“Tutta la diversità umana è il prodotto della varietà quasi infinita delle combinazioni di geni. Noi tutti siamo formati della stessa polvere cromosomica, nessuno di noi ne possiede un solo granello che possa rivendicare come suo. È il nostro insieme che ci appartiene e ci fa nostri: noi siamo un mosaico originale di elementi banali”
Jean Rostand
Il presente è frutto della nostra storia ma è la forza del futuro a creare il nostro presente
Nell’attuale scenario delle politiche sociali si apre una nuova fase, nella quale stanno emergendo modelli, metodi e strumenti il cui scopo è quello di orientare e strutturare il coinvolgimento con gli enti del Terzo settore. Si tratta, a ben guardare, del riconoscimento di una strategia già perseguita con tenacia da una molteplicità di attori sociali, che sono stati, negli ultimi anni, all’origine del cambiamento, configurando nuovi modelli di assistenza sociale e di sviluppo locale, innescando forme di welfare di prossimità. La legge 328/2000 aveva già anticipato pratiche e strumenti di integrazione sociale, ispirando parte delle riforme attuali. Non è un caso, come afferma Gianfranco Marocchi, che quando, vent’anni più tardi, la Riforma del Terzo settore pone le basi per un’impostazione autenticamente sussidiaria, molti operatori del welfare la trovano così naturale che quasi non gli appare che sia cambiato qualcosa, semplicemente smettono di vedere difficoltà insormontabili ad aprirsi ad una visione in cui istituzioni e Terzo settore sono partner cointeressati e corresponsabilizzati all’interesse generale. Tale premessa mette in evidenzia l’importanza di ripercorrere la storia per comprendere meglio i tratti dell’umanità e le azioni, individuali e collettive, che hanno portato a determinati avvenimenti.
Per la stessa ragione il ricorso all’etimologia, intesa come mezzo per facilitare la comprensione dei termini, in questo caso di natura prevalentemente tecnica, potrebbe rivelarsi utile alla definizione dei significati che discernono i processi di costruzione delle politiche sociali e di welfare, sicché a facilitare gli addetti ai lavori sui vantaggi, svantaggi e sull’impatto che deriva dall’uso oppure no di tali strumenti.
Di conseguenza, il termine “pianificazione”, dall’inglese “to plan“, indica, in senso generico, «la formulazione di un piano o programma»; il termine “programmazione”, che deriva da “programmare” dal latino “programma –mătis“, tradotto significa «scrivere prima»; “progettazione”, che deriva da “progettare” dal latino proiectare, significa, invece, «gettare avanti». Alla luce di queste definizioni il presente articolo, seppur breve, introduce alcuni spunti di riflessione su come, ad oggi, appare il sistema basato sui processi di pianificazione, programmazione e progettazione sociale. Il fine ultimo sarà quello di compiere un’analisi sullo stato dei lavori e sulle opportunità a disposizione nell’attuale modello di governance, provando a immaginare come il modello vedrà protagonisti e, soprattutto, coproduttori istituzioni, cittadini, operatori e soggetti privati nel campo del lavoro partecipato e condiviso tra il Terzo settore e la pubblica amministrazione, essendo l’ambito della co-programmazione e co-progettazione parte essenziale delle misure introdotte con le nuove riforme. Del resto, la cooperazione e la condivisione non sono sinonimo di spontaneismo o di esclusivo volontarismo: cambiamenti così strutturali necessitano della maturazione di competenze e professionalità, nonché di capacità di governo dei processi.
Il rapporto tra Piano, Programma, Progetto secondo la logica Assi, Misure, Azioni
Secondo alcuni studiosi tra piano, programma e progetto, si ritrova una catena logica che si muove dal macro al micro, dal logicamente superiore all’inferiore: «ognuno di essi rappresenta l’output del processo rispettivamente di pianificazione, programmazione, progettazione, ovvero di un percorso le cui fasi si ripetono, come in un “modello frattale”, nello stesso ordine, ma su scale di grandezza diverse, relativamente alle loro principali dimensioni». Come afferma Giorgio Merlo, secondo questa prospettiva gli obiettivi e le soluzioni non sono altro che i fini e i mezzi delle diverse attività previste dal processo: ciò che corrisponde a un mezzo per i livelli superiori può divenire un fine per quelli inferiori.
