In un momento di crisi e drastica diminuzione delle risorse pubbliche, con l’aumento di nuove e vecchie povertà, con scenari di esclusione e marginalità sempre più ampi e diffusi, come ente del Terzo settore stiamo provando a ridisegnare un servizio ibrido (come l’affido di comunità) che sia più corrispondente alle esigenze e bisogni delle persone che accompagniamo e, allo stesso tempo, possa capitalizzare e rendere generativo l’impiego di risorse pubbliche che a tali progetti sono dedicati. In questo quadro, infatti, sentiamo di avere una grande responsabilità nel cercare forme nuove per garantire una possibilità di cambiamento, che possa avere una tenuta nel tempo sia dal punto di vista sociale che economico. Per fare questo, crediamo che gli strumenti tipici del welfare state debbano necessariamente essere accompagnati da dispositivi che si rifanno al welfare di comunità, ossia un welfare che guarda alla comunità di riferimento e alle risorse in essa espresse, sia profit che no-profit, come una possibilità per costruire reti di protezione sociale più forti ed inclusive.
“Nessuno cambia senza opportunità”
È da questa convinzione che nel 2014 la Cooperativa sociale “Il Faro” viene al mondo. È con questo obiettivo che comincia a costruire, sia nelle azioni progettuali poste in essere che nel servizio portato avanti (una comunità educativa madre con bambino/a), l’idea di un Terzo settore che guarda alla persone con cui lavora, non come utenti e/o destinatari ma come persone che necessitano di luoghi e spazi per riconoscere le proprie motivazioni, per mobilitare risorse e poter così essere accompagnati/e nella costruzione di possibilità, competenze e strumenti, per emanciparsi rispetto ad una condizione di svantaggio o come viene definito di mancanza di potere (sociale, culturale, economico ecc.).
In questi anni di lavoro, infatti, soprattutto le vite di queste donne con i loro percorsi, con le storie andate a buon fine ed i tanti fallimenti collezionati, ci hanno restituito una fotografia dettagliata del servizio e del mutamento sociale in atto, fornendoci una traccia necessaria e imprescindibile degli aggiustamenti da porre in essere, al fine di dare un’adeguata risposta al bisogno e come abbiamo precedentemente detto, soprattutto per costruire spazi reali di empowerment che siano tali non solo per le donne ma per tutta la comunità di riferimento.
Che cos’è l’affido di comunità
L’affido di comunità si configura come un’opportunità per nuclei monoparentali (prevalentemente donne con figli/e) e famiglie che transitano in una dimensione di vulnerabilità, ma che se “sufficientemente accompagnate” possono trasformare realmente i propri percorsi di vita.
L’affido di comunità, di fatto, si presenta come sperimentazione di un servizio di uscita e/o accompagnamento di nuclei con un livello socio culturale prevalentemente medio-basso, quindi con un accesso a lavori quasi esclusivamente a bassa tutela, spesso già in carico ai servizi territoriali e a cui si somma l’assenza di un’adeguata rete sociale di riferimento.
Come in un percorso tradizionale di affido, il nucleo è al centro di un progetto le cui figure affidatarie sono “interpretate” da soggetti pubblici e privati (individuati di volta in volta sulle specificità e i bisogni del nucleo) che si prendono in carico una funzione/dimensione legata alla vita del nucleo stesso (ad esempio, organizzazioni a favore dell’infanzia per la conciliazione dei tempi di vita/lavoro, il Consultorio per il sostegno alla genitorialità, associazioni di categoria per agevolazioni all’acquisto di beni materiali di prima necessità, associazioni di volontariato per il supporto sociale, ecc.).
Il processo dell’affido di comunità è regolato dallo strumento del Patto di collaborazione, che è un atto amministrativo, concepito entro il quadro legale del regolamento sull’Amministrazione condivisa dei beni comuni quale strumento attuativo del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale (Cost. art.118, c. IV), attraverso cui il Comune e i cittadini attivi concordano l’ambito degli interventi di cura, rigenerazione o gestione condivisa dei beni comuni materiali ed immateriali, come anche l’implementazione di servizi ibridi e collaborativi che mettono al centro la persona affinché possa sentirsi parte integrante di una comunità. Il Patto di collaborazione diventa così lo strumento ideale, attraverso l’elaborazione prima e l’implementazione poi, per l’affido di comunità attraverso la definizione dell’interesse generale tutelato e degli impegni che ogni soggetto coinvolto assume nel patto per contribuire alla costruzione di un percorso centrato intorno alla pratica quotidiana della cura.
L’affido in comunità genera responsabilità condivise
L’affido di comunità, quindi, diventa prima di tutto per noi operatori e operatrici sociali, un’opportunità come cittadini e cittadine attive che credono che una società equa e giusta sia frutto di comunità responsabili e azioni condivise. Vogliamo essere guide di passaggio, disponibili ad accompagnare, per un tratto di vita, chi naviga nella notte, perché crediamo che tutti e tutte, abbiamo diritto ad un’altra dignitosa possibilità.
Annarita Del Vecchio, psicologa di comunità e coordinatrice dell’area Empowerment donne e comunità locale