Le esperienze concrete di cura dei beni comuni urbani in tutta Italia ci dimostrano ogni giorno come sia effettivamente possibile un modo diverso di amministrare la complessità del mondo in cui viviamo. Non più soltanto con una delega politica formale, in occasione del rinnovo delle cariche elettive locali e nazionali, ma con un impegno dei cittadini attivi per risolvere problemi sociali e ambientali complessi, a tutela dell’interesse generale.
L’aumento di complessità dei problemi risolti dall’amministrazione condivisa
Dal 2014 ad oggi sono stati fatti numerosi passi avanti: basti pensare all’emanazione di ben 284 Regolamenti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, e comunque alla stipulazione di circa 7.000 patti di collaborazione, che riescono a coinvolgere più di 800.000 persone in tutta Italia. La capacità generativa di questo strumento di amministrazione condivisa è fuori discussione.
Con il passare del tempo, tuttavia, stiamo assistendo ad un costante aumento della complessità della regolazione pattizia e degli stessi problemi risolti dal modello collaborativo. Questa complessità è a dir poco necessaria, perché serve a garantire la piena soddisfazione di tutti gli interessi differenziati, pubblici e privati, meritevoli di tutela.
L’assimilazione della dinamica collaborativa da parte dei Comuni
Nonostante le continue resistenze dettate dal mantenimento delle logiche tradizionali di tipo gerarchico, le amministrazioni stanno cercando di assimilare progressivamente le dinamiche collaborative nascenti dall’Amministrazione condivisa, per farle rientrare all’interno del sistema degli strumenti amministrativi messi a disposizione dal legislatore.
Nel nostro sistema amministrativo, fondato sul principio di legalità, l’amministrazione non può agire senza che la sua azione sia stata previamente indirizzata dal legislatore – nella sua qualità di rappresentante della sovranità popolare – oltre che garantita nei modi e nelle sue forme di manifestazione. Più in particolare, il legislatore individua i compiti, le aree di intervento e le competenze delle singole amministrazioni pubbliche, al fine di soddisfare alcuni specifici interessi ritenuti meritevoli di tutela in un preciso momento storico. Si pensi, per fare qualche esempio, alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, o alla tutela della salute dei lavoratori, o ancora alla tutela dell’ambiente. La ragione principale per cui una norma “funzionalizza” una determinata attività sta nell’esigenza di controllare al meglio il soggetto chiamato ad esercitarla (M.S. Giannini 1993).
Per ognuno di questi compiti, il legislatore predispone degli assetti organizzativi peculiari, e attribuisce un vero e proprio potere, in grado di incidere unilateralmente o consensualmente sui destinatari. Senza l’esercizio di questo potere l’amministrazione non sarebbe in grado di soddisfare pienamente l’interesse pubblico correlato alla specifica funzione amministrativa che gli è stata affidata.
La funzione (comunale) di collaborazione con i cittadini
Sulla base di questo inquadramento, è necessario comprendere quali siano le funzioni che il legislatore potrebbe aver attribuito all’Amministrazione comunale, per lo svolgimento delle quali siano stati emanati i Regolamenti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni.
Tale riflessione scaturisce dalla lettura dell’art. 117, comma 6, Cost., che assegna ai Comuni potestà regolamentare esclusivamente nello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Il fatto stesso che i Comuni abbiano deciso di regolamentare le forme di collaborazione dei cittadini attivi con l’amministrazione, per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, non può che voler dire che quest’ultima debba essere inquadrata come vera e propria funzione amministrativa.
Dalla lettura del testo costituzionale, infatti, è possibile affermare che il legislatore abbia voluto assegnare ai Comuni, e a tutti gli Enti territoriali in generale, il compito di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà. Il verbo “favorire” all’indicativo presente non lascia spazio a fraintendimenti. Si tratta di una funzione attribuita direttamente dalla Costituzione, che il Comune deve esercitare obbligatoriamente se non vuole incorrere in situazioni di illegittimità.
Più in particolare, nonostante la Costituzione assegni in generale il compito di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini attivi a tutti gli enti territoriali che costituiscono la Repubblica italiana (s.v. art. 114 Cost.), siccome tutte le funzioni amministrative sono attribuite inizialmente ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite ad altri enti territoriali (s.v. art. 118, comma 1, Cost.), è evidente che l’attività di facilitazione dell’autonoma iniziativa dei cittadini attivi, vista come effettiva funzione istituzionale-organizzativa, non possa che essere necessariamente attribuita ai Comuni, essendo questi ultimi gli enti territoriali naturalmente più vicini ai bisogni dei cittadini, e quindi gli unici capaci di raccogliere e valorizzare al meglio le loro idee e le loro proposte.
