Quando i beni comuni e l'urbanistica climate-proof sono al servizio dell'innovazione urbana nei territori del Veneto

Il volume “Costruire comunità e territori resilienti“, scritto da Giorgia Businaro, Giovanni Litt, Francesco Musco e Denis Maragno (Anteferma edizioni, Conegliano, 2021), raccoglie interessanti riflessioni intorno a tre principali esperienze e sperimentazioni, vale a dire il progetto “LUCI – Laboratori Urbani per Comunità Inclusive“, la zona del Polesine, in Veneto, come laboratorio di innovazione per i beni comuni, e la resilienza delle comunità, in rapporto all’adattamento ai cambiamenti climatici. Completa il libro una sezione finale dedicata alle lettere dall’Antropocene, che inquadra ancora meglio una trattazione fondata sia sull’importanza delle comunità sia sul ruolo della resilienza.
Riportiamo di seguito la prefazione al volume redatta da Daniela Ciaffi, Professoressa di sociologia urbana al Politecnico di Torino e Vicepresidente Labsus.

Frontespizio del volume “Costruire comunità e territori resilienti”

Italia come laboratorio del diritto alla cura dei Beni comuni

L’Italia è uno straordinario laboratorio del diritto alla cura dei Beni comuni. Circa un abitante su quattro nel nostro Paese gode realmente di questo diritto quando questo libro viene pubblicato, perché in teoria abita in luoghi dove è possibile proporre ai propri amministratori pubblici di contribuire ad azioni di cura di Beni comuni, tanto materiali quanto immateriali. Ma dav­vero è un diritto che sappiamo di avere, di non avere, di non avere ancora? Questo libro lavora su tale (in)consapevolezza. Vi si racconta lo spaccato territoriale del Polesine. Sempre in Veneto vi sono città in cui su questo diritto alla cura si sta lavorando usando per davvero il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei Beni comuni (ad esempio Verona) oppure no, pur avendolo adottato da anni (ad esem­pio Venezia). Come nel resto della penisola, si tratta di aree urbane: è infatti lì che molto più frequentemente si concentrano l’attenzione e l’azione. È inedito che al centro della ricerca-azione si metta non una città ma un terri­torio, come qui coraggiosamente si è scelto di fare. Questo è un libro attorno all’acqua, Bene comune per eccellenza. Dieci anni fa gli italiani votarono un referendum che a uno sguardo estero parve singolare: perché l’acqua come Bene comune e non come servizio pubblico? Tutta una parte del testo, la seconda, ragiona su possibili risposte a una scala vasta: non sono in molti a farlo non solo in Italia, ma nell’intero panorama del mondo occidentale. Chi si occupa di processi pluralistici e inclusivi lo sa: questa è una delle sfide più difficili, perché la tendenza con­siste invece quasi sempre nel confinare le politiche partecipative alla scala micro-urbana.

I Laboratori Urbani per Comunità Inclusive

Un’esperienza laziale che è in corso da alcuni anni – con cui i Labora­tori Urbani per Comunità Inclusive (LUCI) qui descritti entrano in profonda risonanza – è quella del lago di Bracciano come Bene comune. Tutti i comuni che vi si affacciano, nemici storici partitici, come nella più consolidata delle tradizioni municipalistiche italiane, si sono finalmente messi d’accordo per adottare un unico Regolamento per amministrare l’ecosistema in modo con­diviso. Ed ecco che per diversi soggetti che vogliono prendersi cura del lago diventa possibile stipulare Patti di collaborazione (sulla pulizia delle sponde come sulla memoria dei pescatori o sull’animazione del territorio eccetera). La lettera “S” delle “Lettere dall’Antropocene“, che chiudono questo volume, è dedicata al cosiddetto principio di sussidiarietà orizzontale: «Sta­to, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autono­ma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà» (articolo 118 ultimo comma). Occorre sapere che questo passaggio costituzionale ci è molto invidiato all’estero, persino in contesti nazionali democratici che sia­mo abituati a considerare migliori della nostro. Vi si dice in sostanza che la Repubblica non è da sola nel rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo delle cittadine e dei cittadini, bensì che, favorendoli, questi ultimi possono essere il motore del cambiamento evolutivo.

