Da poche ore i ballottaggi hanno completato il quadro di questa ultima tornata elettorale che ha visto coinvolti nell’operazione di voto (potenzialmente, cioè di diritto ma non di fatto) più di 12 milioni di cittadini. Sostanzialmente confermato il quadro politico generale espresso al primo turno. Il centrosinistra ha vinto soprattutto nelle grandi città e il sostegno al governo Draghi (per quanto già solo metterlo in discussione oggi sarebbe un azzardo non da poco) sembra non essere intaccato.
A margine di considerazioni immediate su numeri, alleanze, candidati e conseguenze sul quadro politico generale del Paese, si possono però tracciare, e alcuni commentatori lo hanno già fatto, immediate riflessioni che impongono una visione più ampia e di lungo respiro.
L’astensione: è sempre un dato negativo
Quindici giorni fa, infatti, ha votato meno del 55% degli aventi diritto: record negativo per il nostro Paese. E ai ballottaggi la situazione è peggiorata con un ulteriore calo del 9%. In sostanza il sindaco di Roma è stato eletto con il voto del 60% dei 900.000 di coloro che sono andati alle urne. Se in punta di diritto non c’è nulla da dire, non si può a cuor leggero sostenere che “gli assenti hanno sempre torto”. Per quanto corretta nella sostanza, in fatto di democrazia vitale è bene fare alcune considerazioni.
Un’astensione di tale portata è il segno palese di una sfiducia triplice: verso le istituzioni; verso chi si candida al governo di esse; verso la politica in quanto strumento per prendere, nella maniera più democratica, consapevole ed efficiente possibile, le decisioni che riguardano la vita di tutti. Se la metà della popolazione ritiene di non dare sostanza all’espressione massima del diritto di cittadinanza, il voto, vuol dire due cose importanti: che le sorti del governo della propria vita sociale (e spesso anche privata) interessano poco o si ritiene che nessuno, ormai, abbia veramente il potere di incidere, perché “tutto passa sulle nostre teste e altri sono i poteri veri (o forti…)”.
Trascurando il primo dei motivi non contingenti che suggeriscono l’abbandono del diritto (quello della sostanziale indifferenza), si rifletta su quello che fonda la scelta su una sostanziale – per dir così – presunta “inutilità del voto”. Si basa su un principio semplice: la democrazia è inefficace, quindi mi tiro indietro, non serve che io partecipi. A tutti è evidente che un’idea di questa fattezza apre il varco a una cascata di altre potenziali conseguenze dirette: sono inefficaci le regole e il rispetto di esse; è inefficace il sentirsi parte di una comunità e della solidarietà che ne è il cemento; sono inefficaci le organizzazioni che rendono questa opzione visibile e tangibile; è improbabile, se non impossibile, pensare ad un futuro migliore che sia condiviso e costruito dalle risorse umane e materiali che la fanno diventare non solo un’idea ma una realtà. Sfiducia come principio “ordinatore” di tutto.
Come contrastare la sfiducia nella politica
Per questo, allora, combattere l’astensione/delusione dalla e per la politica significa nient’affatto riabilitare questo o quel partito, questa o quella coalizione, ma, in modo più lungimirante, cercare una diga solida e duratura per ridare sostegno e fiato alla prospettiva per cui (ricordiamolo) hanno combattuto per inverarla i nostri avi, e per farla crescere i nostri padri: questo Paese è un Paese democratico fondato su libertà e solidarietà, incarnate in fermi principi Costituzionali. Per cui ogni passo indietro è… appunto, un arretramento. Senza prevedibili confini, come dimostrano gli ignobili attacchi fascisti di sabato 9 alla sede delle Cgil e – non da così lontano – alle sedi di Parlamento e Governo.
C’è quindi da allarmarsi, ma, al contempo, cercare subito le vie adatte per rimediare. Come? Ci sono due strade: una di lungo periodo e una più immediata che non si può trascurare senza correre il rischio di un facile, ma insieme innocuo e persino controproducente, rammarico postumo.
Le due strade da percorrere insieme
La lunga è quella dell’Educazione alla cittadinanza. Fatta di elementi diversi, tutti in diversa misura necessari: progetti scolastici di educazione civica praticabili e appetibili alle giovani generazioni; formazione delle classi dirigenti che non può con deprecabile cinismo accettare né la regola del “così fan tutti”, né quella che privilegia la mera logica dell’appartenenza affrancata dalla competenza; severità nelle norme che coniugano nella giusta dose capacità e onestà; intransigente disciplina nell’uso dei soldi pubblici (da non trattare nella propria disponibilità, come troppo spesso si è visto anche in questa campagna elettorale).
