«Il territorio, letto come Comunità, diviene uno spazio che offre occasioni per sviluppare e sperimentare servizi e modelli d’impresa in collaborazione con le risorse presenti per rispondere ai problemi della comunità stessa». Da questa affermazione ha avuto luogo la formazione che ci ha visti partecipi venerdì 29 ottobre presso il Polo Formativo Officina H, a Ivrea. Proprio qui, dove ancora si respira la lunga storia della Olivetti che tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del secolo scorso ha visto la realizzazione di un modello d’impresa visionario ed innovativo. L’evento, così, è stato pensato per ampliare lo sguardo verso la costruzione di una cultura innovativa che vede al centro nuovi processi partecipati.
Coprogettare per costruire nuovi processi partecipati
“Coprogettare con la Comunità: gli strumenti dell’Amministrazione condivisa” è il titolo dell’evento: un tema quanto mai centrale quando si pensa a modelli che, in una visione presente e futura, esplorino le esperienze di gestione di luoghi e spazi condivisi. La formazione è stata pensata per rendere protagonisti sia gli operatori che i cittadini e per fornire loro i giusti strumenti per attivare o contribuire alla creazione di processi partecipati. Per questo motivo i partecipanti coinvolti erano portatori di differenti background e professionalità: dai membri del progetto SOCIALAB – Formazione degli Operatori Sociali di Comunità agli amministratori degli enti locali, dai soggetti del Terzo settore ai rappresentanti delle imprese, dai media al mondo della ricerca. Una molteplicità di soggetti perché solo attraverso un confronto creativo è possibile far emergere quell’intelligenza plurale che vede nei vissuti e nelle esperienze dei singoli la chiave per una contaminazione reciproca.
Modelli innovativi di gestione degli spazi condivisi
Uno degli obiettivi primari della formazione era acquisire conoscenze e attivare un confronto per ripensare e promuovere nuovi modelli innovativi di gestione di spazi condivisi. A condurre la formazione non potevano che essere due esperti e studiosi di processi partecipativi che hanno portato tutta la loro conoscenza e tanti stimoli, dal teorico al pratico: parliamo di Cristina Leggio – psicoterapeuta, ora Assessore alla Città internazionale, Politiche giovanili, Partecipazione e Smart City del Comune di Latina e Pasquale Bonasora – Presidente di Labsus ed esperto di coprogettazione. Durante la mattinata sono molteplici le tematiche approfondite: siamo partiti dall’introduzione all’Amministrazione condivisa dei beni comuni per poi passare ai principi, ai riferimenti normativi e al ruolo delle pubbliche amministrazioni; abbiamo parlato di alleanze orizzontali con il Terzo settore, con i soggetti privati e con i cittadini per poi concentrarci sul tema della coprogettazione per ripensare il welfare di prossimità ed esplorare le esperienze di successo avviate sui territori.
Superare la dinamica di conflitto per entrare in una dinamica di cooperazione
«Che cos’è un bene comune?» È la domanda che, prima di addentrarci nel vivo del discorso, ci ha posto Cristina Leggio. Una domanda, o meglio, un punto di partenza per una riflessione condivisa a cui hanno seguito le più disparate risposte: «qualcosa che appartiene a tutti», qualcuno ha suggerito. «Qualcosa di tangibile o intangibile come un fiume o un’area di montagna», oppure «qualcosa che può essere condiviso», o, ancora, «qualcosa che se valorizzato porta a tutti un vantaggio e un accrescimento in termini di benessere».
Come ha spiegato Cristina Leggio, uno specifico bene assume il valore di “bene comune” perché attira l’interesse della collettività ed è proprio quest’attenzione che permette alla comunità stessa, nelle sue diverse componenti, di attivarsi e scoprire che quel bene può diventare un potenziale di crescita e benessere per l’intera società. Allo stesso modo, l’istituzione ha il dovere di ascoltare la chiamata della comunità e accompagnare il percorso avviato: «il percorso che si costruisce passo dopo passo diventa capace di costruire a sua volta un nuovo modello di relazioni tra istituzioni e cittadini che, una volta scelto, si può percorrere sempre». Possiamo dunque considerarlo il risultato di una scelta globale dove ognuno mette a disposizione il suo contributo e la sua responsabilità: riguarda l’amministrazione come le istituzioni di prossimità, i servizi alla persona, le ASL o le realtà del territorio o i cittadini.
«All’interno di questo percorso si richiede a tutti di fare un pezzetto di crescita». Proprio in questo modo, perseguendo gli interessi di una comunità, avviene una magia: iniziamo a parlare un linguaggio condiviso. Un linguaggio che, nello spazio in cui si crea la co-progettazione, non lascia spazio a una forza maggiore che prevale e allo stesso tempo vede il superamento di una qualsiasi dinamica di conflitto per entrare in una dinamica di cooperazione.
