In questi lunghi mesi segnati dalla crisi pandemica ho approfondito alcune riflessioni sul concetto di cura e salute all’interno di una visione sistemica. Molto inchiostro ho continuato a versare sul tema della prevenzione di cui la conoscenza e la cura sono fondamentali elementi propedeutici. Non può esistere una seria opera di prevenzione se non si torna a riprendere un cammino di conoscenza che va dalla sfera individuale a quella collettiva e di territorio.
Prendersi cura delle città
Mentre mi accingo a scrivere questa riflessione le piogge torrenziali e di lunga durata stanno mettendo a dura prova il mio terreno. Ogni mattina la prima azione è lo sguardo attento per capire se l’acqua sta drenando bene, se i piccoli canali di scolo, che la raccolgono e la spostano lontano dalla casa sottostante, assicurano uno scorrimento ottimale.
Nel frattempo nel centro storico di Amelia, situato a pochi chilometri da casa, è franato un pezzo di muro vicinissimo al Duomo ed il piccolo torrente sta per esondare.
Un signore del luogo commenta con tristezza sui social che c’è una causa importante e sono le sempre più frequenti bombe d’acqua, poi ci sono le colpe dei tanti che non curano più il loro piccolo orticello, del comune che non fa pulire i tombini ai propri addetti e via elencando. Torrenti e fiumi non hanno più la vegetazione ripariale che fungeva da filtro e controllo della velocità dell’acqua.
Il mio amico scrittore appenninico Federico Pagliai, nel suo ultimo libro, racconta di un viaggio immaginario lungo uno dei torrenti delle sue montagne. Seguendo lo scorrere della sua “torrenta” narra di come la conoscenza profonda del territorio e la cura di un tempo portavano ad utilizzare il fiume per i mille usi quotidiani senza sfruttarlo in modo eccessivo.
È di grande emozione la descrizione di come la vegetazione ripariale svolgeva un ruolo fondamentale nel filtrare le acque e di come ne governava un flusso regolare.
Addirittura l’uso produttivo della piccola centrale idroelettrica a valle non stressava più di tanto il fiume e nessuno si è mai posto il problema di non intaccare il minimo deflusso vitale perché non si arrivava ad uno sfruttamento così alto. I torrenti e i fiumi erano vissuti come elemento vitale che offriva servizi fondamentali alle comunità attraversate.
Di nuovo al centro la cura, che nasceva da una sapienza antica stratificata culturalmente attraverso l’azione quotidiana che considerava una risorsa vitale come l’acqua un bene inestimabile ed inalienabile.
Per carità poi l’acqua i padroni hanno sempre cercato di controllarla e gestirla a proprio favore ma lo sfruttamento di oggi è drammatico e va assolutamente ricondotto ad una corretta e parsimoniosa gestione pubblica.
L’esempio dell’acqua, della sua gestione per prevenire frane e smottamenti e del suo utilizzo sobrio e a beneficio della collettività, è l’esempio più chiaro di cosa può voler dire prendersi cura del mondo che ci circonda.
La cura però non riguarda solo l’acqua, il paesaggio rurale o le aree interne ma va declinata assolutamente nel contesto urbano, dalle piccole città fino alle grandi metropoli. Prendersi cura della città vuol dire partire dalle vie e piazze del nostro quartiere. Come si può avviare il processo di cura verso la città, come possiamo riabitarla in salute coinvolgendo i cittadini?
Elemento fondamentale è il tornare a creare un rapporto autentico e lo si fa riconoscendosi nei luoghi, nello spazio di cui siamo ospiti. Uno degli strumenti di conoscenza è il camminare, è lo sguardo lento e attento per scoprire gli angoli degradati bisognosi di cura come, per altri versi, è l’esplorazione meticolosa delle realtà virtuose che provano a ridare un’anima alla città.
Ha un senso profondo avviare questo nuovo cammino di conoscenza e cura proprio ora che tutti attendono con speranza l’uscita dal tunnel della pandemia attraverso il vaccino o cure miracolose.
La cura di cui abbiamo bisogno non è solo quella farmacologica, perché altrimenti ci culleremmo su falsi allori. Allora non perdiamo questa occasione che ci consegna la storia e costruiamo un nuovo futuro basato su una grande rigenerazione dei suoli, come diceva bene Carlo Petrini, delle persone, delle comunità e quindi dei territori.
Cura come progetto politico
È possibile trasformare in progetto politico il concetto di cura nell’abitare un territorio? Credo sia fondamentale.
Cura di sé stessi, degli altri, della comunità, dell’ambiente. Cura come costruzione di salute globale. Non può esistere un sistema in salute se alla base non si pone il principio fondamentale della cura. Del profondo valore culturale e politico di questo sostantivo femminile forse troppo abusato, ma pochissimo praticato, dovremmo avere maggiore consapevolezza.
Dare centralità alla cura quotidiana delle cose come presupposto che dà senso al nostro essere al mondo è la più grande rivoluzione possibile, quel ribaltamento del tavolo di cui avevo provato a parlare all’inizio della pandemia da Coronavirus.
Se la mattina non vado nell’orto a curare la crescita delle piante non avrò i frutti desiderati, allo stesso modo non posso assaporare il buon vivere in un mondo migliore se non inizio a coltivare, davvero, un rapporto nuovo con me stesso e con l’ambiente che mi circonda, diventando protagonista di quel cambiamento desiderato. Se pensiamo che il concetto di cura possa appartenere solo alla dimensione personale senza trasferirlo al senso di appartenenza ad una comunità e al territorio che la ospita, vuol dire rinunciare a quella trasformazione profonda di cui avremmo bisogno per vivere in salute.