Tali teorie, ponendo l’accento sul processo che dal piano giunge al progetto, attraverso una linea di fasi che si susseguono e si ripetono ma su scala diversa, fanno emergere alcune domande; per esempio: su quali basi poggerebbe il percorso logico, ovvero quali sarebbero le responsabilità che servono a regolare il buon andamento dell’intero processo? Inoltre, quali principi garantiscono l’integrità del sistema al fine di evitarne la frammentazione?
Una risposta alla prima domanda potrebbe scaturire dal concetto stesso di “scala” che rimanda al “modello frattale” (assi, misure, azioni) e che confermerebbe la stessa logica secondo cui la pianificazione rappresenta gli assi, ovvero l’insieme degli indirizzi per la realizzazione degli obiettivi preposti, sviluppati attraverso misure le quali, invece, rappresentano le aree e le tipologie di intervento nell’ambito in cui ci si trova ad operare, al fine di raggiungere gli obiettivi preposti per mezzo di azioni concrete da sviluppare. Una risposta alla seconda domanda deriva, invece, dalla constatazione che, oggi, i principi di solidarietà e uguaglianza, vanno letti insieme al principio di sussidiarietà, affermato dall’art. 118 della Costituzione, così come modificato nel 2001, il quale, stabilendo le relazioni tra Enti pubblici territoriali, società civile e imprese, definisce le competenze a favore della comunità, come delega ai livelli decisionali più vicini al fine della causa. Al pari di tali risposte, formulate in modo sommario, bisogna riconoscere che anche il principio di sussidiarietà, essendo un concetto trasversale e di ampia portata, riporta alcune difficoltà nella sua applicazione, una tra queste è che senza la collaborazione effettiva tra i vari soggetti, e soprattutto senza l’iniziativa anche da parte degli organismi minori, tale principio può facilmente rimanere inosservato e fondamentalmente privo di applicazione.
Tuttavia, il principio di sussidiarietà si salda con un altro valore costituzionale, enunciato all’art. 45 della Costituzione, ossia quello della funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità senza fini di speculazione privata. Anche in questo caso il valore non è solo previsto e garantito, ma la previsione costituzionale assegna alla legge il compito di favorirlo e promuoverlo. La pronuncia in tema di enti del Terzo settore e cooperative di comunità si colloca dunque all’incrocio virtuoso fra questi due ordini di valori, sussidiarietà e mutualità, che, fertilizzandosi reciprocamente, concorrono nel delineare un paesaggio di rilievo costituzionale dei valori della solidarietà, della responsabilità e dell’impegno civico.
Al riguardo, Gregorio Arena afferma che le funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale, grazie al coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, diventano funzioni di co-programmazione e co-progettazione la cui titolarità rimane ovviamente in capo alla Pubblica Amministrazione procedente ma il cui svolgimento viene condiviso con gli stessi enti del Terzo settore. Sostiene, inoltre, seguendo la logica del modello dell’Amministrazione condivisa, che «le amministrazioni, il polo dell’interesse pubblico, hanno rapporti fondati sul principio di sussidiarietà con il polo dell’interesse generale, in modo e con strumenti diversi a seconda dei due sottoinsiemi che compongono quest’ultimo». Pertanto, rispetto alle modalità di affidamento ai soggetti del privato sociale, sarà necessario porre all’attenzione la questione di come vanno coinvolti i soggetti privati nelle decisioni programmatiche, il tema della gestione dei servizi, se nel campo del libero mercato o della solidarietà che mitiga e riduce i meccanismi competitivi. L’emanazione del nuovo codice del Terzo settore stabilisce, infatti, che tali modalità passeranno in genere per le attività di co-programmazione e co-progettazione, intese come strumenti essenziali per la partecipazione, condivisione e coinvolgimento attivo dei diversi attori presenti sul territorio (art. 55). Dunque, porre l’attenzione ai singoli processi è fondamentale, malgrado ciò, si evidenzia che oggi la co-programmazione e co-progettazione sono temi certamente in primo piano, ma di cui si afferrano ancora solo i contorni, in un passaggio del welfare locale fatto di emergenze e quotidianità, sempre più, in questo momento, quasi sovrapponibili.