Mettere insieme il diritto delle persone e il dovere delle istituzioni
«Siamo sempre stati abituati a lavorare per settori differenti e quindi con linguaggi diversi»: è proprio superando il modello compartimentato “a silos” (che vede ognuno di noi pensare per sé stesso) che possiamo creare uno spazio di lavoro di ascolto e supporto. Così, nel rapporto tra cittadini e amministrazioni, frasi come “non si può fare”, “ti ho chiesto tante volte e tu non hai…” o “questo è il protocollo”, si trasformano in “che ne dici se lo facciamo insieme?”. Proprio questo significa investire sulla fiducia reciproca e creare una rete di supporto forte e collaborativa.
«Una storia concreta ci racconta che attuare un modello nuovo è possibile in un preciso luogo, le storie successive ci dicono che è possibile ovunque». Come ci spiega Cristina Leggio, testimoniando il lungo lavoro di Labsus avviato sui territori in questi anni, creare un nuovo modello di cooperazione ci può permettere di riconoscere le differenti competenze e le responsabilità reciproche. Questo, unito all’identificazione di un linguaggio comune, è il primo passo per costruire comunità più evolute in termini di processi di sviluppo, che possono essere di ispirazione ed esempio, e replicate sui bisogni dei diversi contesti.
Dal Regolamento ai Patti: sperimentare nuovi modelli nelle nostre comunità
Pasquale Bonasora ha poi spiegato l’importanza di sperimentare nuovi modelli innovativi nelle nostre comunità. Come afferma: «lavoriamo sulle relazioni con i territori in modo che le esperienze diventino un modello e si trasferiscano su altri territori». In quest’ottica, il Regolamento per l’Amministrazione condivisa dei beni comuni rappresenta quello strumento che offre la possibilità concreta ai comuni di adottarlo e di adattarlo alle loro specifiche realtà. È poi attraverso i Patti che prende vita l’intenzione di prendersi cura di un bene comune, nella relazione tra spazi e territorio. Un Patto è un atto amministrativo a tutti gli effetti e l’innovazione risiede nella cooperazione che ne sta alla base. «Sono tre gli elementi essenziali: le persone che a partire dai loro bisogni sono capaci di tirare fuori le competenze necessarie; le istituzioni che tramite il processo amministrativo creano un percorso nuovo ed infine gli spazi. Se attraverso i Patti scopriamo che può nascere un nuovo tracciato per esplorare le potenzialità che nascono da queste relazioni, accanto a queste tre si lavora anche sui servizi».
Il Patto di collaborazione: attivarsi per prendersi cura di un bene
Attraverso il racconto di alcuni Patti di collaborazione e le relative esperienze di cura dei Beni comuni che rappresentano casi emblematici in Italia, Pasquale Bonasora ci ha fornito alcune indicazioni su come avviare e contribuire alle esperienze partecipate.
«La coprogettazione è quasi un gioco di squadra. Nei casi in cui si avvia questo processo la creatività diventa un aspetto fondamentale e quando il processo parte dalla relazione, la relazione scatena fantasia». I Patti interpretati in questo modo diventano oggi la chiave per costruire processi nelle politiche pubbliche in maniera diversa. Definito un obiettivo di interesse generale e le relative azioni di cura, il Patto disciplina poi le parti più formali, definite nella coprogettazione. Così il Patto diventa lo strumento per semplificare quei passaggi democratici che molto spesso impediscono la collaborazione con le amministrazioni e allo stesso tempo riduce “il fossato” tra la volontà della comunità e chi rappresenta quella stessa comunità.
In questo processo – è importante aggiungere – è necessario superare l’idea condivisa di molti cittadini che sostengono che “ciò che è pubblico non mi appartiene e quindi non me ne prendo cura”. Quello che serve è mettere in atto un processo culturale che capovolga la piramide e costruisca una relazione che diventa anche (e non solo) un atto di natura politica oltre che una metodologia per costruire insieme le politiche pubbliche. In questa visione i cittadini non si attivano per rivendicare le politiche culturali del territorio, ma per prendersi cura di un bene specifico. Così «il Patto diventa una fonte del diritto perché è un’applicazione concreta del principio di sussidiarietà, ovvero l’espressione del diritto di vivere la propria città ed impegnarsi nella sua trasformazione».
La formazione frontale di venerdì 29 ottobre è stata un fondamentale momento di incontro e confronto che, nel coinvolgere persone attive in differenti ambiti, ha voluto fornire gli strumenti essenziali per renderli protagonisti di nuove e possibili azioni di cura sui nostri territori. Azioni che necessitano di competenze diversificate e che dimostrano che la diversità è una ricchezza.
Foto di copertina: I relatori Cristina Leggio e Pasquale Bonasora nel corso dell’evento di formazione “Coprogettare con la Comunità: gli strumenti dell’Amministrazione condivisa”