Qualora la riforma del Codice dei contratti pubblici venisse approvata senza modifiche sostanziali, potremmo dire conclusa, nel nostro paese, l’esperienza del Dibattito Pubblico come strumento di democrazia deliberativa

È una storia travagliata quella del Dibattito Pubblico in Italia. Una storia che sembra destinata a finire in maniera repentina. Qualora venisse approvato, senza modifiche sostanziali, lo schema di riforma del Codice dei contratti pubblici in discussione in questi giorni nelle Commissioni di Camera e Senato, potremmo infatti dire conclusa, nel nostro paese, l’esperienza del Dibattito Pubblico come specifico strumento di democrazia deliberativa. L’unico previsto a livello nazionale. Se vi state domandando cos’è, il Dibattito Pubblico, voglio rassicurarvi: non è colpa vostra. È che non c’è stato il tempo, o il modo, o forse la volontà, di presentarvelo. Mi prendo, quindi, un po’ di spazio per farlo adesso, prima di passare alle intricate vicende di cronaca.

Il faro verso cui guardare era la Francia…

Ho cominciato ad occuparmi di gestione dei conflitti in merito alla realizzazione di opere e infrastrutture intorno al 2008. All’epoca, eravamo pienamente dentro la vicenda TAV e si profilava all’orizzonte la vicenda TAP. C’era stato Scanzano Ionico e c’erano le proteste per gli impianti di trattamento rifiuti, dai termovalorizzatori ai biodigestori, quasi ovunque si immaginasse di realizzarli. Per tutti quelli che come me si occupavano di questi temi, il faro verso cui guardare era la Francia. Lì, dal 1995, a seguito dei conflitti drammatici sorti intorno alla realizzazione della tratta alta velocità TGV Méditerranée, si era scelto di adottare un nuovo strumento che impegnava chi intendeva realizzare un impianto con un forte impatto sul territorio a confrontarsi pubblicamente, in una fase preliminare di sviluppo del progetto, con gli abitanti che in quello stesso territorio vivevano, discutendone le ragioni, le caratteristiche, i costi, gli impatti, le alternative: era il Débat Public.
A questo serve, dunque, il Débat: a garantire il diritto dei cittadini a un’informazione corretta, completa, accessibile, il diritto a prendere parte alle decisioni su progetti che li riguardano. Puntando a questo obiettivo, negli anni il modello del Débat Public è andato strutturandosi fino a raggiungere la forma molto codificata che ha oggi. Il perno intorno a cui ruota questa struttura è la Commission Nationale Débat Public, soggetto terzo, autorità autonoma e indipendente rispetto a tutte le parti. È la Commission a valutare l’opportunità di indire un Débat Public e a nominare la Commission Particulière, ossia la Commissione Speciale incaricata di coordinare un singolo dibattito relativo a uno specifico progetto. Qual è il perimetro dei temi da affrontare, quanti incontri fare con la cittadinanza, quali esperti invitare, quanto dura il dibattito, come comunicare, come intercettare e coinvolgere il pubblico, se chiedere una expertise esterna oppure no, quali modalità partecipative adottare… Tutto questo è in capo alla Commissione Speciale che nel fare le sue scelte risponde a un unico interrogativo: cosa è più utile per consentire ai cittadini di appropriarsi del tema ed essere in grado di esprimere il proprio parere con cognizione di causa?
Il DP ha poi una caratteristica conclusione in due tempi: prima la Commission presenta la Relazione finale in cui pone in maniera chiara ed esplicita l’insieme delle questioni emerse durante il processo, poi il soggetto che propone il progetto risponde e spiega se e in che modo ne terrà conto.

Il Dibattito Pubblico in Italia

In Italia, tutto questo è rimasto fantascienza a lungo. Ci sono state importantissime esperienze regionali che hanno anticipato e preparato il terreno, è vero, ma è solo nel 2016, con la riforma del Codice degli Appalti promossa dall’allora Ministro Delrio che il Dibattito Pubblico ha fatto capolino nel nostro ordinamento. Poi, certo, abbiamo dovuto aspettare il 2018 perché vedessero la luce i Decreti Applicativi e poi il 2020 perché venisse costituita la Commissione Nazionale Dibattito Pubblico. Dal momento dell’approvazione della legge, ci sono voluti, cioè, 4 anni per arrivare ad organizzare il primo Dibattito Pubblico italiano. Quasi contemporaneamente alla costituzione della Commissione Nazionale italiana, poi, è arrivato il Covid e l’emergenza sanitaria si è portata dietro la sua bella deroga: mentre, cioè, la Commissione Nazionale organizzava le prime riunioni, il Dibattito Pubblico, con il Decreto Legge n. 76 del 2020, firmato dalla Ministra De Micheli, diventava facoltativo. La capriola successiva ci porta al PNRR del Governo Draghi. Il Decreto che specifica le procedure per l’attuazione del Piano si occupa del Dibattito Pubblico. Incentiva la sua applicazione, abbassa le soglie dimensionali ed economiche per le quali è obbligatorio, ma ne riduce drasticamente i tempi. Siamo a maggio 2021. Da dicembre 2021, da Trento ad Agrigento parte una batteria di Dibattiti Pubblici: si susseguono al ritmo di uno al mese. Quattordici mesi dopo, oggi, il sito della Commissione Nazionale elenca 17 Dibattiti Pubblici all’attivo: nove già conclusi e otto ancora in corso.

