Il 23 maggio si è tenuto a Lucca un incontro in occasione della presentazione del nuovo Rapporto Labsus “Le Scuole: da beni pubblici a beni comuni”. È stata l’occasione sia per fare il punto sullo stato dell’arte dell’amministrazione condivisa dei beni comuni in Toscana, sia per parlare di alcuni patti in particolare del territorio lucchese.
Circa il primo aspetto, sono stati resi noti i risultati di alcuni primi dati elaborati in una specifica indagine di Labsus da cui risulta che l’amministrazione condivisa dei beni comuni in Toscana gode nel complesso di buona salute, ma con note preoccupanti che ne compromettono il futuro. Note su cui forse vale la pena di riflettere, non solo per la Toscana, ma per indicare un percorso.
Le buone notizie…
In Toscana si registra una delle più alte percentuali regionali dei comuni che hanno adottato il Regolamento, con una crescita costante dal 2014 ad oggi: si tratta di 48 comuni, che rappresentano quasi il 20% dei comuni italiani col Regolamento. Siena è stato il secondo comune d’Italia, subito dopo il comune di Bologna. Si tratta di comuni distribuiti in maniera abbastanza omogenea sull’intero territorio regionale: sono prevalentemente di dimensioni medio-piccole (il 50% ha meno di 20.000 abitanti, a differenza di altre regioni); di ogni colore politico (Pistoia – centrodestra – è attualmente il Comune con maggior numero di patti siglati, 139 nel momento in cui scriviamo); nell’insieme coprono un territorio in cui vivono 1.800.000 abitanti della Toscana, quindi circa la metà dei toscani; si tratta soprattutto di comuni delle zone interne della regione e sono inoltre compresi 9 dei 10 comuni capoluoghi di provincia.
In questi comuni sono stati siglati circa 700 Patti di collaborazione: noi ne abbiamo sino ad ora raccolti e catalogati oltre il 50%. Ciascun patto coinvolge mediamente, in iniziative e attività varie, circa 1.000/1.200 presenze. Nel complesso si stimano circa 800.000 cittadini coinvolti.
I beni comuni oggetto dei Patti sono per più del 60% di tipo “materiale” (soprattutto spazi pubblici verdi, corsi d’acqua e alcuni immobili) e per meno del 40% di tipo immateriale (welfare di comunità, cultura, educazione e apprendimento, ecc). Sono un vero “tesoretto civico”, perché non solo creano benessere per le comunità producendo “beni relazionali”, momenti di socializzazione e di inclusione sociale, ma sono anche espressione e rafforzano quella cultura ed identità dei luoghi che costituisce l’humus su cui si sono sviluppate le esperienze dei “distretti”: ossia di produzioni che si basano sulla cooperazione dei soggetti che vivono in certo un luogo. E che oggi hanno permesso di costruire anche i distretti di economia civile, le filiere del cibo, le reti dei “pattisti” diffuse in vari territori provinciali toscani.
…e quelle cattive
Si fa, ma non si dice: dei 48 comuni toscani che hanno adottato il Regolamento, l’80% non offre alcun tipo di informazione sul sito (più di quanto normalmente accade in Italia). Né sul Regolamento e i patti esistenti, né sulle modalità per avanzare proposte di amministrazione condivisa e a chi rivolgersi. Quindi non si comunicano in alcun modo queste esperienze sui territori, ai propri cittadini, spesso neppure all’interno dell’ente stesso.
Non si interviene sull’assetto organizzativo: solo 5 Comuni (il 10%) hanno un ufficio preposto con un referente interno stabilmente assegnato in organico e hanno una modalità standardizzata per presentare delle proposte di collaborazione. Prevale il rapporto diretto tra cittadino (singolo o organizzato) con un settore, un assessore o un funzionario: si rafforza quindi un metodo basato sulla informalità talvolta a scapito della trasparenza e della natura stessa dei patti di collaborazione, pensati invece come un ponte tra «la piazza ed il palazzo».
