La riflessione sull’Amministrazione condivisa, probabilmente, è ad un momento di passaggio “cruciale” sia sotto il profilo giuridico sia sotto quello culturale. L’impressione è che essa si sia radicata all’interno delle amministrazioni pubbliche (a partire dal livello municipale), negli enti del Terzo settore e, più in generale, negli altri enti senza fine di lucro e nei comportamenti dei cittadini singoli nonché nei dibattiti pubblici, ben al di là di quanto potrebbe apparire leggendo i contributi della letteratura giuridica. Ciò non deve stupire: è una evidenza conclamata che il diritto registri le innovazioni sociali con un certo ritardo rispetto a quando esse si verificano nel corpo sociale.
La matrice comune del modello dell’Amministrazione condivisa
Negli ultimi anni, molta attenzione è stata attratta dalle condizioni di ammissibilità dell’Amministrazione condivisa, nel tentativo di rispondere al “se” sia possibile giuridicamente configurare un modello di “condivisione” fra pubblica amministrazione, soggetti del Terzo settore, enti senza fine di lucro e cittadini singoli, alternativo a quello più consueto della concessione, dell’appalto o delle convenzioni. Tuttavia, l’Amministrazione condivisa si è – per così dire – insinuata in diversi settori di attività, a diversi livelli di governo, con diversi schemi, ma con una matrice comune. Questa matrice comune è stata ben descritta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 131 del 2020: essa «non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico». Non vi è quindi un semplice trasferimento di risorse dal pubblico al privato per acquisire beni e servizi ma una “messa in comune” di risorse provenienti da diverse parti, di diversa natura, che determinano un effetto moltiplicatore innescato dalla collaborazione, dalla fiducia reciproca che i diversi attori costruiscono fra loro, dalla capacità di una lettura più attenta e comune della realtà.
I “pezzi” dell’Amministrazione condivisa a livello statale
Se si utilizza questa chiave di lettura, si possono trovare “pezzi” di Amministrazione condivisa disseminati in molti “luoghi”. L’espressione più compiuta e sistematica a livello nazionale è, senza dubbio, il Codice del Terzo settore (d.lgs. n. 117/2017) che, all’art. 55, definisce un vero e proprio modello di condivisione della funzione pubblica, riservato ai soli enti del Terzo settore. Questi ultimi devono essere coinvolti attivamente nell’esercizio delle funzioni pubbliche, tramite gli istituti della co-programmazione e della co-progettazione. L’applicazione dell’art. 55, dopo molte incertezze, è stata resa di fatto operativa dalla richiamata sentenza n. 131 del 2020, dalle modifiche al Codice dei contratti pubblici e dalle Linee guida applicative, adottate con il D.M. n. 72 del 2021. Molto è stato scritto su questa fattispecie e molto si deve ancora fare. Alcune Regioni ed enti locali hanno intrapreso percorsi di adeguamento della loro legislazione al nuovo “modello”.
L’espressione di maggior successo dell’Amministrazione condivisa
Accanto al Codice del Terzo settore, l’espressione di maggior successo sono i Patti di collaborazione che Labsus ha lanciato oramai diversi anni addietro e che sono diffusi in tutta Italia. Essi segnalano che esiste un’altra forma di Amministrazione condivisa, radicata specialmente al livello degli enti locali (ma non solo), che ruota tutta intorno alla cura dei beni comuni, materiali ed immateriali. In questo settore, vi è un forte protagonismo dei Comuni che, in un rapporto con i c.d. cittadini attivi, hanno dato origine ad una singolare modalità di intervento che, per la sua diffusione, non può più essere considerato una eccezione, un caso sporadico, bensì un modello consolidato e, oramai, frequente.
Ricostruire le tessere del “mosaico” dell’Amministrazione condivisa
Il tema che si pone, però, è quello di “ricostruire” le tessere di un mosaico di norme e di scelte amministrative che nel tempo si è venuto strutturando, a poco a poco, norma per norma, con una ricchezza che forse non è stata completamente percepita. Occorre affinare una capacità di individuazione delle “tessere” del mosaico dell’Amministrazione condivisa.
L’esperienza della Regione Toscana
Se ci limitiamo, ad esempio, ad una sola Regione – la Toscana – ed all’ultimo periodo di tempo – cinque anni – troviamo una pluralità di interventi normativi che rimandano a questo modello. Lo abbiamo provato a fare nel corso di un incontro recente di Labsus.
