Il modo di vivere della società contemporanea ha trasformato i rapporti umani in modo tale da far emergere la solitudine ed il disinteresse degli individui, con il conseguente abbandono degli spazi pubblici che, a sua volta, ha portato ad un progressivo degrado del territorio ed alla carenza di servizi. Perché, quindi, la sussidiarietà orizzontale può essere collegata alla tutela dei beni comuni? Quei beni comuni di cui è difficile una classificazione esaustiva poiché, oltre ad essere molto eterogenei e di svariata natura, comprendono i beni materiali, quelli immateriali, gli spazi urbani, la democrazia, l’informazione e le istituzioni che erogano servizi oggetto di diritti sociali?
La tesi che pubblichiamo nella sezione Ricerche, intitolata “La sussidiarietà orizzontale e la tutela dei beni comuni”, tenta di dare alcune risposte mediante un’analisi della sussidiarietà orizzontale sotto il profilo della cittadinanza attiva, cercando di ricostruire un regime dei beni comuni che permetta ai titolari di interessi costituzionalmente protetti di agire in giudizio per la loro tutela e indagando gli strumenti giuridici disponibili nell’ordinamento italiano ed europeo. Anche il tema del dovere secondo la declinazione costituzionale dell’art. 4 può essere d’aiuto poiché sancisce che ogni individuo deve dare il proprio contributo per raggiungere il progresso spirituale o materiale della società, in relazione alle proprie scelte e possibilità.
La Costituzione attribuisce legittimità giuridica ai cittadini attivi
Per poter contribuire a migliorare la realtà della propria comunità in modo volontario e senza incorrere in sanzioni da parte della burocrazia, il titolo V, parte II, della Costituzione, così come riformulato con la Legge Costituzionale n. 3/2001, all’art. 118, comma 4, ha attribuito legittimità giuridica a tutti quei cittadini, singoli e associati, che intendono attivarsi spontaneamente per perseguire l’interesse generale. Con la nuova disposizione, le pubbliche amministrazioni ed i cittadini non sono avversari, ma degli alleati che collaborano per risolvere insieme i problemi della collettività e lo fanno secondo un rapporto paritario. Le istituzioni pubbliche sono obbligate a sostenere i cittadini attivi, non li possono ostacolare e nemmeno punire per “eccesso di cittadinanza”, come era accaduto in passato prima dell’entrata in vigore della suddetta norma. I cittadini, inoltre, sono autorizzati ad attivarsi autonomamente, senza una formale richiesta della pubblica amministrazione che, anzi, li deve favorire nella loro attività spontanea mediante un agire amministrativo privo dei caratteri dell’autoritatività.
I benefici dell’Amministrazione condivisa a favore del territorio
Grazie alla citata norma costituzionale, il modello dell’Amministrazione condivisa ha dimostrato di poter apportare molti benefici al territorio di riferimento. In primis, non comporta la sottrazione di risorse alla pubblica amministrazione, non essendo un’attività remunerata economicamente, ma va ad integrarle tramite la messa a disposizione da parte dei cittadini e delle cittadine di competenze, tempo, relazioni personali e conoscenza del proprio territorio. Non viene più seguita la logica del mercato, in quanto non ci sono gare e comparazioni tra offerte e, visto che l’art. 119, c. 2, della Costituzione prevede che gli enti territoriali reperiscano il denaro necessario a svolgere le funzioni pubbliche mediante un prelievo forzato dalle risorse finanziarie dei cittadini, l’ultimo comma dell’art. 118 permette di acquisire risorse non monetarie che giungono in modo spontaneo.
Ciò implica dei vantaggi per la pubblica amministrazione: oltre a non utilizzare le proprie risorse per risolvere i problemi della collettività ma, grazie a quelle già presenti nella società che resterebbero invece inutilizzate, può rispondere a più problemi, pur mantenendo inalterata l’imposizione fiscale, e può rigenerare quei beni e spazi urbani che, altrimenti, sarebbero destinati all’abbandono e al degrado.
Il Regolamento per l’Amministrazione condivisa e i Patti di collaborazione
L’art. 118, comma 4, della Costituzione non esplicita con quali mezzi o strutture i pubblici poteri devono intervenire per creare le condizioni atte a tradurre le potenzialità dell’Amministrazione condivisa in risultati pratici, ma indica soltanto qual è l’obiettivo da perseguire. Per tale ragione sono stati introdotti, nel tempo, degli strumenti di tipo tecnico-giuridico. Uno di questi è il Regolamento comunale-tipo sulla collaborazione fra cittadini e Amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, ideato dall’associazione Labsus con il Comune di Bologna nel 2014 e con la possibilità di essere modificato a seconda delle osservazioni dei cittadini nel contesto locale. Esso traduce il principio di sussidiarietà orizzontale in disposizioni di livello amministrativo ed il suo nucleo centrale sono i Patti di collaborazione con i quali i cittadini e l’Amministrazione si accordano su quello che serve per realizzare gli interventi di gestione condivisa dei beni comuni. Per supportare il personale degli enti locali, prevede l’istituzione nell’Ente di un Ufficio per l’Amministrazione condivisa con il compito di presidiare il procedimento per la realizzazione della stessa e l’obiettivo di semplificare le relazioni con i cittadini.
Forme di sostegno per la cittadinanza attiva
Il Regolamento comunale-tipo dispone che l’amministrazione non può destinare contributi in denaro ai cittadini attivi, ma può riconoscere dei vantaggi economici come l’uso di immobili comunali a titolo gratuito o il pagamento delle spese inerenti le utenze e/o le manutenzioni oppure concedere in disponibilità dei materiali di consumo e beni strumentali per poter realizzare le attività di cura, rigenerazione e gestione condivisa di beni comuni che siano ritenuti dal Comune di “particolare interesse pubblico”.