Il possibile rapporto tra Antropocene e Polesine

Il capitolo che propone Linee guida per i comuni come supporto per le amministrazioni è da questo punto di vista fondamentale. Le comunità resilienti citate nel titolo semplicemente non possono durare senza la spon­da di istituzioni paritarie e non autoritative, sempre aperte rispetto a chi vuole contribuire alla cura di beni a uso non esclusivo. È insomma anche attraverso libri come questo che da un lato stiamo prendendo sempre maggior coscienza di un’urgenza democratica: il punto è aver diritto non solo di voto e di parola, ma anche di potersi attivare autonomamente nella cura dei Beni comuni. Dall’altro lato l’urgenza sempre più chiara è quella di dar voce non solo a donne e uomini, ma anche ad animali, vegetali e risorse naturali tutte: si veda la quarta sezione, e il doveroso richiamo al dibattito sull’Antropocene. Ad oggi il laboratorio dell’Amministrazione condivisa dei beni comuni conta centinaia di comuni, alcune unioni di comuni, le prime regioni, mi­gliaia di italiani attivi come singoli, dentro ad associazioni informali ovvero nella sfera pubblica, privata e del Terzo settore. Questo libro non è utopico quando propone uno scenario di co-gestione delle risorse nel Polesine. La chiara proposta di metodo qui contenuta, dagli step alle tabelle che nei processi di coprogettazione saranno utili tracce operative, rimanda a una sana concretezza anglosassone che caratterizza anche la cultura pattizia: chi fa cosa, quando e per quanto tempo, quante e quali risorse servono, come fare e soprattutto perché farlo?

L’approccio partecipativo

L’approccio partecipativo che permea l’intero volume è il valore ag­giunto culturale che dà non solo un respiro politico ampio, ma anche stru­menti disciplinari sorridenti anche a lettori non esperti. Fanno bene gli autori a ricordare l’Agenda 21 Locale della seconda metà degli anni Duemila così come l’identificazione dell’Area Interna “Contratto di Foce Delta del Po” nel 2017. Sono tappe importanti non solo per la comparsa di soggetti tradi­zionalmente esclusi dalla pianificazione delle politiche, ma anche perché si è data attenzione ad azioni di comunicazione, consultazione dei partecipan­ti, animazione del territorio e sviluppo di capacità delle persone, comprese quelle tradizionalmente escluse dalle geometrie del potere. La speranza è che le mappe di comunità che includono i rischi am­bientali elaborate da questa squadra di ricerca facciano scuola. Va con­temporaneamente tenuta alta l’attenzione su una delle accezioni di Beni comuni, secondo cui non esistono beni comuni se non c’è una comunità che se ne può prendere cura.

Conclusioni

Per concludere, e visto che di qui in avanti si parlerà di LUCI, introdu­co una metafora energetica cara a Gregorio Arena, padre dell’idea di Am­ministrazione condivisa dei beni comuni. In questi anni molti osservatori hanno fatto notare che siamo di fronte a un’effervescenza di esperienze che è difficile interpretare e che rischia di non essere messa a sistema: il fatto che anche nel Polesine si accendano dei laboratori di sussidiarietà orizzon­tale non è pura effervescenza, ma è più probabilmente il segnale che un di­segno (inter)nazionale più ampio e popolato si sta sempre più chiaramente delineando. Sono luci che hanno iniziato ad accendersi a Bologna nel 2014 e in altre città che via via hanno adottato il Regolamento per l’Amministra­zione condivisa dei beni comuni, così come a Napoli e in altri contesti che sono diventati in altro modo laboratori di cura dei beni comuni, poi sul lago di Bracciano come bene comune, quindi sul Polesine e così via, con un mo­vimento entropico che fa finalmente sempre più i conti con la complessità.

Foto di copertina: campagna polesana su Wikipedia