Qual è la differenza sostanziale?
Nell’attuale scenario di fornitura dei servizi alla cittadinanza, nel contesto italiano, vi sono diverse modalità. Si può dire che sono maggiormente presenti la fornitura tramite esternalizzazione e tramite accreditamento; invece, la fornitura diretta, progettata e implementata direttamente dal soggetto pubblico, ha perso gran parte della sua funzione e centralità con l’affermarsi del welfare mix. Nel periodo di transizione, in cui le idee di governance multilivello hanno segnato il passaggio da logiche prevalentemente di programmazione centralizzata (sinottica) a modelli di programmazione incrementale, si è affermata una nuova modalità di “fornitura”: la co-programmazione. Attraverso questo strumento, la pubblica amministrazione, nelle sue articolazioni locali, può andare nella direzione di aprire le reti decisionali delle politiche, con particolare riferimento a quelle sociali e di interesse generale, tramite processi di attivazione territoriale che non prevedono la committenza pura, e di conseguenza l’innescarsi di una dinamica competitiva fra soggetti del territorio locale, ma piuttosto la loro cooperazione. La co-programmazione rappresenta, in questo senso, il riconoscimento della capacità degli attori del territorio di apportare risorse (conoscitive, economiche, operative) alla realizzazione delle politiche locali. In questo modo, si è cercato di costruire una nuova articolazione del principio di sussidiarietà contenuto nel titolo V della Costituzione.
Tuttavia, si percepiscono alcuni nodi che interferiscono nell’applicazione dei contenuti normativi-teorici e che nella pratica sollevano alcune questioni, per esempio: su quale livello e con quale strategia, lungo il percorso di definizione delle politiche sociali, si compone oggi la co-programmazione?
Per trovare una risposta bisogna premettere e ammettere che dopo la fase di entusiasmo collettivo di metà anni Novanta la programmazione ha subito un declino. A tal riguardo, Gianfranco Marocchi sostiene che seguendo la linea evolutiva dei Piani di Zona nei due decenni passati, ad essere mortificata, almeno sino a tempi molto recenti, più che la co-programmazione, è stata la programmazione in quanto tale. I motivi sono riconducibili alle disponibilità economiche per il welfare, calanti sino ad azzerarsi degli anni 2008-2012 sia sul fronte nazionale che locale; e, anche per le non cospicue risorse esistenti, la poca programmabilità anche in orizzonti medio brevi (due o tre anni); lo schiacciamento dei servizi sulle urgenze e marcato approccio prestazionale. Oggi, invece, si assiste ad un ritorno e ad una progressiva crescita sia della co-programmazione che della co-progettazione. La prima prevede la costruzione di una partnership fra soggetto pubblico e privato, volta innanzitutto alla definizione dei bisogni e delle caratteristiche dell’intervento da realizzare, rispetto ai bisogni del territorio; la seconda allude a una dimensione maggiormente operativa, nella quale si costruiscono gli specifici interventi, con i loro strumenti e le loro pratiche. In questa fase è possibile incontrare anche il coinvolgimento dei soggetti destinatari, con una loro partecipazione alla definizione, almeno parziale, dei termini del servizio.
