Il volume “La riforma del Terzo Settore: un’occasione mancata?”, scritto da Domenico Callipo e Giuseppe Romanelli, a partire dalle sue premesse, si pone l’ambizioso obiettivo di riuscire a far emergere, dal punto di vista sociologico, filosofico, giuridico e psicologico, i principali aspetti sui quali avrebbe dovuto impattare la riforma del Terzo Settore, fortemente voluta dal Governo Renzi nel 2014, ma che, a distanza di quasi otto anni ormai, sconta la mancata attuazione di alcuni degli aspetti ritenuti essenziali, affinché la riforma possa definirsi davvero compiuta.
Un possibile confronto tra la normativa italiana e quella straniera
Nell’introduzione si evidenzia la nascita della normativa di riferimento dai lavori dell’Assemblea Costituente e, di riflesso, negli articoli 2, 18 e 118 della Costituzione. Quindi, è lo stesso dettato costituzionale che dovrebbe essere il faro della Riforma, ma, per gli autori, qualche scelta lascia molte perplessità.
Il libro tenta di effettuare un primo, timido confronto tra la legislazione italiana e quella di alcuni Paesi, vale a dire quella francese di civil law e quella inglese e americana di common law, dove è possibile rendersi conto delle differenze, anche attuative, rispetto alle normative in questione, pure in merito alle differenze di approccio, nel momento in cui viene analizzato il Terzo Settore.
Il percorso storico e non solo giuridico, compiuto da quest’ultimo, evidenzia come in Italia «da una visione fondata su un assistenzialismo di tipo caritatevole e di matrice fortemente cristiana […] si è arrivati alla costituzione dei cosiddetti IPAB […], con delle trasformazioni non agevoli» (p. 10) sia avvenuta una metamorfosi che esprime appieno l’importanza di un comparto, che va dalla protezione civile alla formazione, dalla tutela ambientale alla cooperazione allo sviluppo, e via discorrendo.
In maniera alquanto sintetica, è possibile sottolineare come in Inghilterra, negli anni Novanta del Novecento, gli ETS (acronimo di Enti del Terzo Settore, nda) esercitavano un ruolo davvero pregnante, relativamente all’erogazione dei servizi pubblici, diretti, in maniera alternativa, dagli enti for profit e nonprofit.
Gli Stati Uniti d’America, dal canto loro, hanno potuto contare sempre su un determinato bagaglio culturale ed esperienziale dei cittadini attivi nel mondo del volontariato e in quello civico, mentre la Francia ha registrato un’esperienza non da poco con i cosiddetti servizi di prossimità, i quali sono stati oggetto di dibattito per oltre vent’anni (anche se, secondo il Conseil économique et social d’Oltralpe, non potrebbero essere definiti in maniera univoca).
Un aspetto interessante evidenziato riguarda la fenomenologia del cosiddetto isomorfismo istituzionale o della ibridazione, dato che, come enunciato da Billis, esisterebbero «gli organismi “ibridi”, ovverosia degli enti internazionali, connessi ad un fenomeno multi settore e la loro responsabilità, non così intuitiva nel settore di riferimento, rischierebbe di creare perplessità e difficoltà di sorta circa l’evoluzione delle dinamiche prese in considerazione» (p. 34).
La Legge delega n° 106 del 06 giugno 2016
Tornando all’Italia, il Governo Renzi, nel 2014, ha rivisitato totalmente l’architettura legislativa ab origine del Titolo II del Libro I del Codice civile, tentando di aggiornare e/o di revisionare le Leggi n° 266 del 1991 e n° 383 del 2000, con l’obiettivo precipuo, rifacendosi alle dichiarazioni del Sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dell’epoca Luigi Bobba, di fare in modo che la riforma del Terzo Settore potesse mettere ordine tra le tante regolamentazioni presenti, divise in legislazione a livello nazionale, regionale e settoriale.