I presupposti per la costruzione di una società più giusta
Partiamo dalla nostra casa, proviamo a sentirla solo come un angolo piccolissimo ed intimo della nostra esistenza quotidiana. Uno spazio vitale in cui raccoglierci nel corpo e nello spirito, in cui coltivare la dimensione più riservata e meditativa una sorta di eremo in cui rifugiarsi senza pensarlo però, parafrasando Adriana Zarri, come un guscio di lumaca.
La casa vista solo come una piccola parte del nostro essere abitanti del mondo. Abitiamo un luogo se entriamo in relazione con esso, se interagiamo da cittadini attivi, se ne riconosciamo i segni. Non basta vivere fisicamente in un determinato territorio, urbano o di campagna che sia, per essere un vero abitante. Si abita interagendo, riscoprendo un senso di appartenenza, altrimenti rimaniamo forestieri in casa. Abitiamo se vicoli, strade, piazze, giardini, parchi, campagne, fiumi, valli, pendii, boschi, crinali ed ogni parte del paesaggio in cui siamo ospiti, suscitano in noi desiderio di conoscenza e di cura.
Non ha senso racchiuderci dentro le mura di casa per sentirsi protetti da una realtà esterna che invece dovremmo abbracciare come fosse il prolungamento della nostra esistenza.
Se abbandono una casa, un campo, un bosco, se non me ne prendo cura per anni, se la casa cade a pezzi, se i campi un tempo coltivati si riempiono di rovi, è giusto conservare il diritto di proprietà? La proprietà di un bene dovrebbe presupporre il principio della cura. Non si tratta di praticare l’esproprio proletario ma di riportare nella res – pubblica il principio universale di un corretto uso del territorio.
Le nostre città, le nostre campagne ed aree interne sono disseminate di edifici in abbandono, di terreni incolti, di boschi non curati. Se la cura diventa il faro di un progetto politico locale e globale l’abbandono di un bene, privato o pubblico che sia, non è accettabile, soprattutto se l’incuria va a danno della collettività. Cura della persona, delle comunità, dell’ambiente e del territorio sono il presupposto fondamentale per la costruzione di una società più giusta e meno malata.
Cura e salute: binomio inscindibile
Se permangono diseguaglianze diffuse nell’accesso ai servizi, se non creiamo le condizioni per una vita più “salubre” capace di determinare un diffuso benessere individuale e collettivo che mette al centro il giusto equilibrio tra bisogni materiali e spirituali non riusciremo ad uscire da quella “normalità” malata denunciata da Papa Francesco in quell’indimenticabile Piazza San Pietro vuota ma carica di energia.
La fase post-COVID è il momento giusto per proporre questa grande rivoluzione copernicana: cura e salute come binomio inscindibile. La crisi sanitaria ha mostrato la necessità di essere uniti nell’affrontare le grandi emergenze ma anche che la disarticolazione dello Stato a beneficio della frammentazione delle politiche locali e delle privatizzazioni non può garantire la costruzione di una società in salute.
Secondo l’OMS, la salute non è semplice assenza di malattia ma una situazione di benessere che va dalla persona, alla comunità fino ad interessare la cura del territorio. Siamo lontani, credo, da questi principi quando pretendiamo un approccio solo farmacologico ed ospedalizzante. La medicina preventiva nella sua applicazione pratica mette al centro la cura, un approccio che si misura con la storia di ogni singola persona, ne fa un’anamnesi attenta e la inquadra anche nel contesto sociale ed ambientale.
La nuova centralità della medicina
Franco La Cecla, in un interessante articolo uscito su Avvenire il 9 novembre 2020, riflette con una sana provocazione sul fatto se possiamo considerare la medicina una scienza esatta.
Analizzando il ruolo della medicina nel passato e le considerazioni di alcuni importanti studiosi arriva a collocare la medicina nel novero delle scienze sociali come, ad esempio, l’antropologia. La sua riflessione-provocazione nasce dall’attuale fase pandemica, in cui anche il confronto tra virologi ed epidemiologi mette in luce quanto la medicina non possieda una verità assoluta. La medicina può trovare una sua nuova centralità se riparte dalla cura e allora mi piace concludere proprio con un pezzo della riflessione di La Cecla perché è parte del cammino verso un nuovo umanesimo in cui il concetto di cura fa la quadra con quello di salute: «Oggi in piena pandemia sembra che la verità stia solo dal lato degli epidemiologi e che i malati siano numeri da fare balzare sulle cronache o su cui elaborare statistiche e indici. Ed è il motivo per cui scompaiono caratteristiche culturali, geografiche, ambientali, modi di vivere. Come se la pandemia fosse soprattutto azzeramento della diversità umana. E invece gli infiniti dubbi che questa pandemia ci ha messo addosso partono proprio dalle specificità ambientali, climatiche culturali, sociali. La carica immunitaria essendo una variabile di infinite caratteristiche di questo tipo. Viene da pensare che la medicina è una scienza sì, ma al pari delle scienze umane e che dovrebbe misurarsi con esse».
Paolo Piacentini è Presidente di Federtrek e studioso di Aree interne.