Riprendendo il discorso introduttivo sull’etimologia dei termini, appare ora, forse più evidente, la linea che differenzia la co-programmazione dalla co-progettazione, e che attribuisce, alla programmazione un’attività preventiva di analisi dei “reali” bisogni del territorio. Analisi che possiede i lineamenti di una ricerca partecipata, con lo scopo di facilitare la realizzazione delle misure, di rafforzare un patto di lealtà orientato alla progettazione, per facilitare l’attivazione delle azioni volte al cambiamento (si veda la ricerca azione), costruendo modalità decisionali che privilegiano la ricerca di livelli comunicativi e di reti di connessione e di coordinamento tra gli attori. Mentre il procedimento di co-progettazione, così descritto al punto 3 delle Linee Guida del Codice del Terzo settore, parte dalla pubblicazione di un avviso, visibile da tutti, all’interno del quale sono fornite le istruzioni relative alla modalità di presentazione dei progetti, la loro valutazione nonché tutte quelle regole sullo svolgimento della procedura.
In conclusione, è evidente che si può progettare senza programmare, ottenendo senz’altro dei vantaggi, poiché si riducono i tempi di risposta alle necessità urgenti e si guarda subito avanti; tuttavia, tali vantaggi sono solo parziali perché si corre il rischio di tralasciare parti fondamentali del processo decisionale. Trascurare la fase programmatoria, nella trasposizione dal piano al progetto, significa correre il rischio di trascurare la riflessività, la partecipazione, la condivisione dei valori e delle linee guida a svantaggio di un’accurata e approfondita conoscenza dei bisogni del territorio, causando un abbassamento della consapevolezza delle misure, e al contempo un aumento delle fatiche, nel rispondere ai bisogni sociali emergenti, difficili da sostenere nella sola fase di progettazione.
Il “Co-” che fa la differenza attraverso l’uso della ricerca e l’attenzione alle relazioni
In questa nuovo scenario la spinta trasformativa verso l’innovazione sembrerebbe configurarsi nel prefisso “Co-” (co-programmazione, co-progettazione), la cui funzione andrebbe nella direzione di definire un’alleanza di risorse e competenze tra pubblica amministrazione e Terzo settore attraverso nuove forme di partenariato, previste dalle riforme e dalle procedure amministrative, nelle quali si intende costruire tale collaborazione. Dunque, oltre al delicato equilibrio tra sfera politica e sfera tecnica tipico dell’apparato pubblico tradizionale, si affacciano nuove forme di relazione ispirate ai principi di collaborazione in cui l’individuazione del partner del Terzo settore si stabilisce debba avvenire nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento.
Ovviamente il solo fatto che si possa collaborare non esclude l’esistenza di possibili conflitti tra attori e/o parti sociali oppure di modelli organizzativi verticistici e burocratici che potrebbero non essere il terreno ideale per gli scopi prefissati. È, dunque, rilevante riuscire a dare movimento alle idee delle persone e dei gruppi, strutturando azioni capaci di partire dai significati emergenti che riescano a concretizzarsi in progetti efficienti per lo sviluppo del territorio e delle comunità. Essendo questa una questione non semplice, tale da determinare ostacoli e criticità, va considerato che l’uso della ricerca potrebbe rilevarsi uno strumento per ampliare l’orizzonte d’indagine tecnica-sociale su temi di difficile esplorazione essendo, i portatori di interesse agenti di cambiamento, oltre che produttori di conoscenza.
In conclusione, poiché sono sempre molteplici i rischi ai quali ci si espone allorché si voglia introdurre un’ipotesi sul significato da attribuire ad una riforma, risulta quanto mai opportuno anteporre ad ogni possibile riflessione il semplice tenore delle disposizioni costituzionali, che all’art. 118 prevedono che «[l]e funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a provincie, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza» ed ancora «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà»”.
Inoltre, secondo l’art. 55 del Codice del Terzo settore, la co-programmazione e la co-progettazione, come anche riconosciuto dalla sentenza 131/2020 della Corte costituzionale, sono strumenti innovativi di collaborazione tra pubblica amministrazione e Terzo settore, capaci di generare beneficio alle cittadine e ai cittadini ed in genere alle comunità, a fronte di un’unione delle forze del pubblico con quelle del privato sociale, nell’ambito di un procedere pubblico trasparente, imparziale, partecipato e non discriminatorio.