cercherò di tracciare una panoramica sulle principali difficoltà che limitano il diritto di voto negli USA e sulla capacità di mobilitazione a livello comunitario. Infine tenterò di portare alla luce alcune criticità riguardanti la manipolazione delle informazioni e dell’opinione pubblica, un aspetto meno indagato rispetto alle strategie per la limitazione del diritto di voto, ma che rischia di minare il processo democratico e di corromperlo in modo irreversibile.
L’affluenza importante
Nel 2020 l’affluenza alle presidenziali è stata del 66,7%, per trovare una percentuale simile bisogna risalire al 1908, all’elezione del repubblicano Taft. All’epoca però la popolazione americana era meno di un terzo di quella attuale (circa 92 milioni – censimento del 1910), il voto era precluso alle donne e, in molte aree, alla popolazione afroamericana. Quattro anni fa votarono 139 milioni di americani, il 59,2% degli aventi diritto. Secondo le statistiche, nel 2020 hanno votato 20,6 milioni di latini, 19 milioni di afroamericani, 103,5 milioni di bianchi e 4,7 milioni di cittadini di origine asiatica. Joe Biden è stato quindi il presidente eletto con più voti nella storia degli USA: 75 milioni. Trump ha ottenuto 70 milioni di voti, record per un presidente uscente. Obama nel 2008 ne ottenne 69 milioni.
Il diritto di voto negli USA
Il suffragio femminile su tutto il territorio federale degli Stati Uniti venne approvato esattamente un secolo fa con la ratifica del XIX emendamento della Costituzione. Gli afroamericani invece dovettero attendere il Civil Rights Act del 1957 per esercitare il loro diritto di voto: prima di quell’anno la percentuale di neri americani che si erano registrati per votare era intorno al 20%. Il Civil Rights Act del 1964 rese successivamente illegali la discriminazione razziale e la segregazione. Nel 1965, dopo decenni di lotte per i diritti civili, venne infine approvato il Voting Rights Act che rappresentava un pilastro in materia di diritti civili, di diritto di voto e di lotta alla discriminazione razziale negli USA. Nel 2013, una sentenza della Corte Suprema ha però abrogato, ritenendola incostituzionale, la sezione 4 della legge, cioè quella che obbligava nove Stati (in prevalenza del sud) a richiedere un’autorizzazione preventiva federale per cambiare la propria legge elettorale, a causa della loro storia di discriminazione razziale. Proprio in questi Stati infatti, la legge elettorale era stata utilizzata come strumento per estromettere le minoranze dal voto. Negli anni successivi diversi Stati hanno approvato leggi che complicano e limitano l’accesso al voto: limitazione degli orari di apertura dei seggi, necessità di munirsi di un documento di identità (vedi paragrafi successivi), limitazioni al voto anticipato, cancellazione della possibilità di registrarsi nelle liste elettorali il giorno stesso delle elezioni.