È anche vero che l’Italia sconta differenti modalità di iscrizione nei registri del Terzo Settore, anche agli scopi di pubblicità e nelle conseguenti modalità di controllo, tanto da arrivare al punto di avere molti elenchi, non sempre digitali, che non comunicano tra loro, non consentendo alle Regioni di poter definire dei criteri univoci per formare e pubblicizzare i registri in questione.
Uno degli aspetti da prendere, in considerazione attiene «la revisione e la promozione del sistema dei Centri di Servizio per il Volontariato (CSV) e del riordino delle modalità e del controllo degli stessi. La riforma quindi prevede la valorizzazione dei CSV in quanto soggetti preposti all’erogazione dei servizi e alla sperimentazione nella progettazione innovativa per le associazioni di volontariato. Si cercherà inoltre di semplificare le modalità di riconoscimento dei CSV e di individuare specifiche ed univoche modalità di controllo e verifica dell’attività da loro svolta» (p. 63).
Potrebbero essere immaginati dei contesti in base ai quali, dunque, anche sulla base del Decreto Legislativo n° 117 del 2017, il volontario viene considerato un individuo che, sulla base di una scelta libera e non condizionata, porta avanti delle attività a beneficio della comunità e del bene comune, attraverso, ma non solo, un ETS, utilizzando le proprie competenze e il suo tempo libero, al fine di fornire delle possibili risposte alle necessità degli altri e delle comunità più in generale, in maniera del tutto personale, spontanea e gratuita, senza scopo di lucro e per fini di solidarietà sociale.
Il rischio di un simile quadro, comunque, potrebbe essere quello di dare al volontariato, ed al Terzo Settore più in generale, una prospettiva squisitamente economica, uno dei temi approfonditi nel saggio, dato che la riforma stessa creerà sempre più delle disparità non da poco, assimilando tra loro delle realtà completamente differenti.
Di conseguenza, le OdV (acronimo di Organizzazioni di Volontariato, nda), di matrice culturale o di altro genere, le cooperative, le imprese sociali e le fondazioni esprimono tutta la loro peculiarità negli obiettivi, ma, in particolar modo, per quanto attiene gli aspetti umani.
In buona sostanza, risulta complesso unificare il variegato mondo degli ETS, con le sue differenti anime, cercando di creare una sola istituzione giuridica, a meno che non si compiano delle costrizioni, motivate da scopi prettamente economici, come se si volesse effettuare una revisione fiscale, per cui sarebbe necessario puntare all’utilità sociale e non ad una riforma societaria pura e semplice.
Perché definirsi volontari?
L’essere volontari potrebbe partire dalla necessaria e doverosa considerazione che esiste la libertà sostanziale, coniato da Amartya Sen, sul quale si sono soffermati degli autorevoli studiosi, dato che essa «ha apportato notevoli elementi di novità circa la salvaguardia canonica dei diritti, a livello sociale, su cui possono contare i cittadini» (p. 39).
Gli autori, poi, hanno tentato di fornire un contributo alle motivazioni sociali e psicologiche che spingono gli individui ad impegnarsi nel Terzo Settore, argomento troppo vasto da essere trattato in maniera esaustiva (solo per citarne alcuni autori Goldthorpe, Putnam e Mantovani).
Tuttavia, è interessane soffermare l’attenzione posta dagli autori sul capability approach, secondo il quale «in tempi non lontani, comunque, l’approccio delle capacità è stato impiegato in diversi settori, quali l’economia, la filosofia e la sociologia, anche perché, nonostante sia importante rammentare come una tale metodologia sia basata su una micro teoria, è pur vero che, dal punto di vista macro, vi siano dei notevoli sviluppi, circa un confronto comparato delle configurazioni, delle politiche e dei cambiamenti sociali» (pp. 41-42).
Riprendendo l’approccio di Sen, sarebbe indispensabile tenere nella debita considerazione quella che è stata definita come operazionalizzazione della libertà di funzionamento, tramite l’analisi delle ulteriori concezioni di functionings e di capabilities, così da inquadrare il capability approach in una nuova visione della sociologia economica, in maniera tale da avere a disposizione uno strumento analitico, del tutto nuovo, in grado di analizzare teoricamente le politiche sociali in toto.
