Gregorio Arena rappresenta una figura particolarissima di studioso militante. Di una militanza non riferita a parti politiche o ideologiche, bensì legata alla potenzialità di trasformazione sociale delle idee e convinzioni di carattere scientifico e dottrinario, che, messe a fuoco nel corso di una brillante carriera universitaria, si sono poi trasformate in un sacro fuoco. Da qui la scelta di abbandonare le cattedre degli atenei per mettersi on the road – come uno dei miti della sua e nostra giovinezza – lungo le contrade di questo nostro paese. Così, partendo da una intuizione, poi elaborata e validata teoricamente, si è immerso nell’agone applicativo fatto di scelte politiche, norme attuative, regolamenti e soprattutto centinaia e centinaia di persone da incontrare, sensibilizzare e motivare, in un’opera di crescita diffusa di consapevolezza e azione civica. Tutto in funzione dell’obiettivo di rendere operative le sue ipotesi, poterle verificare e, se necessario, adattare, così da trovare punti d’equilibrio teorici e soluzioni pratiche ancora più evolute e puntuali.
La sua ultima fatica editoriale “I Custodi della bellezza” è la ricostruzione di questo percorso, caratterizzato da una permanente spinta, ad un tempo intellettuale e operativa, finalizzata a generare un cambiamento dentro la società e le istituzioni. Dunque, nel senso più alto e nobile, un’azione politica. Perché è soprattutto questo che emerge, percorrendo, pagina dopo pagina, le tappe di una storia sempre consequenziale: la volontà di promuovere la costruzione di una “polis” caratterizzata da cittadini che ne siano responsabili, che ad essa sappiano dedicarsi, che, in ultima istanza, la sappiano amare.
Il cuore dei Custodi della bellezza
Come indica lo stesso autore, è il primo capitolo a offrire l’inquadratura complessiva della proposta contenuta nel libro, affidando ai capitoli successivi l’esposizione «degli strumenti tecnici per diventare custodi attivi, alleati delle pubbliche amministrazioni nella cura dei beni pubblici»(p. 18). L’argomentare si sviluppa lungo l’asse concettuale che distingue/collega beni pubblici e beni comuni secondo un continuum che – spero di non forzare troppo il pensiero di Arena – arriva a ridisegnare la concezione dell’amministrazione e direi addirittura dello stato, proponendo, laddove possibile, una sorta di disintermediazione rispetto alla gestione di quanto può e deve essere attuato a beneficio dei cittadini. L’ipotesi di fondo è che i cittadini stessi possano e sappiano esprimere il loro diritto di cittadinanza attraverso un modo nuovo. Alla rivendicazione di quanto lo Stato deve loro riconoscere, è possibile affiancarne una nuova: quella del diritto a occuparsi direttamente, operando concretamente, di quanto può essere utile alla convivenza comune. Dunque quote di responsabilità operativa assunte in presa diretta riguardo a ciò che garantisce a tutti i cittadini la possibilità di vivere meglio. Una nuova responsabilità attiva, operosa, collettiva. Espressione di un civismo maturo ed evoluto che si traduce nell’azione del “prendersi cura” di ciò che è di tutti e, in ultima analisi, del nostro paese e della sua bellezza, materiale e immateriale.
Oltre i binomi stato-comunità e stato-apparato
Sullo sfondo è chiaro il superamento della consolidata distinzione tra stato-comunità e stato-apparato per la quale il primo profilo – quello comunitario – si sviluppa soprattutto sul piano dell’esercizio dei diritti politici, traducendosi essenzialmente nella scelta delle rappresentanze alle quali delegare il governo e la gestione delle funzioni operative, lo stato-apparato, necessarie a rendere concreti e reali i diritti e il benessere dei cittadini. La proposta relativa ai beni comuni supera questa distinzione e si focalizza sull’ipotesi che parti dello stato-comunità, animate da senso civico e spirito di servizio, possano assumersi direttamente iniziative e attività normalmente considerate proprie dello stato-apparato, diventando gestori diretti di beni tradizionalmente considerati pubblici.
A dire il vero è abbastanza normale che soggetti privati gestiscano beni pubblici: nell’assistenza, nella sanità, nei vari ambiti dei servizi di pubblica utilità, ma ciò avviene in forza di un affidamento di tale gestione da parte della pubblica amministrazione, di norma a fronte di un corrispettivo. Ciò che prospetta Arena è profondamente diverso. Infatti coi Patti di collaborazione, frammenti dello stato-comunità, formati da nuclei operosi di privati cittadini, propongono e si accordano con la pubblica amministrazione per intervenire nella gestione di attività diverse, materiali o immateriali, riappropriandosi di un fare concreto a favore della collettività, tradizionalmente considerato compito proprio della pubblica amministrazione. E nel proporsi non chiedono corrispettivi di sorta, bensì semplicemente la possibilità di operare costruendo con lo stato-apparato forme trasparenti e stabili di collaborazione.
Si tratta di una dinamica che determina un cambio di paradigma che entra in profondità ridisegnando il DNA dei soggetti e degli oggetti coinvolti e dunque, in ultima istanza, delle istituzioni. «Quando i cittadini attivi si prendono cura di un bene pubblico, intorno a quel bene si crea una comunità. Ed è questa comunità che, assumendosi la responsabilità della cura di un determinato bene pubblico, lo trasforma con la sua azione in bene comune»(p. 33).
La società della cura
È così che nasce la “società della cura”, costruita su un’alleanza tra istituzioni e cittadini attivi «che va considerata come orgogliosa espressione di cittadinanza»(p.39) e che produce una serie di altri effetti positivi in grado, in questo momento gravissimo per la nostra collettività, segnata dalla pandemia, di rendere plausibile e auspicabile un «“Patto per la ripresa tra cittadini e istituzioni” fondato sulla cura dei beni comuni»(p. 45). Un grande accordo per connettere le centinaia di esperienze e le decine di migliaia di persone già coinvolte attraverso i singoli patti di collaborazione, proiettando il fenomeno verso una dimensione di democrazia diffusa, responsabile ed operosa, capace di una grande e profonda trasformazione civile.
Un manuale di cittadinanza attiva
Sul come fare sono poi spesi i successivi capitoli del libro. A cominciare dal secondo nel quale traspare la legittima soddisfazione di aver visto riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza 131/2020 il principio dell’amministrazione condivisa che proprio Gregorio Arena propose per la prima volta in un saggio del 1997. Da allora molti passi sono stati fatti nella costruzione di un “diritto della sussidiarietà” e nella sua attuazione attraverso specifici provvedimenti legislativi – in particolare il comma 4 dell’art. 118 della Costituzione e l’art. 55 del Codice del Terzo Settore – nonché di prassi coerenti e sempre più diffuse. Il libro ne offre una ampia ricostruzione e una carrellata ragionata fornendo anche indicazioni di carattere sia strategico che operativo, frutto della straordinaria esperienza sul campo maturata dall’autore direttamente e attraverso Labsus, l’organizzazione che gli ha permesso di riunire intorno a sé, nella quotidiana azione di promozione e diffusione dei Patti di collaborazione, un agguerrito gruppo di giovani di talento e di forte passione civile.
Un libro dunque “necessario” che può e deve essere letto anche come manuale di cittadinanza attiva, per affrontare le drammatiche contingenze del momento e, nel segno di una consapevole e matura fiducia nella gente del nostro meraviglioso paese, raccogliere con consapevolezza, realismo e concretezza la sfida a “uscirne migliori”.