In questo numero della rivista pubblichiamo la tesi di Raffaele Giovine, dal titolo “Istituzioni che apprendono. Il ruolo delle pratiche informali di natura collaborativa” (in allegato in fondo al testo), che illustra il ruolo che dovrebbe assumere la città, da luogo produttivo di aree di scarto ad uno più attivo, fondato sull’apprendimento. Ma lasciamo che sia lo stesso autore a presentare la sua tesi.
La città produce nuove aree di scarto
L’evoluzione delle dinamiche di produzione di merci e servizi nel mondo post-industriale ha trasformato le città contemporanea, prodotto grandi aree di scarto, nuove aree dismesse, fabbricati inutilizzati, creando una nuova questione urbana. In una città circolare è diventato nodale il tema del riuso di queste aree senza destinazione, esito della desertificazione industriale degli anni ’90, della riorganizzazione dello Stato con la dismissione di tante sedi periferiche e della difficoltà degli enti di prossimità nel governare luoghi e servizi, sia per la cultura della spending review sia per una difficoltà strutturale degli enti locali. Oggi, è ancora più chiaro che il metabolismo urbano post-pandemico, basato in maniera molto spinta sia sul delivery che sull’on-demand che sul lavoro agile, stia producendo il sottoutilizzo e la dismissione di molti altri luoghi: dalle grandi aree commerciali agli uffici, passando per i cinema ed altri luoghi storici del Novecento. Le nostre città, quindi, si apprestano ad avere una quantità sempre maggiore di luoghi senza funzione da risignificare e rigenerare.
La città circolare ed una nuova arena
La messa in circolo di questi spazi ha visto diversi atteggiamenti della società civile organizzata, che prima ha chiesto che avvenissero delle politiche pubbliche di riutilizzo e cioè che fossero una responsabilità istituzionale, mentre successivamente un pezzo di società ha deciso di “co-fare” le politiche pubbliche, diventando di fatto istituzione e abitando in maniera innovativa la città. L’evoluzione delle domande della società e delle forme della città ha sviluppato un’arena in cui si incontrano problemi (luoghi abbandonati e dismessi) e opportunità (comunità – in qualsiasi forma intese – che si pongono nuove domande e nuove ambizioni di riutilizzo). La città viene riletta come luogo dove imparare sia da parte delle comunità che delle istituzioni, ed in cui il tipo di interazione diventa la classe ed il livello a cui si sceglie di iscriversi (breakdown, informalità, normalizzazione). Nascono pratiche, si imparano e inventano mestieri, posture, atteggiamenti, cassette degli attrezzi utili a guidare e determinare le trasformazioni urbane. Le comunità imparano a fare il planner e le istituzioni imparano a diventare comunità.
Diverse maniere di rifunzionalizzare il patrimonio pubblico da parte delle comunità
A cavallo tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del XXI secolo, alcuni gruppi politicizzati hanno occupato gli spazi dismessi, costruendo un rapporto di grande conflitto con le istituzioni, in cui a parte rari casi, non c’era nessuna intenzione di giungere ad un accordo, in quanto la stessa pratica decideva di sottrarsi alle logiche della normalizzazione istituzionale, creando di fatto una gated-community. A partire dai primi anni Dieci del XXI secolo, invece, grazie alla sperimentazione di Bologna del primo regolamento per l’Amministrazione Condivisa dei Beni Comuni, su iniziativa di Labsus, sono nate esperienze di riutilizzo del patrimonio pubblico dismesso di natura collaborativa, che hanno sviluppato un atteggiamento cooperativo e di continuo scambio. Di fatto, è stato favorito un processo di apprendimento istituzionale in cui anche la realtà che interagisce, adotta nuove lenti per cogliere il farraginoso funzionamento delle istituzioni. Il livello di accesso a questa pratica non è più sull’adesione ad una scala valoriale ma sulle azioni condivise da intraprendere o da pianificare, in una maniera interessante del planning, in cui si sviluppano alleanze non su un linguaggio comune bensì su un’azione comune.
In questi anni, è accaduto anche che le istituzioni abbiano direttamente promosso la partecipazione degli enti del terzo settore nella gestione del patrimonio dismesso: da una parte c’è stata la stagione post-legge sul riuso sociale dei beni confiscati alla camorra, dall’altra l’esperienza di alcune regioni particolarmente virtuose come la Regione Puglia che hanno promosso programmi integrati di recupero del patrimonio, come ad esempio Bollenti Spirti. Questa stagione di attivismo è sicuramento l’esito di istituzioni che hanno appreso ed hanno sviluppato una politica top-down che ha permesso di animare centinaia di luoghi della regione urbana, legando il processo rigenerativo non solo al recupero architettonico del manufatto ma soprattutto all’innesto di comunità capaci, a partire dalle passioni diffuse, di sviluppare modelli di impresa sociale e quindi di aumentare i livelli occupazionali di aree bersaglio del Mezzogiorno.
Le stagioni della città in cui si apprende
In una trasformazione urbana, non si apprende in egual misura in tutto il processo, ma ci sono alcuni momenti che risultano essere più proficui: rispetto all’analisi dei casi studio del lavoro di tesi, i momenti di grande conflitto risultano essere quelli di scontro e di apprendimento massimo, poiché obbligano le parti a costruire forme di comunicazione e di esplorazione delle pratiche. Per apprendimento, chiaramente, non si intende esclusivamente la lezione appresa dagli attori, ma anche un maggior conoscimento tra le parti, un aumento di capitale informativo utile alla trasformazione che si vuole affrontare ed in generale un cambio di approccio al problema, andando anche a ridefinire la cornice dello stesso.