Analizzando più nel dettaglio i dati statistici disponibili a largo spettro, si è resi conto che «la trasformazione delle forme della partecipazione e dell’impegno volontario sono confermate dalle indagini Istat sugli Aspetti della vita quotidiana. Nel 2013 un’ampia quota di popolazione italiana con almeno 14 anni di età partecipa alle attività delle associazioni sociali (16,7%). Molti intervistati dichiarano di aver dedicato del tempo ad attività gratuite di volontariato a beneficio di altre persone negli ultimi mesi (12,6%). Fra queste aree di impegno esiste naturalmente una parziale sovrapposizione» (p. 51).
È possibile citare, ancora, uno dei maggiori esperti, che ha cercato di enunciare compiutamente il concetto di benessere psicologico, Carol Ryff, il quale ha teorizzato l’eudaimonia aristotelica in maniera combinata con l’operazionalizzazione del benessere, quale risultante di sei componenti differenti che riguardano, in ultima analisi, l’autorealizzazione della persona, senza dimenticare la classica dicotomia tra altruismo ed egoismo.
Le esperienze casertane
Nel saggio vengono ricostruite anche le storie di due ETS in particolare, operanti nella provincia di Caserta, territorio caratterizzata da peculiarità specifiche.
Le realtà in questione, vicine agli autori, nell’impostazione filosofica e politica, sono il Comitato Città Viva e il Comitato per il Centro Sociale-ex Canapificio, accomunate dalla stessa visione di sistema sociale basato sulla solidarietà, sull’inclusione bilaterale e sulle rimozioni delle disparità tra ricchi e poveri.
In particolare «Il Comitato Città Viva nasce nel 2007, nel pieno dell’emergenza rifiuti in Campania, quando, assieme ad altre associazioni e cittadini della zona del quartiere Acquaviva di Caserta, avvia l’esperimento della raccolta differenziata autogestita» (p. 76), mentre «L’associazione di volontariato Comitato per il Centro Sociale è una realtà associativa nata nel 1995. Nel corso degli anni l’associazione ha portato avanti una prolungata azione sociale sul territorio, la cui incisività e utilità sociale e civile sono ormai riconosciute unanimemente dalla cittadinanza e dalle Istituzioni» (p. 78).
Nel prosieguo della trattazione vengono presentati, sicuramente in maniera esaustiva, i due sodalizi casertani, che hanno portato avanti alcune iniziative che hanno attivato nel territorio fenomeni di cittadinanza attiva e di democrazia partecipata, che hanno consentito di creare delle best practices, replicabili nel tempo e nello spazio.
Dove sta andando il Terzo Settore oggi?
In definitiva, il saggio pone al lettore un’ultima domanda, ovvero che strada sta percorrendo il Terzo Settore attualmente, soprattutto dopo l’avvio del RUNTS (acronimo di Registro Unico Nazionale del Terzo Settore), in quanto le piccole realtà potrebbero rischiare di scomparire, non riuscendo ad adeguarsi ai nuovi profili definiti dalla riforma.
Il nonprofit, peraltro, ha preso le mosse da uno studio comparato dell’università di Baltimora, il John Hopkins Comparative Nonprofit Sector Project, portato avanti nella prima metà degli anni Novanta del Novecento in tredici Stati, incluso il nostro Paese, con l’obiettivo di fornire una sistematicità ad un settore tuttora difficile da inquadrare in schemi rigidi e omogenei.
Il vero vulnus, individuato dagli autori, è la definizione ambigua che la riforma ha attribuito al volontario, dando maggior risalto all’assetto economico, piuttosto che a quello della gratuità.
Giunti a questo punto, lasciamo al lettore farsi un’idea del tutto personale, rispetto alle tesi esposte dagli autori, anche perché, come avviene per tutte le riforme, ci saranno sempre i suoi sostenitori e i suoi detrattori.
Foto di copertina: engin akyurt su Unsplash