La questione che si intende affrontare con questo contributo riguarda la possibilità di considerare la protezione civile – ed il sistema organizzato che la garantisce e, dunque il Servizio Nazionale della Protezione Civile (SNPC) – come un bene comune e, come tale, oggetto di Amministrazione condivisa.
Fondazione Cima – ente di ricerca e centro di competenza del SNPC in materia di rischio idrometeorologico, incendi boschivi e sulla responsabilità degli operatori di protezione civile – da diversi anni svolge studi, ricerche e collaborazioni in progetti operativi, in esito ai quali si è sviluppata la consapevolezza del valore straordinario di questa realtà come motore non solo di protezione individuale e collettiva nella “società del rischio”, ma anche come propulsore di nuovi modelli di governance e di policy per uno sviluppo sostenibile. Si tratta allora di compiere uno sforzo di ricerca per trovare, per quanto possibile, un inquadramento sistemico che possa accogliere le intuizioni sorte dagli studi e dalle esperienze sin qui compiute.
Il presente contributo intende dunque dare avvio a questo sforzo nel desiderio non solo di trovare risposte, ma soprattutto di favorire connessioni tra i soggetti che, su altri fronti, si cimentano con valori dello stesso tipo e ciò a partire dall’esperienza di Labsus.
Il Sistema Nazionale della protezione civile
Il Sistema di protezione civile italiano è considerato una delle eccellenze del nostro Paese.
La Protezione Civile italiana “moderna” (che supera cioè la logica del mero soccorso post evento) nasce nei primi anni ’80 a seguito di eventi tragici come il terremoto dell’Irpinia e i fatti di Vermicino e viene poi strutturata negli anni ‘90 a seguito dell’emanazione della Legge 225 del 1992. Da allora il Sistema di Protezione Civile ha subito un’importante evoluzione per seguire le innovazioni normative (soprattutto la riforma del Titolo V della Costituzione, nonché il D.Lgs 112 del 1998), tecnologiche e organizzative (costruzione della Rete radar nazionale, della Rete fiduciaria di stazioni meteo, i Centri Funzionali Regionali e la Sorveglianza geofisica e vulcanologica; il Volontariato organizzato), scientifiche (si pensi allo sviluppo dei modelli idrometeo e agli studi sui precursori dei terremoti), che riguardano la comunicazione del rischio (Campagna “Io non rischio” e prossimamente il sistema di allarme pubblico “It-Alert”) e per poter gestire rischi emergenti (pandemie, disastri legati ai trasporti) e nuove sfide introdotte dai cambiamenti climatici.
Nel 2018 è stata posta una pietra miliare di questo processo evolutivo con l’introduzione del Codice di Protezione Civile (D. Lgs. 1 del 2018).
Il Codice oltre a consolidare una serie di principi che negli anni precedenti già erano diventati prassi del Sistema, pone anche le basi della Protezione Civile del futuro. L’obiettivo che il Codice consegna alla Protezione Civile è quello di tutelare beni quali la vita, l’integrità fisica, i beni, gli insediamenti, gli animali e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da eventi calamitosi. Peraltro, da una lettura attenta del Codice e dalla profonda conoscenza del Sistema nella più profonda visione di “Servizio Nazionale”, è lecito affermare che la Protezione Civile non ha solo lo scopo di proteggere beni che sono anche comuni, ma – appunto nella sua dimensione di Servizio Nazionale – può essa stessa essere considerata un bene comune.
La Protezione Civile italiana si basa infatti su una articolata rete di rapporti tra cittadini, soggetti pubblici e privati che, insieme, concorrono al successo del Sistema ed al suo ruolo nevralgico nel nostro Paese. Si tratta di una comunità solidale – fortemente ispirata al principio di sussidiarietà – che vede il contributo di più di 5000 Organizzazioni di volontariato, ma che, con le novità introdotte dal Codice, non solo prevede la partecipazione di tutte le Istituzioni e organizzazioni pubbliche e private dello Stato, ma anche quella dei cittadini singoli e associati nell’attività di pianificazione, nella diffusione della conoscenza e della cultura di protezione civile e nella promozione di iniziative volte ad accrescere la resilienza delle comunità; iniziative in grado di determinare una vera e propria governance del rischio e, talvolta, supporto e indirizzo alle policy territoriali di gestione del territorio e sviluppo sostenibile.
Gli effetti di una pianificazione di protezione civile partecipata
Quella che si vuole valorizzare nella concezione di cui al detto Codice è dunque una dinamica in cui la dimensione pianificatoria del “command and control” (tipica dell’amministrazione) e quella dell’ “impegno solidaristico” (tipica delle formazioni sociali), non si contrappongono o si limitano ad una giustapposizione, ma piuttosto si integrano reciprocamente in una comunità solidale e reticolare, capace – nella sua dimensione di Servizio Nazionale – di produrre, diffondere, interpretare e applicare in maniera innovativa, relazionale e proattiva, non solo la conoscenza intorno al rischio, ma anche la sua gestione in chiave politica.