Educare ed educarsi alla cittadinanza significa, inoltre, strada ancor più lunga e tormentata, adottare linguaggi e pratiche di comunicazione fatte di uno scheletro elementare e di necessaria composizione: passione per la verità dei fatti; rispetto delle opinioni diverse; capacità di ascolto; riconoscimento di eventuali errori e messa in discussione di posizioni da rivedere; misura; studio; circospezione; educazione. In poche parole: tutto il contrario di quei modelli che hanno visto prevalere un sistema “bestiale” di odio e avversione sociale, che ha dominato nella sfera mediatica la comunicazione politica negli ultimi anni (ma è veramente finito?). Il terreno culturale in cui si riabilita la democrazia è fatto di igiene mentale e di parole che non possono essere impunemente corrotte solo per una pericolosa ricerca di facile consenso.
Praticare la cittadinanza: il vaccino per una democrazia debole
Ma – ci sia consentito ripeterlo proprio in questi giorni – è la strada immediata che, parimenti, va percorsa con forza e convinzione per non tradire le attese, anzi, per testimoniare in modo tangibile che la democrazia (sia pure non priva di limiti e difetti) è la migliore forma di governo (incluse le altre, parafrasando Churchill…). La strada della diffusa e organizzata partecipazione all’Amministrazione condivisa dei beni comuni. Non è una nostra personale fissa (seppure, se lo fosse, non ci sarebbe niente di male…). È piuttosto il palese risultato elettorale che lo dimostra: in quelle città dove le amministrazioni precedenti hanno coinvolto i cittadini in programmi di co-progettazione e co-programmazione per la presa in carico di beni comuni, di pari passo si è alzato il tasso di partecipazione alla vita politica nei momenti istituzionali. Cittadinanza civica e cittadinanza politica se non proprio a nozze, sono andate a braccetto. Alimentandosi a vicenda, si vedano, almeno, i casi di Bologna e Milano, che hanno da tempo percorsi di condivisione, con Regolamenti elaborati e rivisti periodicamente perché funzionino al meglio.
È semplice comprenderne le ragioni: laddove l’amministrazione cittadina (di qualsiasi colore essa sia) dimostra che non solo si fida dei cittadini, ma è disposta in modo serio e costante a mettersi sullo stesso piano (pur nella differenza di ruoli e compiti) per accogliere esperienze, culture, conoscenze, esigenze, tecniche, proposte da parte dei cittadini che le hanno maturate negli anni sulla base della propria vita quotidiana, ebbene, quella istituzione cambia volto negli occhi e nella mente dei singoli. Diventa non inutile, o, peggio, nemica, ma prezioso contesto nel quale applicare le proprie competenze per migliorare la qualità della vita, co-amministrando scuole, piazze, immobili, parchi, vie, eccetera. Vi pare poco?
I nuovi linguaggi della comunicazione: necessari come l’ossigeno
Il mondo anglosassone quando parla di politica fa una distinzione terminologica non trascurabile: politics (la lotta per il potere), e policy (i temi concreti del confronto che interessano i cittadini). Pur nascendo da una radice comune, sostanziano una bella differenza. Ecco: la nostra sfera mediatica, importante per creare quell’humus di sentimenti e cognizioni che poi si traduce in scelte nei momenti opportuni (e non solo nel voto), dà spazio in modo esorbitante al primo ambito (con gli annessi format di gossip che rendono più “appassionante” l’agone). Meno, molto meno al secondo che, opportunamente coltivato con informazioni corrette, documentazione, partecipazione, confronto, dialogo, eccetera, renderebbe il cittadino… più cittadino.
È un percorso lungo e non privo di ostacoli, si sa. Ma inevitabile. Aiutano a riflettere le parole del grande Pablo Neruda, quando, in occasione della consegna del suo Nobel nel 1971, lanciava un appello di speranza: «devo dire agli uomini di buona volontà, ai lavoratori, ai poeti, che l’intero avvenire è racchiuso in quel verso di Rimbaud: solo con un’ardente pazienza conquisteremo la splendida città che darà luce, giustizia e dignità a tutti gli uomini».
Le prossime tornate elettorali non sono lontane (nel nostro paese sono praticamente annuali), un cambio di registro si impone. Quale organo di informazione avrà il coraggio di perdere qualche percentuale di ascolti a costo di poter dire che, con “ardente pazienza”, sarà stato utile a costruire (almeno in parte) la splendida città che desideriamo?
Foto di copertina: Dan Dennis su Unsplash