Voto anticipato
Tornando ai numeri, nel 2020 a causa della pandemia da nuovo Coronavirus sono stati oltre 100 milioni gli americani che hanno deciso di esprimere il proprio voto anticipatamente (early voting) di persona o per posta. Senza entrare nei dettagli delle procedure di ogni singolo Stato, il voto anticipato è una formula molto diffusa poiché permette di recarsi ai seggi o di spedire la propria scheda elettorale fra i 45 e i 4 giorni prima dell’election day. Le schede vengono poi scrutinate tutte insieme alla chiusura dei seggi. Quest’anno circa il 62% dei votanti aveva già espresso la propria preferenza prima del 3 novembre. Il fattore Covid-19 è stato determinante e ha spinto diversi Stati ad allargare per la prima volta le possibilità del voto anticipato, anche per corrispondenza, per facilitare le procedure di voto e l’affluenza ai seggi. Diversi analisti politici avevano previsto che la formula del voto postale, apertamente contestata da Donald Trump (in realtà prevista dai tempi della guerra civile), sarebbe stata utilizzata in percentuale maggiore dagli elettori democratici, più sensibili al timore del virus rispetto ai repubblicani. Questo non è stato l’unico elemento determinante, la capacità di mobilitazione dei candidati democratici, ad esempio, ha fatto la differenza, ma nel complesso l’analisi si è rivelata corretta. In una mia recente intervista ad Oliver Stone, il regista ha commentato il recupero di Biden in diversi Stati chiave, proprio come conseguenza dell’early voting: «Sto seguendo i risultati minuto dopo minuto come te. Sono rimasto scioccato e sorpreso che Trump e Biden fossero testa a testa. Pensavo che sarebbe stata una vittoria schiacciante per Biden onestamente. Lo pensavo davvero, ma poi mi sono preoccupato perché durante lo spoglio dei voti stavano chiaramente accadendo due cose. Una era che c’era una resistenza incredibile dal cuore del Paese, possiamo chiamarle zone rurali-suburbane. […] Poi sono rimasto sorpreso dal fatto che ci sia stato meno supporto per il cambiamento di quanto mi aspettassi. Mi aspettavo che il popolo americano fosse stanco di Trump, stanco del suo comportamento scorretto, ma non lo è. Trump è stato apertamente oltraggioso, nel suo ultimo discorso elettorale, quando ha detto: ‘Abbiamo vinto e dobbiamo smettere di contare i voti perché stanno rubando’. È vergognoso che il presidente degli Stati Uniti dica che stanno truccando le elezioni proprio mentre si stanno ancora svolgendo. È così fuori dalla legge. È come se stesse fingendo di poter essere sia il commentatore che il protagonista nel suo spettacolo. Ha abusato del suo ruolo e solo per questo dovrebbe essere buttato fuori. Sembrava che Biden stesse perdendo nel Michigan, in Pennsylvania e in Georgia ma poi i risultati sono cambiati e questo ha senso perché io stesso, come tante persone, ho votato prima delle elezioni e questi sono i voti postali che Trump vuole cancellare. Non è finita, Trump farà tutto ciò che può, non sa perdere, è quello che chiamano un pessimo perdente. Vorrà che ogni voto venga controllato e renderà tutto il più difficile possibile. Combatterà con le unghie e con i denti fino al 14 dicembre (data in cui i 538 grandi elettori si riuniranno per votare presidente e vicepresidente, ndr)».
Le differenze con l’Italia
Esistono almeno un paio di differenze, apparentemente banali, tra il sistema statunitense e quello italiano. Un cittadino italiano è automaticamente iscritto nei registri elettorali del proprio comune di residenza, quindi il giorno delle elezioni può semplicemente recarsi al seggio di riferimento con una scheda elettorale valida e votare. Negli Stati Uniti essere cittadino non è una condizione sufficiente per votare, è necessario registrarsi come elettore democratico, repubblicano, o come indipendente. A volte la registrazione va effettuata con largo anticipo; mediamente negli Stati Uniti sono registrati solo il 70-75% dei potenziali elettori. Questo retaggio storico, voluto inizialmente per limitare il potere dei partiti e rendere il voto un atto individuale e volontario, oggi costituisce un ostacolo alla partecipazione perché non tutti i cittadini sono adeguatamente informati o hanno la volontà di registrarsi. Ciò accade soprattutto nelle comunità più povere e meno istruite, che spesso coincidono con le aree popolate da minoranze etniche. Inoltre, a differenza dell’Italia e di molti altri Paesi al mondo, negli Stati Uniti non esiste una vera carta d’identità come la intendiamo noi. Il documento d’identità più diffuso negli USA è la patente di guida. Alcune città, come New York, negli ultimi anni hanno deciso di concedere una carta d’identità municipale agli immigrati sprovvisti di documento (nel 2015 si stimavano circa 500mila persone solo a NY). Bisogna considerare infatti che nelle metropoli come NYC il numero di cittadini-lavoratori irregolari è molto elevato. Se si considera infine che il partito repubblicano in molti stati ha proposto di introdurre delle leggi per rendere obbligatoria la presentazione di un documento d’identità con foto per registrarsi come elettori, oppure per essere ammessi al seggio nel giorno delle elezioni, si comprende quanto questo possa risultare discriminatorio.