Le differenze con il modello francese

La versione italiana del Dibattito Pubblico, approvata nel 2016, ha delle differenze di non poco conto rispetto a quella francese. Innanzitutto, la nostra Commissione Nazionale non ha gli stessi poteri, né la stessa autonomia e indipendenza. Il nostro modello prevede un coordinatore, invece della Commissione Speciale. Sono diversi i tempi: molto più ristretti, soprattutto per la fase preparatoria che è essenziale. È diverso il budget: manca, grosso modo, uno zero. Il fine, almeno idealmente, è lo stesso: informare in maniera trasparente sull’opportunità dell’opera, discuterne le implicazioni, raccogliere preoccupazioni e critiche, migliorare il progetto, arricchendolo grazie al contributo degli abitanti. La scheda riassuntiva inclusa dalla Commissione nella Relazione presentata alle Camere, nel dicembre scorso, lascia una sensazione di scarsa varietà. Se c’è, in questo, un dato inevitabile – spinto dall’onda del PNRR, i Dibattiti Pubblici hanno necessariamente riguardato quelle grandi opere che sono al centro del Piano – altri elementi lo sono meno. Questi mi sembrano derivare direttamente dall’elemento più critico del modello italiano, vale a dire il fatto che la legge italiana, prevedendo la selezione del coordinatore attraverso una gara, di fatto inserisce il Dibattito pubblico in una deleteria dinamica di mercato che si porta dietro sconti esagerati (tra il 35 e il 50%) e dunque riduce le risorse utilizzabili per farlo il Dibattito, lega le mani al coordinatore, che, per quanto sia competente e serio, per quanto si ponga personalmente nella migliore attitudine, non può essere né indipendente né autonomo. Oggi che ho la possibilità di vedere al lavoro una Commissione Speciale, dall’interno, perché faccio parte della Commissione che sta organizzando il Débat Public su un progetto per il miglioramento dell’acqua potabile in Ile de France, me ne rendo conto in maniera molto concreta. E l’indipendenza è cosa che sta nelle scelte operative quotidiane.

E poi arriva lo schema di riforma del Codice degli appalti

Dopo un anno di sperimentazioni, mentre si ragionava delle modifiche che avrebbero potuto dare a questo strumento più forza e legittimità, è uscito lo schema di riforma del Codice dei Contratti Pubblici. E suona come un de profundis.
In estrema sintesi, secondo questo schema il Dibattito Pubblico si aprirebbe con la pubblicazione da parte della stazione appaltante, sul proprio sito internet, del progetto. I soggetti che ritengono possa derivare loro un pregiudizio dall’intervento, e solo questi soggetti, avrebbero, a questo punto, 60 giorni per presentare le loro osservazioni. Trascorso questo tempo, il coordinatore del Dibattito Pubblico dovrebbe vagliare le osservazioni raccolte, redigere una loro “sintetica descrizione” e “indicare quelle meritevoli” di una qualche attenzione. Pubblicata la relazione, il Dibattito Pubblico è concluso.
Si fa piazza pulita della Commissione Nazionale Dibattito Pubblico. Sparisce l’obbligo di rendicontazione degli esiti da parte del coordinatore e l’obbligo di risposta da parte di chi propone l’opera. La partecipazione, che nel dibattito pubblico deve essere il più possibile aperta e inclusiva, capace di accogliere punti di vista differenti che possano far emergere aspetti non considerati del progetto, è limitata a soggetti, formalmente organizzati, che avrebbero un danno dalla realizzazione dell’impianto. Il coordinatore diventa un tecnico che seleziona gli interventi “meritevoli” (ma di cosa?). È un processo esclusivamente digitale, che non prevede incontri pubblici, né alcuna forma di confronto, di scambio, di dialogo, di contatto umano.

Quale lezione possiamo trarre da queste vicende?

A leggere le tappe della storia del DP in Italia, una in fila all’altra, l’impressione è che non sia quest’ultima bozza di riforma a rappresentare una discontinuità, ma che sia piuttosto il Dibattito Pubblico in sé e per sé a rappresentarla. Se in Francia, intorno al Débat Public negli anni è andata costruendosi una cornice legislativa che lo ha reso più efficace, qui questo non è accaduto. Anzi. Dalla Legge deroga del 2020 allo schema di riforma attuale, diversi sono stati i tentativi di riaddomesticare questo strumento, di ridurlo a qualcosa di consueto. Per contrastare questa riforma, è nato un movimento che unisce professionisti, società e associazioni che da decenni si occupano di partecipazione a vario titolo e che cercano di fare sentire la loro voce, ma non si intravedono spiragli possibili. Ci restano pur sempre le Leggi regionali, i Regolamenti comunali, le Carte della partecipazione. Ci resta la disponibilità e l’apertura di quelle imprese che esperienze del tutto simili al Dibattito Pubblico le hanno condotte pur non essendovi formalmente obbligate e che sono consapevoli che sia necessario coinvolgere le comunità nel definire progetti che si inseriscono in un territorio e lo cambiano. Sanno che tornare indietro su questo non si può.
È qualcosa su cui si può continuare a costruire. Nel frattempo però chiederemmo, qualora lo schema di riforma diventasse una riforma vera, che a questo punto cambiassero almeno anche il nome, perché il Dibattito Pubblico è un’altra cosa.

Agnese Bertello è una facilitatrice, esperta di progettazione partecipata, processi deliberativi e Dibattito Pubblico. Dal 2016 fa parte di Ascolto Attivo, con Marianella Sclavi e Stefania Lattuille. Attualmente è membro della Commissione per il Dibattito Pubblico sul progetto della società Sedif per il miglioramento della qualità dell’acqua potabile in Ile de France.

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