L’obbligo di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini
In questo senso, quindi, il sostegno collaborativo ai cittadini attivi assume un ruolo puramente funzionale. Più nello specifico, tale funzione deve essere necessariamente inquadrata nell’ambito di uno schema organizzativo specifico – si pensi alla creazione di uffici ad hoc, o comunque all’individuazione di un Responsabile del procedimento -, e siccome implica l’esercizio di poteri amministrativi deve essere garantita da un procedimento amministrativo, che segua le regole dettate dalla legge 241/1990. Pertanto, se il Comune ha la funzione di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, per lo svolgimento di attività di interesse generale, lo stesso deve obbligatoriamente provvedere in tal senso, attivando e portando a termine il procedimento per la formazione di un patto di collaborazione.
Nel concreto, questo potrebbe voler dire, dal punto di vista organizzativo, la necessità di individuare comunque un Responsabile del procedimento che possa rispondere adeguatamente alla richiesta, a meno che la stessa non sia palesemente pretestuosa; mentre, dal punto di vista procedurale, innanzi tutto, la necessità di pubblicizzare nelle sedi più opportune la proposta specifica di collaborazione, così da ampliare sin da subito il bacino dei possibili cittadini attivi interessati. Ed inoltre, la predisposizione di un calendario di incontri a cui possano prendere parte i cittadini attivi, o i loro referenti.
Vista in questi termini, quindi, la funzione di collaborazione implicherebbe una responsabilità organizzativa ben precisa in capo all’amministrazione, che si sostanzierebbe nell’obbligo di accompagnare e facilitare in maniera progressiva le dinamiche collaborative che sorgono spontaneamente dai cittadini attivi, anche attraverso l’ausilio di appositi “facilitatori” formati a tale scopo.
L’esercizio del “potere collaborativo” per la soddisfazione dell’interesse generale
A ben vedere, in effetti, la proposta di patto di collaborazione determina l’attivazione di una dinamica fortemente innovativa, in cui i cittadini attivi condividono, man mano che collaborano con l’amministrazione per lo svolgimento di attività di interesse generale, un vero e proprio potere collaborativo.
Ed infatti, nel momento in cui si arriva alla stipulazione del patto di collaborazione, il potere viene esercitato insieme ai cittadini attivi, all’esito di un procedimento amministrativo in cui convergono gli interessi pubblici primari e secondari che emergono dall’istruttoria, con l’interesse dei cittadini attivi al riutilizzo, alla riqualificazione e alla rigenerazione dei beni e degli spazi comuni urbani, ed in cui viene fatto emergere effettivamente “l’interesse generale nel caso concreto” (G. Arena 2020). Non si tratta più del classico potere autoritativo, che segue le logiche dell’Amministrazione tradizionale, ma di un potere di stampo collaborativo che segue le diverse logiche dell’Amministrazione condivisa. Questo potere collaborativo è il solo in grado di modificare la realtà giuridica per la soddisfazione dell’interesse generale. Ed infatti, così come senza l’esercizio del potere autoritativo l’amministrazione non sarebbe in grado di soddisfare pienamente l’interesse pubblico correlato alla specifica funzione amministrativa che gli è stata affidata; allo stesso modo, senza l’esercizio di questo potere collaborativo, i cittadini insieme all’amministrazione non sarebbero in grado di garantire la riqualificazione e la rigenerazione dei beni comuni urbani per le generazioni future.
Un potere “costituente” e generativo
Ed infatti, a differenza del potere autoritativo, che per sua natura proviene dall’ordine costituito, il potere collaborativo è un potere “costituente”, perché le sue attribuzioni discendono direttamente dalla Costituzione e dal principio di sussidiarietà orizzontale, che rappresenta la sua fonte suprema di legittimazione, e perché, di fatto, questo potere costituisce e genera una nuova comunità, che nasce e si sviluppa attorno ai beni comuni materiali o immateriali, per finalità di interesse generale. Ed inoltre, a differenza del potere autoritativo, che per sua natura è unilaterale ed imperativo, il potere collaborativo è un potere relazionale, perché può manifestarsi concretamente solo dopo aver sintetizzato dinamicamente la volontà di tutti i soggetti che intendono esercitarlo, lasciando sempre aperta la possibilità di ingresso di nuovi aderenti. Ed infine, a differenza del potere autoritativo, che per sua natura è vincolato o discrezionale, perché è attuazione concreta di un indirizzo predeterminato dalla legge, il potere collaborativo è un potere che implica l’esercizio di una grande libertà e creatività, attraverso le quali i cittadini insieme con l’amministrazione concordano tutto ciò che è necessario ai fini della realizzazione degli interventi di cura e rigenerazione dei beni comuni urbani.
Solo in questo modo, ossia condividendo il potere amministrativo, i cittadini escono effettivamente dal “ruolo passivo di amministrati per diventare co-amministratori” (G. Arena 1997).
Giuseppe Marletta è avvocato amministrativista e dottorando di ricerca alla Sapienza Università di Roma. Collabora con Labsus sia sul piano pratico che teorico studiando con vivo interesse la tematica dell’Amministrazione condivisa.
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