Un'intervista a Paola Piva, coordinatrice della Rete Scuolemigranti, per parlare di come la solidarietà e l'impegno dei volontari siano continuati a crescere nel corso del 2020, anche quando il tema dell'immigrazione non è stato al centro dell'attenzione da parte dei media

Con l’irruzione del Coronavirus, l’immigrazione “fa” notizia, ma non è più “la” notizia e «ha smesso di costituire un tema dominante dell’informazione» in Italia. Questo il dato che colpisce di più nel dossier “Notizie di transito”, ottavo rapporto sul racconto mediatico del fenomeno migratorio nel 2020, presentato online lo scorso 16 dicembre, a cura di Associazione Carta di Roma e Osservatorio di Pavia. Lo studio si propone ogni anno di analizzare come i media italiani hanno raccontato le migrazioni e le minoranze, e quanto spazio la questione ha avuto nel dibattito pubblico sui social.
Grande l’impatto dell’emergenza sanitaria degli ultimi mesi: «Dopo molto tempo», si legge nell’introduzione, «pare che gli immigrati siano divenuti meno ostili ai nostri occhi (…). Perché oggi siamo noi “gli untori” ai quali chiudere le frontiere, oggi gli stranieri siamo (anche) noi». Un fenomeno nuovo, però, apparso in alcuni titoli di giornali del 2020, è la “stigmatizzazione dei migranti come veicolo di contagio del Covid-19”, anche se i casi di toni allarmistici sulla stampa sono diminuiti all’8% (dal 46% del 2015).
In questi mesi, tuttavia, non si è fermato il flusso migratorio e non si è mai smesso di parlare di immigrazione nei giornali, in radio e in televisione. Sono state poche le testate, però, che si sono impegnate a mettere in evidenza il rischio delle conseguenze della pandemia sugli “invisibili” e l’urgenza della solidarietà verso i migranti, sostenendo le organizzazioni umanitarie. Associazioni di volontariato come quelle che fanno parte del network solidale di Rete Scuole migranti: quasi cento centri, operativi a Roma e nel Lazio, che non hanno mai smesso di prendersi cura dei cittadini stranieri. Dopo un’intervista nel 2018 per Labsus, torniamo a parlare con Paola Piva, coordinatrice della Rete che si occupa di promuovere una cultura della con-cittadinanza e del lavoro attraverso l’insegnamento della lingua italiana e il supporto alle famiglie nel rapporto con le scuole.

La pandemia ha frenato la socialità: come è cambiato il modo di fare scuola d’italiano ad adulti e bambini?

«Ci siamo dovuti reinventare, certo, ma le associazioni non si sono mai fermate. Ogni anno sono circa 11.000 gli iscritti migranti nelle nostre scuole, non potevamo abbandonarli e così abbiamo deciso di moltiplicare l’offerta. Abbiamo sperimentato la didattica a distanza: il problema più grande dei corsi online è stato lo scoglio del non potersi riunire in gruppo, in presenza, come eravamo abituati. Le iscrizioni ai nostri corsi gratuiti sono aumentate in questi mesi, proprio per la maggiore facilità di fruizione, però, di contro, ci siamo accorti di aver perso studenti legati alla modalità in presenza, per la possibilità di contatto umano e di incontro. Frequentano i nostri corsi utenti anche molto diversi tra loro, dagli ospiti dei Centri di accoglienza straordinaria (CAS) a chi è qui da dieci anni ma non ha mai studiato italiano».

Quali novità avete messo in campo?

«Negli ultimi tempi abbiamo attivato anche dei microcorsi via smartphone, con 2-3 corsisti per insegnante, dal livello base fino al B1. La cosa più emozionante è vedere che grazie a questi percorsi online riusciamo ad intercettare anche una nuova utenza, quella di chi non avrebbe mai frequentato in presenza, fatta di lavoratori stranieri che sono in Italia da tempo, ma che ancora non hanno avuto modo di imparare bene la lingua. Siamo certi che la conoscenza dell’italiano sia il veicolo principale, e la competenza necessaria, per l’inserimento nella società e per l’integrazione. Questo però non basta per attivare processi di cittadinanza attiva e consapevole: è sempre più centrale aiutare chi arriva in Italia a comprendere la “cultura del lavoro occidentale”. Molti uomini e donne, che hanno seguito i nostri corsi di italiano, sono poi diventati mediatori culturali».

L’emergenza sanitaria ha avuto effetti anche sulla comunità dei volontari?

«Il numero dei volontari italiani è molto aumentato negli ultimi mesi, un balzo di offerte di servizio davvero entusiasmante, anche dovuto alla facilitazione del mezzo telematico. La pandemia ha sicuramente fatto guadagnare volontari, perché la solitudine e la chiusura forzata hanno spinto a dire “voglio fare qualcosa per gli altri”. Ci hanno contattato anche persone che non si erano mai sperimentate prima nell’insegnamento della lingua, ma che volevano mettersi in gioco, e a tal proposito abbiamo attivato per i volontari anche dei corsi pratici per la DAD. Rete Scuolemigranti è un network in crescita, con l’aumento dei volontari puntiamo a raggiungere tutte le zone di Roma».

Non si è fermato neppure il lavoro di supporto alle famiglie per l’inserimento dei bambini nelle scuole

«L’altro grande fronte su cui Scuolemigranti è in prima linea è la mediazione tra le famiglie straniere e le istituzioni scolastiche. Molti genitori, infatti, fanno fatica a comprende le regole per l’iscrizione, scegliere la classe, cogliere i vantaggi del tempo pieno e le agevolazioni per mensa e libri di testo. Ci attiviamo molto anche nei casi di ricongiungimento con un figlio che ha svolto una parte d’istruzione nel paese di origine, quando il gap linguistico rende molto complicata l’accoglienza del minore nelle scuole. In queste situazioni i nostri volontari si fanno spesso carico di trovare una classe per il minore, facendo un lavoro che spetterebbe agli enti scolastici. Più in generale, con i nostri volontari, supportiamo le famiglie nella partecipazione alla vita della scuola, dal dialogo con gli insegnanti alle riunioni del Consiglio di istituto, fino al doposcuola per i figli».

Foto di copertina: AkshayaPatra Foundation su Pixabay