In particolare, nella pianificazione di protezione civile, la partecipazione dei cittadini svolge una duplice funzione: (i) aumentare la consapevolezza della collettività rispetto al rischio, (ii) creare condivisione degli obiettivi di protezione civile e quindi facilitare un’azione integrata con e fra cittadini, comunità e autorità locali. Dalle esperienze svolte e studiate, è emerso come il maggiore coinvolgimento nelle decisioni e la valorizzazione delle conoscenze di contesto locale, favoriscono empowerment sociale e la resilienza della comunità: elementi che, nel contesto di protezione civile, sviluppano la capacità di una Comunità di affrontare gli eventi calamitosi, di superarli e di uscirne rafforzata o addirittura trasformata virtuosamente.
Inoltre, la “creazione” di visioni e azioni condivise sulle prospettive di sviluppo, di gestione di emergenze, unitamente ad un apprendimento continuo nella dimensione della reciprocità interdisciplinare, realizzano per un verso nuovi ed efficaci modelli organizzativi e, per altro verso, determinano nelle varie componenti del Sistema quella cura del proprio territorio quale cifra più autentica della responsabilità: elementi questi centrali per assicurare un miglioramento della governance locale tanto nella mitigazione e gestione del rischio che nella tutela dell’ambiente.
La partecipazione diventa in questo modo uno strumento fondamentale per trasmettere ai cittadini quell’insieme di informazioni pratiche e conoscenze scientifiche di base; e contemporaneamente diventa strumento di accettazione del rischio e auto-responsabilizzazione collettiva e individuale, riconoscendo come essenziale il ruolo della preparazione della comunità al fattore di rischio (community preparedness) e il suo coinvolgimento attivo nella definizione di soluzioni e strategie per salvaguardare la propria sicurezza e garantire uno sviluppo sostenibile.
Il Piano di protezione civile – ai vari livelli previsti dalla legge – può quindi configurarsi come un vero e proprio laboratorio tecnico e politico di comunità, utile per colmare tutta una serie di deficit: funzionali (mancanza di informazioni e competenze, inerzia amministrativa, delegittimazione della classe politica, ecc.), relazionali (assenza o esiguità di reti sociali, di opportunità per innescare e sviluppare sinergie locali, ecc.) e ambientali (fragilità territoriale).
Difficoltà, bisogni e opportunità
Il potenziale che origina dall’obbligo di una pianificazione di protezione civile partecipata al livello comunale con l’apporto dei cittadini e delle organizzazioni di volontariato rischia tuttavia di essere frustrato dalla mancanza di risorse e, spesso, dalla scarsa sensibilità del livello locale. È dunque necessario e urgente per un verso mettere in agenda politica e culturale il tema del rischio e per altro fornire ai Comuni – soprattutto a quelli piccoli – un supporto effettivo.
Se le Amministrazioni regionali, con specifico riferimento alla pianificazione comunale partecipata, possono certamente fare molto in termini di promozione della cultura di protezione civile e allocazione di risorse, un ulteriore contributo potrebbe pervenire proprio dall’utilizzo di strumenti dell’Amministrazione condivisa quali i Patti di collaborazione, la coprogettazione e la coprogrammazione. Favorire esperienze di questo tipo, in quanto capaci di mettere in connessione virtuosa una vasta pluralità di soggetti portatori di interessi per cogliere obiettivi di interesse generale, potrebbe dare straordinario impulso all’attuazione del Codice di protezione civile e, contestualmente, dare ulteriore spinta alla pratica e allo studio di modelli di Amministrazione condivisa.
Ci sono migliaia di Comuni italiani che debbono approvare i propri Piani di protezione civile in adesione alle nuove disposizioni del Codice del 2018: immaginare che ciò possa farsi con le modalità qui auspicate non pare affatto un azzardo, ma piuttosto un approccio pratico sicuramente idoneo a superare limiti e difficoltà di varia natura e certamente foriero di una qualità della pianificazione d’emergenza che davvero possa dirsi integrata con altre pianificazioni territoriali e finalizzata ad uno sviluppo sostenibile delle nostre città. Se nei Regolamenti per l’Amministrazione condivisa incominciasse ad essere inserita la materia della protezione civile e se tra i Patti di collaborazione e le esperienze di coprogettazione e coprogrammazione vi fosse la pianificazione d’emergenza, si farebbe un notevole passo avanti verso una manutenzione quanto più efficace di quell’eccellenza che è la nostra Protezione Civile; al contempo si realizzerebbero le condizioni per una migliore politica di riduzione dei rischi e per la creazione di comunità più resilienti e solidali.
Marco Altamura e Marina Morando sono entrambi ricercatori della Fondazione Cima.
Per le immagini, inclusa quella di copertina, si ringrazia la Fondazione Cima.
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