Entro la fine del mese l’Italia consegnerà alla Commissione Europea il proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, un piano la cui attuazione impegnerà per i prossimi cinque anni l’intero sistema-Paese nella realizzazione di alcune riforme strutturali fondamentali finora sempre rinviate, da quella della pubblica amministrazione a quella della giustizia, dalla riforma del fisco a quella della concorrenza e altre ancora di questa portata, con al centro la transizione ecologica e quella digitale.
Le resistenze nei confronti di queste riforme da parte delle oligarchie e delle corporazioni che da decenni dominano il nostro Paese saranno fortissime, per timore di perdere potere e privilegi. Bisognerà dunque attivare nella società civile iniziative volte a contrastare tali resistenze, facendo leva su meccanismi di partecipazione alla vita pubblica sottratti al controllo delle oligarchie, in modo da integrare e accompagnare gli effetti positivi che il PNRR avrà nei confronti delle istituzioni, delle infrastrutture e delle imprese con altrettanti effetti positivi in termini di ripresa e resilienza prodotti dalla società civile organizzata.
Una comunità resiliente è innanzitutto una comunità solidale
Che cosa sia la “ripresa” citata nel titolo del Piano è facilmente comprensibile, meno cosa sia la resilienza, che viene definita così: «La capacità di un sistema, una comunità o una società di resistere, assorbire, adattarsi e riprendersi dagli effetti di una catastrofe in maniera efficiente e tempestiva, attraverso la protezione e il ripristino delle sue strutture e funzioni essenziali». Se al posto di “catastrofe” scriviamo “pandemia” abbiamo una perfetta descrizione di come dovrebbe reagire l’Italia nei prossimi mesi per essere resiliente e uscire rafforzata dalla crisi economica e sociale provocata dal Covid-19.
La resilienza di un sistema o di una comunità dipende da molti fattori ma, in generale, nel corso della nostra storia collettiva noi italiani abbiamo dimostrato in molte occasioni notevoli doti di resilienza, intesa come la capacità di «resistere, assorbire, adattarsi e riprendersi dagli effetti di una catastrofe in maniera efficiente e tempestiva». È realistico dunque immaginare di affiancare all’azione delle istituzioni per la ripresa e la resilienza del Paese anche l’azione di singole comunità o gruppi di cittadini a livello locale, impostando un programma di lavoro volto a costruire comunità resilienti per contribuire alla resilienza dell’intero sistema-Paese.
Una comunità resiliente è innanzitutto una comunità solidale, autonoma, con una forte coesione sociale, dotata di senso di appartenenza e di memoria collettiva, capace di assumersi responsabilità sia a livello individuale, sia collettivo. Ciò che rende veramente resiliente una comunità sono le relazioni fra i suoi componenti e in particolare la capacità di condividere risorse e responsabilità per un obiettivo che trascende gli interessi dei singoli componenti.
I Patti come incubatori di relazioni
Già diversi anni fa scrivevamo che l’essenza della sussidiarietà è la creazione di una relazione di condivisione e che i Patti di collaborazione, che sono il cuore dell’Amministrazione condivisa, sono antidoti alla solitudine, “incubatori” di fiducia, di relazioni e di amicizie i cui effetti positivi proseguono poi anche nella vita di tutti i giorni, una volta terminato il lavoro di cura dei beni comuni.
Nella prospettiva della costruzione di comunità resilienti per reagire a questa crisi l’Amministrazione condivisa dei beni comuni acquista dunque un valore aggiuntivo, oltre a quello evidente dovuto agli effetti materiali sulla qualità della vita derivanti dalle attività di cura dei beni comuni. È nei Patti che si crea quello che noi di Labsus chiamiamo il vero “valore aggiunto” della cura condivisa dei beni comuni, cioè la ricostruzione dei legami di comunità, la produzione di capitale sociale, la creazione del senso di appartenenza, la coesione sociale, l’integrazione. E questi preziosi effetti immateriali derivanti dai Patti sono tutti fattori che oltre ad essere positivi in sé, possono inoltre aiutare nella costruzione a livello locale di comunità resilienti, contribuendo alla resilienza complessiva del sistema-Paese.
Rispetto al ruolo tradizionale dei Patti di collaborazione è come se facessimo un passo ulteriore, riconoscendo agli effetti immateriali dei Patti una funzione di interesse generale di cui finora non si aveva consapevolezza, in quanto non era ancora emerso con così tanta forza il tema della resilienza come centrale per il futuro del nostro Paese.
“Unire i puntini luminosi”
Diffondere il modello dell’Amministrazione condivisa e promuovere l’utilizzo dei Patti di collaborazione diventa in questa prospettiva ancora più importante, perché è il modo con cui Labsus può contribuire al grande sforzo collettivo per la ripresa e la resilienza dell’Italia.
