Ipotesi e strumenti di prevenzione partecipata degli incendi boschivi alla luce dei più recenti interventi normativi

I nefasti impatti dell’ultima stagione degli incendi boschivi nel nostro Paese, insieme ai recenti interventi normativi sulla materia e, più genericamente, sull’ordinamento forestale, impongono una riflessione circa l’adeguatezza della strategia di governo di tale fenomeno.

Quando la lotta attiva non è (più) sufficiente

Secondo il recente rapporto pubblicato da UNEP- GRID Arendal, il fenomeno degli incendi boschivi sta globalmente aumentando sia in termini di intensità che di estensione, in ragione di diversi fattori, tra cui i cambiamenti climatici. Il mutamento delle condizioni in cui il fenomeno può presentarsi e il conseguente incremento del rischio ad esso associato ha maturato la consapevolezza dell’inefficacia delle strategie che prediligono un approccio di lotta attiva agli incendi, prive di adeguate misure di prevenzione. Ai sensi dell’art. 4, co. 2, della legge quadro in materia di incendi boschivi 21 novembre 2000, n. 353, queste ultime consistono in azioni finalizzate alla riduzione delle cause e del potenziale innesco d’incendio e alla mitigazione dei danni conseguenti. Si tratta, pertanto, di interventi di monitoraggio e cura del territorio preposti alla riduzione del rischio nelle sue componenti, che non possono che necessitare di un contributo attivo da parte di attori non istituzionali, in special modo se si tiene conto che circa il 63,5% del patrimonio forestale nazionale è di proprietà privata.

Le operazioni selvicolturali in funzione preventiva

Tra gli interventi di cura vanno dunque annoverate le operazioni selvicolturali di pulizia e manutenzione del bosco, che sono peraltro riconducibili alla fattispecie delle pratiche selviculturali di cui all’art. 3, co. 2, lett. c), d.lgs. 3 aprile 2018, n. 34. Seppur siano interventi finalizzati a preservare il bene forestale da un fenomeno che ne compromette l’integrità, si tratta di misure che incidono sulla sua stessa conformazione e, come tali, sottoposti a possibili regimi autorizzativi. Tra questi rientrerebbe certamente l’autorizzazione paesaggistica qualora il bene sia stato dichiarato di notevole interesse pubblico per mezzo di apposito provvedimento amministrativo, non essendo esteso a questa fattispecie il regime di esenzione per le aree tutele ex lege di cui all’art. 149, co. 1, lett. c), d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. Chiaramente, siffatti regimi autorizzatori si configurano come strumenti necessari ad assicurare il bilanciamento tra le finalità protezionistiche cui sono preposte e gli interventi di mitigazione del rischio. Sul punto, tuttavia, sembra essere sinora mancata da parte del legislatore la dovuta accuratezza nella regolazione della questione, essendosi da ultimo limitato a ricordare quasi tautologicamente, con il d.l. 8 settembre 2021, n. 120, la necessità di tener conto, negli interventi colturali, delle specificità delle aree protette o degli ‘habitat di interesse conservazionistico’, invece di proporre, ad esempio, regimi autorizzatori semplificati per interventi di tale specie.

Di fronte alla parcellizzazione della proprietà: gli accordi di foresta

L’abbandono dei terreni, da cui può chiaramente derivare una mancanza di cura con dirette conseguenze sul rischio qui di interesse, appare diversamente un tema su cui il legislatore sembra aver posto maggiore attenzione. Al di là delle disposizioni introdotte con il d.lgs. n. 34/2018, al fine di rispondere al problema della polverizzazione della proprietà fondiaria, che all’abbandono appare intimamente connesso, il legislatore ha introdotto, con la l. 29 luglio 2021, n. 108, del d.l. 31 maggio 2021, n. 77, i c.d. accordi di foresta. Si tratta di forme di collaborazione finalizzate, inter alia, alla realizzazione di interventi di riduzione dei rischi naturali, tra cui gli incendi boschivi, che vengono stipulate da due o più soggetti, singoli o associati, con la condizione che almeno la metà sia proprietario o che sia titolare di un di un diritto di godimento sul bene agro-silvo-pastorale oppure che uno tra i contraenti rappresenti soggetti titolari di tali diritti. Tali elementi configurano dunque l’accordo di foresta come un contratto di tipo nuovo, che include nella platea dei possibili contraenti anche i soggetti privi della qualifica di imprenditore, diversamente dal contratto di rete di imprese agricole, al quale viene comunque equiparato con conseguente estensione delle agevolazioni a questo riconosciute. Pur non essendovi sinora i presupposti per una piena valutazione dell’efficacia dello strumento, la fisionomia dello stesso sembra presentare i caratteri tali per costituirsi come un incentivo a non abbandonare il bene forestale all’incuria, a partire dalla ricerca di un equilibrio tra la proprietà e la vocazione produttiva di imprese potenzialmente interessate.

Il caso della comunità Firewise toscana

Al di là degli specifici profili normativi evidenziati, intorno a tale tema appare degno di nota il caso delle quattro comunità c.d. Firewise sperimentate nella Regione Toscana, sotto l’indirizzo dell’ente regionale. In specie, si tratta di forme di collaborazione tra pubblico, privato e organizzazioni di volontariato finalizzate ad adattare al rischio di incendio le aree intorno a beni immobili privati nelle c.d. zone di interfaccia urbano-rurale, al fine di aumentare il livello di sicurezza in conformità al principio di autoprotezione.

Spunti di riflessione conclusivi

In generale, comunque, anche alla luce delle sollevate criticità, le condizioni normative per una generalizzata promozione di operazioni preventive in forma partecipata non appaiono del tutto apprezzabili. Tuttavia, l’introduzione del citato strumento contrattuale, insieme a quest’ultima esperienza, sembrano mostrare le prime tracce di uno spirito di collaborazione necessario ad un governo condiviso del rischio.

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Foto di copertina: Matt Howard su Unsplash