«Quel giorno non comprendevo fino in fondo l’importanza di quello che stava succedendo, anche se ero molto fiera di recarmi alle urne. Con gli anni ho compreso meglio. Oggi sono orgogliosa di poterlo raccontare ai miei figli e nipoti. È stato un traguardo importantissimo per le donne e la democrazia in generale». Sono parole che raccontano un giorno storico, quello del 2 giugno 1946. Sono parole che raccontano le emozioni di Francesca Costella, tra le prime donne in Italia ad aver esercitato il diritto di voto.
Il primo partito italiano
La realtà oggi sembra molto diversa e decisamente meno entusiasmante. Quello dell’astensione è il primo partito in Italia e mentre, con ogni probabilità, avremo per la prima volta una donna alla guida del Governo, il livello della partecipazione al voto si abbassa sempre più. Il dato dell’astensione, del resto, sembra non preoccupi abbastanza i protagonisti della vita politica. È un tema buono per la prima dichiarazione a urne appena chiuse, quando ancora non ci si può sbilanciare sui risultati elettorali, ma sembra già dimenticato il giorno dopo le elezioni.
Innanzitutto, cambiare la legge elettorale
La percentuale dei cittadini che non è andata a votare alle politiche del 1983 era dell’11,99% (la prima volta con numeri in doppia cifra), nell’ultima tornata elettorale ha raggiunto il 36,09%. In soli cinque anni, dal 2018 ad oggi, quasi il 10% in più. Un lento inesorabile declino della voglia di partecipare attraverso l’esercizio del diritto di voto da parte degli italiani. Qualcosa nei sistemi politici attuali sembra non funzionare più vista la difficoltà delle forze politiche tradizionali a raccogliere consenso e governare. Tra le cause che alimentano la disaffezione al voto non sembra trovare riscontro nella classe politica quella di una legge elettorale che da tempo ha sottratto agli elettori il diritto di scelta dei propri rappresentanti, indicati dalle segreterie di partito e molto spesso catapultati in territori che non conoscono e scelti in base a più o meno attendibili garanzie di “obbedienza” al capo politico.
Una lettura semplicistica dell’astensionismo
Nessun riferimento alle criticità dell’attuale sistema elettorale lo si trova nemmeno nel Libro bianco per la partecipazione dei cittadini al voto promosso dal Ministero per i rapporti con il Parlamento, pubblicato nell’aprile di quest’anno, dove però troviamo una sorprendente definizione dell’astensionismo di protesta inteso come «quelli che possiamo considerare gli alienati che vanno da coloro che dissentono esplicitamente dalle politiche governative, a quelli che contestano la classe politica con posizioni chiaramente anti-establishment, a quelli che non hanno fiducia nel metodo (elettorale) democratico, a quelli con posizioni radicali, anche neo-autoritarie». Mi sembra una lettura semplicistica e per certi versi autoassolvente di un sistema che forse dovrebbe porsi come obiettivo quello di contrastare soprattutto le diseguaglianze crescenti nel mondo come nel nostro Paese.
I poveri non sono interessati a votare
Del resto, alcune interessanti letture mostrano un evidente collegamento tra le aree più povere e depresse e quelle con la maggiore astensione dal voto, quasi sovrapponibili. Significa che chi vive quotidianamente la precarietà, la mancanza di risorse, l’assenza di speranze non ha più riferimenti e crede sempre meno nella democrazia come processo che garantisca il benessere e la felicità di ciascuno e non di un numero sempre più ristretto di privilegiati.
Nuovi spazi per l’esercizio della democrazia
È un tema che riguarda tutti, da destra a sinistra. La verità, forse, sta nella necessità di recuperare gli spazi della democrazia in un processo che non può dirsi mai compiuto e leggere e sostenere quello che di nuovo sta nascendo, in forme diverse dal passato, ma con la capacità di definire identità nuove, mobilitare energie per la tutela di interessi generali, riconoscersi in principi e valori condivisi. Le tradizionali forme di partecipazione politica, invece, vivono ormai da tempo un processo di trasformazione e mutamento, nate per ricoprire innanzitutto una funzione di integrazione sociale e aggregazione delle domande a cui dare risposte attraverso la rappresentanza politica, per sopravvivere nel mercato elettorale puntano sempre più sulla personalizzazione e sul ricorso agli strumenti tipici delle strategie commerciali.