Oltre alla legge n. 65 del 2020 sul Terzo settore, a qualche settimana di distanza è stata approvata la legge n. 71 del 2020 (Governo collaborativo dei beni comuni e del territorio, per la promozione della sussidiarietà sociale in attuazione degli articoli 4, 58 e 59 dello Statuto), che amplia l’orizzonte all’iniziativa autonoma di diversi tipi di formazioni sociali (non solo del Terzo settore) che, nella comunità regionale, perseguono finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, senza fine di lucro, e svolgono attività di interesse generale ed intendono impegnarsi in azioni di cura, gestione condivisa e rigenerazione di beni comuni. Sebbene si tratti di una legge non perfettamente coordinata con la precedente, è però importante notare come si assista in questo caso alla definizione dei cittadini attivi come di «tutti coloro che vivono sul territorio regionale sono soggetti attivi, sia come singoli, sia attraverso formazioni sociali, per iniziative di cura, gestione collaborativa e rigenerazione dei beni comuni» (art. 5).
Il welfare generativo
Qualche mese prima, la legge regionale Toscana n. 17 del 2020 (Disposizioni per favorire la coesione e la solidarietà sociale mediante azioni a corrispettivo sociale) ha disciplinato le c.d. azioni a corrispettivo sociale, quali attività che richiedono il coinvolgimento volontario, attivo e responsabilizzante, del soggetto destinatario di interventi di sostegno da parte della pubblica amministrazione in campo sociale e socio-sanitario, finalizzate alla realizzazione di risultati di impatto sociale a livello locale e regionale, ed al pieno sviluppo della persona e dell’espressione delle sue capacità nell’esercizio dei diritti fondamentali nelle materie di competenza regionale. Sono realizzate alla luce del principio di gratuità. In altri termini, si tratta di un caso di c.d. welfare generativo, su cui molto ha lavorato la Fondazione Zancan in Italia, in cui il soggetto che riceve una determinata prestazione pubblica decide di “attivarsi” e di collaborare con la pubblica amministrazione al fine di contribuire al bene comune, entro i limiti in cui esso può, non limitandosi ad essere mero percettore della provvidenza pubblica.
Le cooperative di comunità e la realizzazione dell’interesse generale
Sulla scorta del grande dibattito sulla coesione sociale nelle aree interne, la legge regionale Toscana n. 67 del 2019 ha introdotto misure di supporto alle c.d. cooperative di comunità, prevedendo la concessione, con la finalità di valorizzazione, di determinate zone del territorio urbano o extraurbano e sulla base di una specifica proposta presentata dalle cooperative stesse, dell’utilizzo di aree e di beni immobili inutilizzati, per il loro recupero e riuso con finalità di interesse generale. Anche in questo caso si tratta di un “patto”, concluso fra la pubblica amministrazione ed un soggetto privato a forte vocazione solidaristica, al di fuori degli schemi tipici della concessione. Anche in questo caso, è la natura proprio del soggetto e la sua finalità che rende necessario impostare una forma di rapporto collaborativo specifica con la pubblica amministrazione: la cooperativa di comunità, poiché insediata in un determinato luogo e con alcuni vincoli specifici, esprime quella «specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale».
Il cammino veloce dell’Amministrazione condivisa
Risalendo indietro nel tempo, se ne potrebbero trovare altri esempi: pro-loco, manifestazioni e rievocazioni storiche, ecc. Quattro esempi, ravvicinati nel tempo, quattro diverse modi di operare. Stessa matrice collaborative. Qual è, però, il messaggio che si deve raccogliere? L’Amministrazione condivisa sta camminando molto rapidamente e si rischia quasi di non tenere il passo, e di perdere così l’immagine di insieme. Occorre, quindi, imparare ad unire i diversi punti e tracciare un quadro complessivo. Sarebbe utile pensare – a partire proprio dalle diverse esperienze regionali – ad un testo unico compilativo che tenga insieme tutte le diverse espressioni dell’Amministrazioni condivisa o, forse più semplicemente, ad un “censimento” attento dei diversi casi. Con due obiettivi.
Il primo, è di saggiare la consistenza del modello, evitando sviamenti sempre in agguato, nel senso di ricorrere all’Amministrazione condivisa come via semplice, rispetto alle rigidità normative: l’Amministrazione condivisa non è la via di fuga dal procedimento amministrativo, dalla trasparenza, dalla necessità di rendere conto. Al contrario, è forse più esigente e più impegnativa, proprio perché si fonda sulla “fiducia”. Il secondo è di evitare che si tratti di una infatuazione del legislatore e dell’amministrazione, ma che non lascia niente “sul campo”, perché inattuata o disattesa o, anche involontariamente, disincentivata, sebbene scritta nelle norme. Sappiamo bene quanto le norme, seppur ben scritte, talora risultino completamente inapplicate o inefficaci.
L’Amministrazione condivisa, invece, ha bisogno anche di questo: che si crei una narrazione, veritiera e completa, di come essa sta trasformando la nostra pubblica amministrazione e le nostre comunità, in tanti ambiti e con una ricchezza notevole di strumenti che rende più forte il pluralismo sociale.
Foto di copertina: Marie Bellando-Mitjans su Unsplash