Il volume di Antonio Fici edito da Editoriale Scientifica analizza, con uno sguardo arguto e tecnico, che tradisce una chiara passione per l’argomento, l’innovativo scenario legislativo derivante dall’approvazione della cosiddetta Riforma del Terzo settore. Accanto alla disciplina di carattere generale e alla esplicazione delle principali caratteristiche degli istituti coinvolti, appositi capitoli vengono dedicati all’istituto della impresa sociale e alle rinnovate discipline delle associazioni sportive e delle fondazioni filantropiche e di origine bancaria.
«Questa nuova, recente, legislazione non è una legislazione qualunque. Rappresenta, piuttosto, una riforma “epocale” per le organizzazioni che ne costituiscono l’oggetto, per tutti coloro (utenti, lavoratori, fornitori, sostenitori e finanziatori, donatori, volontari, pubbliche amministrazioni ecc.) che con esse a vario titolo si relazionano, nonché, ancora più in generale, per l’intera comunità di persone che si riconosce nei principi e nei valori della Costituzione italiana».
Con queste parole il libro di Fici esprime il suo giudizio sulla disciplina del Terzo settore, comunemente chiamata “riforma” anche se, in realtà, anziché modificare una normativa preesistente, ha creato, ex novo, un diritto del Terzo settore che non preesisteva quale autonomo sistema normativo. E tutta la narrazione del libro appare permeata da questa convinzione o, meglio, consapevolezza.
Le nuove prospettive: un settore non più residuale e subalterno
Alla base di questo fil rogue vi è la ricostruzione del legame tra la “riforma” analizzata e il dettato costituzionale: non solo l’art. 118, comma 4 della Costituzione – “patria” della sussidiarietà orizzontale – ma anche gli artt. 2 e 3, comma 2 della Carta trovano una precisa attuazione nel rinnovato scenario normativo del Terzo settore che, nel proporre un quadro articolato ma al tempo stesso ordinato in uno schema codicistico, appare impregnato di quei fondamentali principi e valori, sia costituzionali che euro-unitari.
Una disciplina di carattere generale applicabile a tutti gli enti del Terzo settore (c.d. ETS), finalmente definiti – una delle novità più importanti tra le molte introdotte – che si compenetra a specifiche regolamentazioni di singole categorie di enti, appositamente tipicizzati nella consapevolezza delle peculiarità degli stessi e della necessità di valorizzarne le caratteristiche. Il quadro normativo scaturente ha delineato una «riforma culturale prima che giuridica» (pag. 36), idonea a superare la frammentazione precedente esistente tra singole discipline settoriali, divise in singoli corpus normativi o addirittura semplicemente incastonate nella scarnissima (e ancora vigente) disciplina del Titolo I del Codice Civile. Una riforma che contestualmente opera importanti scelte politiche, volte a imporre agli enti interessati obblighi adeguativi, a fare scelte “istituzionali” (si pensi, su tutte, alle associazioni di promozione dilettantistica e alla loro possibilità di diventare associazioni di promozione sociale) o addirittura a escludere “autoritativamente” determinati enti dall’operatività del Codice del Terzo settore, ancorché astrattamente riconducibili alla categoria degli ETS – l’evidente richiamo è al “caso” delle Fondazioni di origine bancaria.
Ciò detto, il merito principale della disciplina introdotta è quello di far ritenere superata la collocazione alternativa e subordinata del Terzo settore rispetto ai “primi due” del pubblico e del mercato.
La nuova disciplina tende infatti al superamento di quella visione secondo cui il Terzo settore resta “terzo” appunto, cioè residuale e subalterno rispetto al pubblico e al privato: gli spazi dell’economia non possono esser (più) semplificati nella tripartizione preesistente, esistendo diversi settori privati dell’economia, tra i quali quello privato non lucrativo di interesse generale, base dell’attività degli enti del Terzo settore. Casomai, se si vuole mantenere un parallelo rispetto alla ordinaria impostazione sottesa alla normazione basata sulla dicotomia pubblico-privato, un’essenziale distinzione la si rinviene nel “modello antropologico” sotteso alla normativa: non più homo oeconomicus che caratterizza la normativa codicistica, ma homo donator, che agisce non per massimizzare i propri profitti, ma in una veste “ego-altruista”; la terzietà non è più del settore ma dell’ente del Terzo settore rispetto all’ente pubblico e all’ente con finalità lucrative – e, in realtà, anche rispetto ad altri enti senza scopo di lucro che però non presentato le caratteristiche ex art. 5 del CTS.
Il superamento della demonizzazione del mercato
Un’umanizzazione che – e anche in questo può evincersi un’enorme innovazione – supera quella demonizzazione del mercato che giustamente l’Autore rileva nella visione di certi enti del Terzo settore, delineando come “sociale” ed “economico” possano convivere nel perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale per le quali siano più adeguati modelli diversi da quello degli enti (meramente) senza scopo di lucro.