L’attesa ai seggi
Un altro aspetto che rischia di essere sottovalutato nell’analizzare l’affluenza al voto negli USA è la lunga attesa ai seggi per poter votare. Seguendo come corrispondente le elezioni presidenziali tra New York e Washington DC, ho avuto la possibilità di recarmi in alcuni seggi durante il periodo dell’early voting. In particolare ho trascorso delle giornate in aree particolarmente popolose di New York, come Parkchester nel Bronx, una comunità composta in prevalenza da afroamericani e latinos della working class. Durante la settimana che precedeva l’election day, all’orario di apertura dei seggi c’erano già oltre 2 ore di fila. Le persone, tra cui molti anziani (solo in alcuni seggi gli over 70 avevano la possibilità di saltare la fila), erano in coda intorno ai palazzi, tra mascherine, rassegnazione e distanziamento. Alcuni si erano portati delle sedie per l’attesa. Durante la giornata, a rotazione, arrivavano anche dei volontari per distribuire acqua e cibo alle persone in fila.
Alexandria Ocasio-Cortez, la carismatica leader democratica originaria di Parkchester, si è presentata a questo stesso seggio per contestare il fatto che i cittadini dovessero aspettare anche 4 ore prima di poter votare. Conversando con le persone in fila, spesso diffidenti nei confronti dei media, è emerso un forte senso di responsabilità civica. «C’è da aspettare circa 2 ore, non importa, è un’elezione storica, bisogna votare» mi hanno ripetuto in molti. Quelle del Bronx potrebbero sembrare delle condizioni limite ma in realtà accomunano molti quartieri delle metropoli americane e sono il simbolo di un sistema macchinoso ed inefficiente.
L’impegno delle comunità
Quella recente è stata una campagna elettorale sui generis per diversi motivi: l’irruzione della pandemia che ha stravolto le nostre vite e la conseguente crisi economica; la nuova esplosione del conflitto razziale che ha ulteriormente polarizzato la società statunitense; la figura di Donald Trump che da leader autoritario ha trasformato l’elezione presidenziale in un referendum su di sé. Negli ultimi mesi sono stati annullati quasi tutti gli eventi in presenza e non sono stati organizzati comitati e quartier-generali di partito nelle città. Ad eccezione dei comizi elettorali di Trump, sempre molto partecipati e che si sono intensificati nelle settimane prima del voto, il lavoro politico dei candidati locali è stato portato avanti a bassa e costante intensità attraverso la rete digitale e le reti di comunità. In merito a quest’ultimo aspetto posso far riferimento in particolare a quel gruppo di candidati democratici, provenienti dall’area progressista di Bernie Sanders e spesso rappresentanti di minoranze etniche, che hanno avuto la capacità di coniugare reti digitali e “analogiche”, veicolando efficacemente messaggi anche radicali per gli standard statunitensi, come l’assistenza sanitaria pubblica per tutti. In questa intervista alla senatrice dello Stato di New York Julia Salazar, realizzata in piena emergenza Covid, abbiamo discusso del suo impegno politico a livello territoriale. Nelle settimane che hanno preceduto il voto è stato evidente lo sforzo di mobilitazione tra le comunità di afroamericani, latinos e asiatici per fare in modo che il più alto numero di cittadini possibile si registrasse per votare. Diffidenza, disinteresse e ignoranza sono state le principali sfide da affrontare, in aree spesso gravemente colpite dalla pandemia. Gli sforzi dei candidati, l’impatto della pandemia, le tensioni sociali vissute durante la presidenza Trump e il clima politico esasperato hanno indubbiamente stimolato la partecipazione elettorale. Non è un caso che le comunità di latinos, che normalmente hanno un tasso di partecipazione molto basso, questa volta siano andate a votare in massa (secondo l’analisi dei flussi elettorali realizzata dal New York Times – si può notare che nelle zone più ricche della Florida e del Texas abbiano permesso a Trump di aggiudicarsi la vittoria, mentre in California e in Nevada abbiano supportato Biden). Sono state centinaia inoltre le organizzazioni no-profit che, approfittando di eventi per la distribuzione di mascherine o di cibo, hanno sollecitato i cittadini alla partecipazione al voto. Senza addentrarsi in un’analisi politica, è necessario comunque segnalare come l’impegno dei gruppi che costituiscono il movimento Black Lives Matter sia stato determinante per la mobilitazione delle comunità afroamericane e non solo.
