La presentazione del libro “Progettare Beni comuni. Da vuoti urbani a luoghi della comunità“, scritto da Paolo Cottino e Alice Franchina, edito da Pacini Editore, lo scorso 16 ottobre, nell’ambito del Salone Internazionale del Libro di Torino, è stata un’occasione preziosa per discutere del rapporto tra beni comuni e rigenerazione urbana a partire dall’esperienza concreta del progetto del Giardino Marco Adolfo Boroli nel quartiere Sant’Andrea a Novara.
Il libro si presenta non solo come la descrizione del processo di progettazione collettiva che ha portato alla realizzazione del giardino ma anche come il tentativo di presentare un possibile metodo di lavoro che parte dalla costruzione di un cantiere sociale composto da diverse fasi per progettare gli aspetti immateriali del progetto.
I quattro “passi” del cantiere
I due autori propongono quattro fasi, che si affiancano al cantiere fisico e lo sostengono attraverso un processo sociale durante il quale i soggetti attivi diventano i garanti e protagonisti della trasformazione.
Il primo step si chiama “generare la vision“. Attraverso un’analisi territoriali attenta e una messa in ascolto del territorio, si condivide una prima visione collettiva dello spazio e dei suoi possibili usi e significati interrogandosi su quali sono i caratteri e gli aspetti che definiscono la qualità dell’abitare in quel contesto.
Il secondo, “progettare la fattibilità“, si definisce come un periodo di co-progettazione con gli attori del territorio in cui si procede cercando di esplicitare gli obiettivi in prospettiva incrementale, è in questa fase che si è concretizzato un documento programmatico elaborato sotto forma di Manifesto in dieci punti che «raccoglie sinteticamente la pluralità di visioni e idee emerse nel dialogo e nel confronto di tutti i soggetti in gioco»(p.88).
Segue il terzo momento, chiamato “organizzare la gestione“, che si è strutturato intorno a due azioni principali: da un lato la costruzione di un Piano di utilizzo Sociale, esito dei tavoli di co-progettazione, dall’altro la stipula del Patto di Collaborazione, strumento agile per definire i rispettivi impegni, le responsabilità e definire le condizioni della collaborazione.
Questa fase segna il momento di passaggio tra la trasformazione dello spazio dal punto di vista fisico e sociale e il passaggio di consegna del progetto alla sua comunità. Se nel Piano di utilizzo sociale l’obiettivo è stato quello di individuare alcune prime semplici azioni e modelli di organizzazione che partissero dai soggetti coinvolti, dalle loro attitudini, competenze e disponibilità con l’intento di costruire un modello di corresponsabilità del bene comune, con il Patto di collaborazione simbolicamente si consegnano le chiavi del bene comune alla sua comunità, abilitandola a prendersene cura secondo un modello di collaborazione costruito nelle fasi precedenti. Si tratta di un passaggio di consapevolezza molto importante, che mostra le potenzialità del rapporto tra costruzione del bene comune e processo di rigenerazione urbana.
Infine, l’ultima parte: “valutare l’impatto“. Finito il cantiere di trasformazione fisica dello spazio, iniziato l’uso quotidiano del Giardino, l’idea è stata quella di attivare una fase di monitoraggio con l’obiettivo di capire se il percorso sperimentale intrapreso fosse entrato realmente in contatto con gli usi e le visioni dello spazio aperto.
Verso la definizione di nuove alleanze tra pubblico e privato
Questo progetto è interessante perché rappresentativo di alcune dinamiche e problematiche che molti processi di rigenerazione urbana hanno affrontato o stanno affrontando negli ultimi decenni: la definizione di nuove alleanze tra pubblico e privato nella gestione/costruzione di infrastrutture del welfare, la difficoltà di confrontarsi e adattarsi a contesti sociali di grande frammentazione e in rapida trasformazione, la necessità di immaginare il progetto come un processo con tempi e modalità di realizzazione diversi, la capacità di adattarsi usi e funzioni molteplici. In questo senso la costruzione del Giardino Marco Adolfo Boroli mette in evidenza come la costruzione di una rete variegata di attori, in questo caso una fondazione filantropica, l’amministrazione pubblica, un gruppo di professionisti e un insieme di associazioni e attori locali (cittadini attivi in primis) sia in grado di costruire insieme nuovi modelli progettuali ma soprattutto permetta di sperimentare ruoli sociali che risaltano le diverse competenze e conoscenze territoriali.
Come contribuisce il processo del cantiere sociale alla realizzazione del progetto di rigenerazione urbana?
In modi molto diversi, in primis, sempre più spesso contribuisce alla sua fattibilità economica ma non solo; permette di costruire spazi che aderiscano al tessuto sociale e culturale all’interno del quale si inseriscano e non solo di quello fisico, evitando di rimanere avulsi dal contesto, rende il progetto uno spazio di comunità, una vera e propria infrastruttura sociale.
Infatti, nei processi di rigenerazione urbana degli anni ’90, quelli appartenenti ai famosi progetti Urban o PRU, l’idea di costruire a fianco della trasformazione spaziale un processo di inclusione sociale era già presente ed è stato sperimentato con risultati anche molto rilevanti. Il fertile tessuto associativo che è presente ancora oggi nelle nostre città è proprio figlio di quella stagione, in cui il lascito della trasformazione era legata anche alla creazione di una rete associativo in grado animare gli spazi una volta terminato l’intervento fisico. Oggi però quel modo di fare rigenerazione non è più sostenibile in primis, come già ricordato, per la mancanza di risorse economiche, ma anche perché le numerose crisi economiche e sociali, che si sono susseguite negli ultimi decenni, hanno lasciato segni evidenti nel tessuto sociale ancor più che nel tessuto urbano della città. Per questo abbiamo bisogno di progetti che mettano al centro del proprio obiettivo la capacità di diventare spazi accoglienti, di ricostruire relazioni e di ricucire le distanze attraverso la solidarietà.
Dalla progettazione partecipata all’inclusione sociale: il passo è breve?
Questo è possibile solamente se da un percorso di progettazione partecipata e inclusione sociale passiamo a un modello di amministrazione e progettazione condivisa del luogo. Il tentativo fatto da Kcity a Novara ci parla proprio di questo. Della capacità non solo di generare reti e aggregare persone ma di co-progettare e co-gestire lo spazio urbano. La definizione di un Patto di collaborazione come strumento per definire i caratteri e gli aspetti di un processo di co-gestione e co-progettazione dello spazio è sicuramente uno degli aspetti più interessanti e fertili intorno al tema dell’Amministrazione condivisa nella sua relazione alle trasformazioni spaziali. In altre parole, come scrivono alla fine del testo gli autori, lavorare sulle infrastrutture sociali in questa prospettiva può essere l’occasione per la città, e io aggiungerei, e i suoi cittadini, di ‘uscire allo scoperto’.
In questa prospettiva KCity promuove la costruzione di rete nazionale per riaffermare la dimensione sociale nelle politiche di rigenerazione urbana.
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Foto di copertina: Giardino Marco Adolfo Boroli a Novara (credits:Alice Franchina)