In questa chiave, il momento in cui si accende il rapporto interattivo è il breakdown – che per il caso studio analizzato fu la rottura del lucchetto del parco pubblico di Villetta Giaquinto (Caserta), che all’epoca era chiuso poiché diventato una piazza di spaccio ed oggi è una garden community normata da un Patto di Collaborazione. Il breakdown rappresenta il momento di rottura della routine della vita urbana essendo una fase di forte esplorazione delle maniere di interazione tra istituzioni e comunità locali in quanto al normale dialogo si aggiunge un interesse – nel caso studio la gestione dell’area – che obbliga gli interlocutori a misurarsi rispetto alle cose da fare e alle poste in campo. Successivamente al breakdown si apre una stagione dell’informalità, in cui alberga un rapporto di tolleranza e di conflitto – a fasi alterne – da parte delle istituzioni e delle comunità, caratterizzato dalla mancanza di norme o di esperienze pregresse.
Il continuo contrattare dell’informalità produce incertezza che è capace di mettere in tensione l’assetto istituzionale per co-immaginare forme di istituzionalizzazione delle pratiche di riappropriazione del patrimonio pubblico, riuscendo a creare esiti inediti di innovazione delle politiche pubbliche, arrivando a volte a costituire una stagione di normalizzazione delle pratiche, in cui l’informale diventa normale tramite la produzione di procedure e norme.
In definitiva, le maniere di interazione più sono interattive, più il processo di apprendimento è spinto e quindi migliora sia la qualità del decision-making sia degli abitanti che si trasformano nel processo. Nei processi di riutilizzo del patrimonio pubblico da parte delle comunità, infine, potremmo dire che se esiste una stagione dell’informalità – legata alla mancanza di norme – è sicuramente quella più creativa, mentre la stagione della normalizzazione è quella in cui il progetto acquisisce maturità.
La città come luogo di apprendimento
La formazione classica di chi popola la pubblica amministrazione è basata sull’esistenza di due grandi attori Stato e Mercato: con un ruolo specifico dello Stato – largamente inteso unitamente alle articolazioni periferiche – di garantire in via esclusiva i servizi essenziali e del Mercato di determinare l’economia. L’elemento di novità è indubbiamente il manifestarsi del Terzo Settore (largamente inteso, quindi, includendo anche gruppi informali di cittadini) sempre più consistente e che ormai ha anche superato la logica di pubblico e di privato, inserendosi a pieno titolo nella semantica del comune, intendendo i beni e i servizi presi in carico in una logica di co-decisione e di co-azione.
Il rapporto interattivo tra Stato, Mercato e Terzo Settore all’interno della città la ridisegna come luogo di apprendimento, in cui la stessa interazione rispetto alle poste in campo produce saperi e competenze utili a produrre trasformazioni urbane ma anche delle persone che le attraversano. Oggi, dopo che le pratiche di interazione si sono moltiplicate è sicuramente più presente nell’approccio delle istituzioni l’idea di immaginare processi di coinvolgimento e di ingaggio, a volte anche a monte delle progettazioni: non è un caso che negli ultimi anni sia diventato legge il Codice del Terzo Settore. Le persone che, rappresentando o operando per lo Stato, si misurano in queste trasformazioni, spesso apprendono una nuova postura, leggono le criticità e le opportunità, provano a impattare sulla macchina amministrativa prioritizzando le esigenze, provando a cogliere quali siano gli spazi possibili in cui ingaggiare le comunità, razionalizzando l’impegno sempre più ridotto delle risorse degli enti centrali o locali.
È evidente che queste esperienze migliorino un certo intuito delle istituzioni, e che sia necessario interrogarsi su come aumentare i momenti in cui la lezione appresa dal singolo caso studio diventi apprendimento diffuso, per dotare di nuovi elementi culturali la cassetta degli attrezzi del professionista riflessivo che abita le istituzioni. Uno dei tratti distintivi degli attori che si misurano con questi contesti è l’aver sviluppato – più o meno consciamente – un approccio incrementale e pluralista alle politiche pubbliche, e cioè risultano disponibili a fare alleanze e tratti di strada, anche puntuali, con attori distanti in virtù di un progetto complessivo. Gli attori devono quindi muoversi come un ballerino che balla con chiunque – anche con chi magari fino a ieri non avrebbe mai ballato, per costruire alleanze (che accrescono anche le risorse politiche e conoscitive) e legami, oltre che a sperimentare nuovi balli e quindi nuove pratiche. Devono anche tendere a sviluppare la capacità del bricoleur – che rappresenta una delle abilità del planner contemporaneo – e cioè di chi riesce a comporre un oggetto con i pezzi che ha, componendo politiche pubbliche innovative a partire dall’esistente, che spesso è scarsamente ricco e frammentato.
In definitiva, l’arte di far da sé e per sé delle comunità locali e i rapporti interattivi producono nuovi saperi e competenze, nuove forme di interazione, nuovi mestieri, norme, procedure dando esito ad una geografia dei luoghi insorgenti e delle pratiche ibride che ridisegnano il significato di città.
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