Lo facciamo, a titolo del tutto volontario, ormai da molti anni. Quindici, se si considerano quelli trascorsi dalla fondazione di Labsus, sette se si considerano invece gli anni trascorsi da quel fatidico 22 febbraio 2014 in cui presentammo a Bologna il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni. Ebbene, nel fare questo lavoro abbiamo incontrato molti problemi, ma due sono forse quelli che hanno creato maggiori ostacoli nella diffusione della nostra proposta.
Il primo problema è stato ed è tuttora l’estrema frammentazione delle esperienze a livello locale, per cui non c’è trasferimento di competenze fra i cittadini attivi e neppure fra le amministrazioni, con conseguente spreco di energie e di tempo nell’affrontare problemi che spesso sono già stati affrontati e risolti da altri gruppi di cittadini o da altri comuni, magari a pochi chilometri di distanza. È il problema di cui si parla nel primo capitolo del libro I custodi della bellezza affermando la necessità di “unire i puntini luminosi”, ovvero di creare una rete fra i comuni che hanno adottato il Regolamento e, all’interno di questa rete, creare poi dei sotto-insiemi di relazioni non soltanto fra le amministrazioni, i funzionari, gli amministratori, etc. ma anche fra le comunità formate dai “pattisti”, cioè dai cittadini che hanno sottoscritto e che fanno vivere i patti nelle loro città.
I Patti e il contesto normativo pre-sussidiarietà
Il secondo problema incontrato nella diffusione dei Patti di collaborazione sta nel fatto che essi, dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico, sono fonti del diritto nuove, fondate su un paradigma nuovo che trae legittimazione da un principio costituzionale nuovo, quello di sussidiarietà, inserito in Costituzione nel 2001. E quindi la loro applicazione si scontra quotidianamente con principi, valori e soprattutto norme completamente diverse, anzi opposte, risultato dell’evoluzione fondata sul paradigma bipolare che il Diritto amministrativo ha avuto in circa due secoli di storia. Il Regolamento ed i Patti hanno invece pochissimi anni di vita e anche per questo motivo spesso non sono ancora del tutto riconosciuti come fonti del diritto, né come strumenti utilizzabili legittimamente dalle amministrazioni per regolare i rapporti con i cittadini attivi.
Ci sarebbe dunque da fare un grande lavoro di formazione e di “acculturazione” sia dei funzionari degli enti locali, sia anche dei cittadini. Ma questa, che sarebbe la soluzione al problema dell’accreditamento, per così dire, dei Patti di collaborazione presso le amministrazioni come strumenti normali di lavoro, potrebbe al tempo stesso essere anche la soluzione al problema del “fare rete” fra gli amministratori, i funzionari ed i cittadini attivi dei diversi comuni.
La formazione per fare rete
Avevamo per la verità già cominciato ad affrontare questo problema della rete insieme con il Comune di Bologna e la Fondazione per l’innovazione urbana, invitando il 6 e 7 dicembre 2019 a Bologna coloro che in vari modi e ruoli si occupano di amministrazione condivisa dei beni comuni. Per due giorni oltre 200 fra amministratori, funzionari e cittadini attivi da tutta Italia discussero delle rispettive esperienze, dando vita ad un confronto approfondito che mise in luce, fra le altre cose, l’esistenza a livello nazionale di una comunità di pratica disposta a lavorare insieme sulla base di un Patto fra le città per i beni comuni. E infatti al termine delle due giornate ci si era ripromessi di rivederci nei mesi successivi in altre città italiane per proseguire nel lavoro di costruzione della rete, ma l’arrivo della pandemia congelò tutto.
Adesso che lentamente il Paese comincia a riaprirsi si potrebbero riallacciare i rapporti fra le diverse componenti di quella comunità di pratica utilizzando la formazione come “collante” fra le diverse realtà territoriali e sociali che ne fanno parte, contribuendo così da un lato a far accettare dai funzionari i Patti di collaborazione come strumenti normali di rapporto con i cittadini, dall’altro al superamento della frammentazione delle esperienze.
Lo strumento potrebbero essere le Scuole di cittadinanza che da alcuni mesi stiamo sperimentando con successo a Roma per formare cittadini attivi, responsabili e solidali. In questo modo quando finalmente anche a Roma, dopo i tentativi falliti degli anni passati, sarà adottato il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, ci saranno già diversi comitati e gruppi di cittadini pronti a stipulare patti di collaborazione con l’amministrazione comunale.
I corsi delle Scuole di cittadinanza sono articolati su tre moduli (uno alla settimana) di circa due ore l’uno e si svolgono online, su piattaforme che consentono l’interazione e lo scambio di idee fra i partecipanti, la registrazione degli incontri, la creazione di gruppi di lavoro, etc.. Si potrebbero progettare delle edizioni delle Scuole di cittadinanza rivolte agli amministratori, ai funzionari ed ai cittadini che formano la comunità di pratica a livello nazionale, con “classi” miste sia dal punto di vista personale (funzionari e cittadini insieme), sia dal punto di vista territoriale (allievi residenti in città diverse). In questo modo lo scambio e l’interazione sarebbero garantiti e la rete si creerebbe spontaneamente.
Foto di copertina: Daniel Funes Fuentes su Unsplash