Voter suppression
Esistono delle ragioni storiche che rendono complesse le procedure di voto negli Stati Uniti, ma esistono anche delle ragioni politiche che hanno alzato delle nuove barriere. Queste ultime vengono spesso giustificate con il timore di brogli elettorali, ma numerose inchieste confermano che il rischio di frodi elettorali negli USA è praticamente pari allo zero (si potrebbe fare un’eccezione per le elezioni presidenziali del 2000). La soppressione del voto è un problema radicato storicamente e consiste in una serie di procedure atte a impedire ai cittadini di partecipare liberamente alle elezioni, anche attraverso la cancellazione dai registri elettorali. Un caso eclatante fu quello della Georgia dove, nel 2018, il segretario di stato Brian Kemp cancellò oltre 85mila persone dalle liste elettorali nei tre mesi precedenti alle elezioni di midterm. Negli anni precedenti le persone cancellate furono circa 700mila. Per comprendere l’impatto di un tale numero bisogna considerare che nel 2018 i votanti in Georgia furono meno di 4 milioni. All’epoca Kemp era anche il candidato repubblicano che vinse le elezioni. Secondo un’indagine giornalistica, di quei 700mila elettori cancellati in realtà solo 200mila avevano lasciato lo Stato oppure erano deceduti, i restanti erano semplicemente cittadini che non avevano votato alle precedenti elezioni. Queste persone avrebbero dovuto registrarsi di nuovo ma Kemp bloccò oltre 50mila richieste, il 70% delle quali provenivano da afroamericani. La rivale democratica di Kemp, l’afroamericana Stacey Abrams, perse le elezioni per circa 55mila voti. La stessa Abrams ha intrapreso una battaglia per il diritto di voto, poiché la pratica della cancellazione dalle liste elettorali viene adottata in ogni stato.
Secondo un’analisi del Brennan Center, tra il 2016 e il 2018, più di 17 milioni di nomi sono stati cancellati dalle liste elettorali, in media il 7% degli elettori di ciascuno Stato.
Tra il 2012 e il 2018 sono stati inoltre soppressi 1.688 luoghi deputati alle votazioni, soprattutto nelle contee a maggioranza afroamericana. Questo ha determinato una maggiore difficoltà nel raggiungere i seggi nelle aree rurali e conseguentemente ha aumentato l’attesa ai seggi, sfiduciando l’elettorato. In Texas, ad esempio, il governatore repubblicano ha imposto di aprire un solo seggio per Contea per consegnare gli early votes. Durante l’amministrazione Trump inoltre sono stati tagliati i fondi del servizio postale che ha faticato a gestire l’enorme flusso di voti per corrispondenza. È evidente che quella del voter suppression sia una vera e propria strategia politica adottata dal partito repubblicano, attraverso l’adozione di provvedimenti legislativi e amministrativi, per limitare l’accesso al voto dei poveri e delle minoranze, che spesso votano per i democratici. Un discorso a parte va fatto per gli ex detenuti (la popolazione carceraria statunitense è costituita da circa 2 milioni di persone – in maggioranza afroamericani e ispanici – e rappresenta circa il 25% della popolazione carceraria mondiale). In molti Stati i pregiudicati non possono votare, in alcuni casi riacquistano il diritto di voto solo dopo aver completato tutte le procedure di riabilitazione, in altri lo perdono a tempo indeterminato. In altri casi ancora, il rilascio del certificato elettorale avviene solo in seguito all’avvenuto pagamento di multe, indennizzi e altre pene pecuniarie accessorie. Questa prassi esclude la maggioranza degli ex detenuti che non hanno la possibilità economica di riacquistare letteralmente il proprio diritto politico. A causa della complessità del sistema federale esistono centinaia di cause legali in atto, ma il dato rilevante è incontrovertibile: gli ex detenuti sono cittadini di seconda categoria.