Altre forme di sostegno previste dal Regolamento riguardano agevolazioni o esenzioni in materia di tributi locali e di canoni mentre i Patti di collaborazione prevedono delle facilitazioni riguardo alle procedure da seguire per portare a termine gli adempimenti dei cittadini attivi. Il Comune, pertanto, deve cercare di semplificare i procedimenti di concessione dei permessi necessari per la realizzazione dei Patti, riducendo i tempi del procedimento istruttorio e permettendo un agevole scambio di documenti e informazioni. Il risultato è una gestione sempre più friendly tra il cittadino e l’istituzione, con maggiore capacità di dialogo tra le parti coinvolte.
Ulteriori alternative per ottenere sostegni economici possono essere rappresentate dalle attività di community fundraising (raccolta fondi per la comunità) e l’welfare di comunità, nei luoghi interessati dai patti. Il fundraiser è un professionista che si occupa di supportare le organizzazioni no-profit nella raccolta fondi. Non cerca le risorse ma si occupa di costruire quelle relazioni, basate sulla fiducia, che permettono all’ente di accedervi. Il finanziamento tramite l’welfare di comunità, dal canto suo, dà l’opportunità a quei cittadini che non agiscono in prima persona, di sostenere le attività di cura dei beni comuni, ad esempio, acquistando delle quote (azioni di cittadinanza) presso vari punti vendita del territorio che andranno a finanziare uno specifico Patto di collaborazione.
L’evoluzione dei modelli di amministrazione per la tutela dei beni comuni
Un modello di amministrazione per tutelare i beni comuni, adottato da numerosi Comuni, è il cosiddetto “baratto amministrativo” di cui all’art. 24, D.L. n. 133/2014 e basato sul riconoscimento di agevolazioni fiscali in cambio di attività svolte dai cittadini che si impegnano nei confronti della comunità retta dall’Amministrazione concedente. Tale istituto ha, tuttavia, presentato numerose criticità che lo rendono poco attinente all’idea sussidiaria, soprattutto a seguito dei quesiti posti da alcuni Sindaci alla Magistratura Contabile ed ai conseguenti pareri espressi dalla stessa (v. cap. 3, par. 10, tesi). Conseguentemente, si è pervenuti alla formulazione degli artt. 189 e 190 del D.lgs n. 50/2016 (nuovo Codice dei contratti pubblici e delle concessioni) nel quale, il primo contiene due tipologie differenti di interventi relativi alla sussidiarietà orizzontale, ossia la realizzazione di opere di interesse locale e la gestione di aree – escludendovi gli immobili ad uso scolastico e sportivo -, mentre il secondo abroga la norma precedente sul baratto amministrativo, andando a configurarlo come un istituto speciale denominato “partenariato sociale”.
Con la riforma del Terzo settore di cui al D.lgs n. 117/2017, il cui art. 1 dichiara che la propria finalità è quella di favorire l’iniziativa autonoma dei cittadini che collaborano per realizzare il bene comune, anche in forma associata, si va a prevedere espressamente il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore da parte delle Amministrazioni pubbliche (art. 55), nell’ambito di attività di interesse generale, attraverso forme di co-programmazione, co-progettazione ed accreditamento. Invece, l’art. 56 tratta delle convenzioni che le pubbliche amministrazioni possono stipulare con le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, stabilendo che siano finalizzate a svolgere attività o servizi sociali di interesse generale a favore di terzi e che vi si ricorra solo qualora siano “più favorevoli rispetto al ricorso al mercato”. Tale decreto rappresenta il superamento della Legge n. 328/2000 in materia di interventi e servizi sociali in quanto quest’ultima è da considerarsi come una norma di settore, mentre il Codice approvato con il D.lgs n. 117/2017 e la Costituzione sono leggi di carattere generale per natura.
Dopo l’emanazione delle linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, in data 20 gennaio 2016, in cui si evidenziava il crescente ricorso agli organismi no-profit per l’acquisto o l’affidamento di servizi alla persona e la mancanza di una disciplina che regolasse l’affidamento di contratti pubblici agli enti del Terzo Settore, è intervenuta la Corte costituzionale a porvi rimedio con propria sentenza n. 131/2020. Essa ha stabilito che la co-progettazione con gli enti del Terzo settore è la soluzione ordinaria con cui attivare dei rapporti di collaborazione con le Amministrazioni pubbliche ed ha fissato la differenza tra le attività svolte in Amministrazione condivisa ed ispirate alla sussidiarietà orizzontale e quelle svolte per conseguire un profitto.
Il decreto Semplificazioni (D.l. n. 76/2020) convertito con Legge n. 120/2020 che, agli artt. 30,56 e 140, ha modificato il Codice degli appalti riguardo ai principi per aggiudicare ed eseguire gli appalti e le concessioni, le procedure di aggiudicazione, l’affidamento dei servizi sociali, così come le linee guida emanate con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 72/2021 in cui si specificano, nel dettaglio, le modalità di attuazione dei procedimenti di cui all’art. 55 del Codice dei contratti pubblici e le fasi dei procedimenti di stipula delle convenzioni, forniscono ulteriori chiarimenti circa i passaggi operativi e giuridici nell’operare con il Terzo settore.
Da individui a comunità
Per concludere si può affermare che la sussidiarietà orizzontale fonda una forma diversa di Stato che non è più composto soltanto dai diversi livelli di governo territoriali, ma si compone dell’insieme dei rapporti fra Stato e cittadini, singoli e associati. Inoltre, quando i cittadini si prendono cura di un bene pubblico, collaborando con le Amministrazioni, si viene a creare una comunità intorno al medesimo, il che contribuisce a trasformarlo da pubblico in comune.