In tal senso è evidente il ruolo innovativo della nuova disciplina delle imprese sociali. Nonostante la facile confusione terminologica con l’accezione di impresa (art. 2082 c.c.), si tratta di «imprese che svolgono attività di interesse generale»: enti di diritto privato costituiti in qualsiasi forma giuridica ma caratterizzate dall’assenza di finalità di lucro oltre allo svolgimento di una o più attività di interesse generale – ancorché a carattere non esclusivo ma prevalente – ex art. 2 del d.lgs. n. 112/2017, articolo che prevede un’elencazione diversa da quella prevista in generale per tutti gli enti del Terzo settore ex art. 5 del CTS. Ma ciò solamente in virtù delle peculiarità della soggettività tipica delle (sole) imprese sociali.
Tale istituto, già precedentemente regolato dal d.lgs. n. 155/2006, acquisisce però una rinnovata valenza tramite la sua inclusione tra gli enti del Terzo settore, seppur con una disciplina ad hoc. Sebbene non costituisca l’unica “scelta” per gli ETS al fine di svolgere un’attività di impresa – e questo costituisce un rilevante aspetto di riflessione – la struttura delineata per le imprese sociali appare “promettere” altresì forme di cooperazione tra enti, pubblici e privati – sempre che abbiano i requisiti prescritti dal d.lgs. n. 112/2017 – e tra gli stessi ETS, nonché tra le stesse imprese sociali, promuovendo – soprattutto per quanto riguarda la delineazione di forme di controllo “proprie” – la creazione di reti tra diverse imprese sociali.
L’impresa sociale come volano di una nuova visione
Le diverse peculiarità previste dalla nuova disciplina dell’impresa sociale delineano un ente con caratteristiche uniche. Accanto a quanto già detto, va sottolineata la sancita rilevanza della partecipazione dell’utente e del lavoratore, accomunati dall’esser essi stessi “beneficiari” dell’attività e non più relegati al ruolo istituzionale ordinario loro ascritto, garantendo un’effettiva partecipazione nella vita dell’ente. L’Autore sottolinea inoltre come la rinnovata disciplina di tale istituto permetterebbe applicazioni inedite, focalizzabili nel ruolo di collante tra il ruolo istituzionale dell’apparato pubblico e la dimensione di natura privatistica operante nel Terzo settore in «forme innovative di welfare in partnership con enti privati del Terzo settore» (pag. 62), oltre a diverse attività degli stessi ETS “ordinari” (si pensi, in virtù della normativa vigente, alla possibilità che gli stessi ETS costituiscano o partecipino a un’impresa sociale!).
In questo modo, l’impresa sociale delinea la sua attitudine non solo a coniugare la capacità produttiva di ricchezza sociale con quella economica – idonea a superare la classica dicotomia tra mercato e sfera degli interessi sociali che ha compartecipato a frenare l’assunzione del meritato ruolo del “terzo” settore – ma anche a rilevare una nuova dimensione del rapporto tra pubblico e privato, superando quel paradigma di netta contrapposizione tra questi due poli, contrapposizione che ha influenzato lo sviluppo del diritto nel secolo precedente e contro la quale il principio di sussidiarietà orizzontale pare aver fornito un antidoto efficace.
Il Terzo settore non è gratuità ma non è neanche riconducibile alle logiche di mercato
Il quadro dipinto dalla disciplina del Terzo settore chiarisce come le attività di questo non possano essere ricondotte a iniziative di tipo gratuito. Ciò però non deve portare a conclusioni affrettate che possano paventare quel pericoloso accostamento del settore in oggetto ad attività orientate allo scopo di lucro: una lettura attenta del quadro delineato dal legislatore palesa l’erroneità di una tale assimilazione.
Tra le altre cose, infatti, ai sensi dell’art. 8 del CTS, «il patrimonio degli enti del Terzo settore, comprensivo di eventuali ricavi, rendite, proventi, entrate comunque denominate è utilizzato per lo svolgimento dell’attività statuaria ai fini dell’esclusivo perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale»; e ancora, anche a soggetti diversi dall’’impresa sociale è permesso (o meglio non vietato) svolgere attività d’impresa, sebbene solamente alle imprese sociali è permessa la distribuzione di utili, peraltro con limitazioni tali da non rendere in alcun modo legittimo alcun parallelo con gli enti for profit.
La disciplina e le peculiarità in essa insite confermano come non possano applicarsi al Terzo settore e alle sue attività le normative pensate e ideate per logiche di mercato, confermando gli ultimi approdi che gli stessi organi giurisprudenziali sembrano aver colto dopo un’iniziale confusione tra due ambiti che in taluni casi possono toccarsi, ma mai confondersi.
Quale fortuna per la nuova disciplina?
Il legislatore – con tutti i limiti e le inevitabili osservazioni figlie di diverse visioni e approcci al tema – ha proposto una normativa innovativa, tentando, con buoni risultati, di stare al passo con lo scenario sociale sviluppatosi, tanto dal punto di vista organico che riguardo a talune tipologie di enti coinvolti (oltre all’automatica associazione all’istituto dell’impresa sociale, si pensi anche alle innovazioni relative agli enti filantropici), rinnovando una disciplina ormai superata. Ma l’humus, per quanto florido, deve esser coltivato per prosperare. Sarà quindi l’attuazione concreta dei nuovi strumenti introdotti a garantire un’effettiva efficacia innovativa e quella rivoluzione culturale auspicata dall’Autore e da tutti gli stakeholder.
Foto di copertina: Mystic Art Design da Pixabay