I dati e la manipolazione dell’opinione pubblica
Le elezioni presidenziali USA del 2016 furono scosse dallo scandalo di Cambridge Analytica, la società di consulenza britannica che raccolse i dati personali di oltre 87 milioni di account Facebook, senza il loro consenso, e li usò per scopi di propaganda politica, interferendo nelle elezioni a supporto di Donald Trump. Nel 2020 è andata anche peggio. In questi quattro anni poco o nulla è stato fatto in termini di regolamentazione delle piattaforme social e le campagne elettorali su internet hanno ormai superato i confini della manipolazione, utilizzando strumenti sempre più sofisticati. Pochi giorni fa ne ho discusso ampiamente con Brittany Kaiser, l’informatrice che fece scoppiare il caso Cambridge Analytica, oggi esperta di tutela dei dati personali (autrice del libro “Targeted – La dittatura dei dati” e protagonista del documentario “The Great Hack”). «Ci sono centinaia di agenzie di propaganda in tutto il mondo che hanno provato a condizionare le elezioni presidenziali americane. Alcune di queste società utilizzano tecnologie più avanzate rispetto a Cambridge Analytica. Ad esempio, sono specializzate nella creazione di grandi quantità di account falsi e nell’utilizzo di troll e bot farm attraverso account sui social media che non richiedono la tua identità, come Facebook e Twitter. Penso che questo lavoro nell’influenzare e persuadere le persone sia ora più pericoloso di quanto non lo fosse in passato. La disinformazione e l’uso senza regole dei dati sono ovunque», ha dichiarato Kaiser. «Uno degli aspetti più rilevanti di queste elezioni è stata la quantità di disinformazione. Molte persone non erano ben informate e hanno basato le proprie scelte su notizie false o rumors. Ero molto preoccupata. […] Credo che queste elezioni siano state peggiori perché durante la pandemia di Coronavirus siamo stati presi di mira più che mai. Stiamo trascorrendo esponenzialmente più tempo sui nostri dispositivi e sui social media dove possiamo vedere pubblicità politica mirata. Questo rende l’intero elettorato molto più vulnerabile di quanto non fosse nel 2016. Al tempo stesso, la confusione su come votare durante una pandemia ha reso molto difficile per le persone ricevere le informazioni corrette in tempo. Anche chi ha sempre votato è molto probabile che non abbia mai richiesto di votare per corrispondenza. È stata una novità per molti elettori dover richiedere la scheda a casa e imparare a compilarla correttamente e a restituirla in tempo. Ci sono centinaia di migliaia o milioni di schede che non vengono conteggiate perché non sono state compilate correttamente o non sono state consegnate in tempo».
“Contate ogni voto! Ogni voto conta!”
“Contate ogni voto! Ogni voto conta!” è lo slogan che molti sostenitori di Biden hanno scandito durante le manifestazioni nel post-elezioni, in risposta alle accuse di frode elettorale, per ora del tutto infondate, portate avanti da Trump. Uno slogan legittimo, considerata anche la fatica fatta per esercitare il proprio diritto di voto, viene però da chiedersi se la scelta dei cittadini sia stata del tutto libera e genuina, oppure se sia stata condizionata dalla bolla social-mediatica che viene “cucita” addosso ad ognuno di noi. Al netto di tutte le problematiche legate alla soppressione del voto, credo che il tema del possesso e dello sfruttamento dei dati personali da parte delle corporation rappresenti ad oggi il pericolo più grande per qualsiasi sistema democratico.
Foto di copertina: Manifesto comparso a New York (credits: Fabrizio Rostelli)