Saper riconoscere i nuovi soggetti diffusi, per dare loro fiducia
La ricerca spasmodica del consenso impedisce, non sempre ma spesso, di riconoscere tanti soggetti diffusi, apparentemente deboli ma molto radicati sul territorio, che stanno ridefinendo i confini dell’agire pubblico. Sono quei cittadini, organizzazioni collettive, gruppi informali, associazioni riconosciute e legittimate dal principio di sussidiarietà orizzontale. Tocca alle istituzioni “favorire” l’autonoma iniziativa dei cittadini ma, senza dimenticare l’impegno e l’abnegazione di tanti, soprattutto amministratori locali tecnici e politici, siamo ancora lontani dal significato che la costituzione all’articolo 118, IV comma attribuisce a quel “favoriscono”.
Sembra prevalere ancora l’idea che le esperienze di Amministrazione condivisa attraverso la cura dei beni comuni, sempre più diffuse in tutto il Paese, siano certamente positive ma sostanzialmente amatoriali. Buone per alimentare il senso civico dei cittadini ma senza quella capacità di incidere sui grandi problemi del nostro tempo, primo fra tutti quello delle disuguaglianze. Utili, forse, per migliorare la fruizione di alcuni beni, ma ancora poco efficaci nel migliorare la qualità della vita nei territori. È necessario, allora, che le istituzioni pongano maggiore fiducia in queste esperienze e nelle forme di gestione dei beni comuni che solo l’Amministrazione condivisa è capace di promuovere.
Una gestione condivisa anche di servizi di interesse comune
Quanto è lunga la lista degli spazi dimenticati delle nostre città? Aree dismesse, cinema abbandonati, scuole chiuse, edifici pubblici e privati inutilizzati tutti in attesa di una nuova identità che potrebbe trasformarli da costo a investimento per l’amministrazione pubblica. Non solo, oggi si è fatta strada la possibilità che sia possibile attivare la gestione condivisa anche di servizi di interesse comune che mettono al centro la persona affinché possa sentirsi parte integrante di una comunità in un percorso centrato intorno alla pratica quotidiana della cura. È necessario superare l’idea che solo la gestione pubblica sia in grado di garantire l’accesso a beni e diritti fondamentali, a favore di modelli e forme di gestione condivisa e partecipata da parte dei cittadini.
Proposte per forme innovative di impegno politico
La stessa Corte costituzionale nella pronuncia 131/20 ha definito l’Amministrazione condivisa come «un canale alternativo a quello del profitto e del mercato», è un riconoscimento che la politica deve saper cogliere e fare proprio, c’è bisogno di trovare strade nuove per superare l’insofferenza crescente rispetto alle forme della democrazia. Forme innovative di impegno politico che interpretano in chiave contemporanea il diritto di ogni cittadino di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49 Costituzione), oggi passano dalla capacità di riconoscere alcuni elementi essenziali, non solo di natura tecnica e amministrativa, dei processi di Amministrazione condivisa:
- sono centrati sulle persone e sulla cura del pianeta. I beni comuni sono al tempo stesso locali e globali ma solo chi vive nel territorio dove quel bene si trova può concretamente prendersene cura per consentire a tutti gli altri esseri umani presenti e futuri di goderne i benefici;
- hanno la capacità di valorizzare i processi dalla piccola alla grande scala. Nello spazio, dall’effetto della singola azione di cura alla visione generale di impatto sostenibile e nel tempo, dal presente al futuro;
- alimentano la creatività e lo scambio di idee facendo emergere nuove prospettive;
- sono orientati all’inclusione e alla condivisione delle differenze riconoscendo l’interdipendenza tra le generazioni e le culture;
- sono circolari e generativi perché liberano le risorse esistenti – fisiche e sociali – per nutrirle e farle crescere.
L’azione sussidiaria dei cittadini, dunque, ha una sua dimensione politica capace di produrre e alimentare quelle risorse di socialità indispensabili per sostenere la nostra febbricitante democrazia.
LEGGI ANCHE:
- Una visione sistemica dell’Amministrazione condivisa
- La cittadinanza attiva, i beni comuni e il destino della democrazia