In queste condizioni, è sufficiente che nel corso del tempo cambi un’amministrazione politica o l’assessore che aveva favorito l’adozione del Regolamento, che sia spostata ad altro ufficio la persona di riferimento sia pure “informale” dei patti, o che questa vada in pensione, per far sì che le esperienze dei patti di collaborazione si blocchino, senza che ne rimanga traccia nell’organizzazione dell’ente e nessun riferimento per i cittadini.
L’amministrazione condivisa dei beni comuni in Toscana è in questa situazione: quindi è “fragile”.
E quindi, che fare?
I cittadini e gli enti si trovano così oggi a dover faticare molto nel rendere stabile l’Amministrazione condivisa e soprattutto per non fare passi indietro di fronte ad una mancata continuità delle esperienze avviate. Alcuni Patti non vengono così rinnovati, talora ponendo la parola “fine” ad esperienze anche già radicate nelle comunità locali. Sarebbe pertanto necessaria una nuova fase per rendere “a bassa intensità di fatica” l’azione dei cittadini attivi, ma anche quella degli enti, facendo così uscire queste esperienze da un fenomeno “di nicchia”, per trasformale in normali prassi amministrative. Ma come?
La prima proposta di una possibile “normalizzazione trasformativa” per gli enti locali si basa su 5 punti in parte già enunciati:
- Specifici uffici preposti con responsabilità chiare all’interno della struttura organizzativa e che siano l’interfaccia di riferimento per i cittadini/e;
- Comunicazione alla città (come minimo sul sito istituzionale) delle esperienze avviate (regolamenti e patti siglati) e delle opportunità aperte a tutti/e (a chi rivolgersi e come fare una proposta di patto);
- Monitorare e valutare non solo i singoli patti, ma l’insieme, in modo da rilevare anche il loro impatto complessivo sia sui beni comuni, sia sulle comunità e persone (aspetti quindi sia economici che sociali);
- Formare ed informare il personale dell’ente, in specifico quello preposto a queste funzioni;
- Collaborare sviluppando la co-progettazione, senza ridurla ad un rituale procedurale, ma valorizzando anche la dimensione intersettoriale.
Se tutto questo non verrà attuato si rischia di bloccare non solo i futuri sviluppi, ma anche le innovazioni sino ad ora avviate. Occorre una nuova capacità progettuale degli enti ed una nuova governance collaborativa con l’intervento anche delle istituzioni a livello sovracomunale.
Occorre un vero sostegno dal livello regionale
Ma è proprio questo il problema: perché non esistono, in Toscana, sostegni istituzionali a nessun livello sovracomunale, nonostante la LRT 71/20 o la LRT 65/20. Al pari degli enti locali non ci risulta esistere, per esempio, da parte della Regione Toscana, nessuna comunicazione delle esperienze avviate dagli enti sui territori: non è stata creata la banca dati pubblica dei beni comuni (art. 6 della LRT 71/20), né sono state attivate agevolazioni (art 10) o effettuato o anche avviato quel confronto pubblico che si prevedeva entro 18 mesi dall’approvazione della legge (art. 11), ossia entro la fine del 2021. Vi sono quindi strumenti che già potrebbero essere attivati con quelle LRT già esistenti, ma che rimangono solo enunciati. Così, alle condizioni di fragilità strutturale dei Comuni nell’organizzazione interna, come quelle rilevate, fa eco la mancanza di indirizzi e attività per facilitare l’Amministrazione Condivisa dei beni comuni a livello sovracomunale, anche se non solo sarebbero possibili azioni di “normalizzazione trasformativa” della cura dei beni comuni, ma addirittura già previste dalle normative regionali. Possiamo quindi concludere che se è vero che come ogni riforma, anche quella dell’Amministrazione condivisa dei beni comuni può dirsi realizzata solo nel momento in cui viene tradotta in pratica, è anche vero che adesso il compito “sussidiario” spetta soprattutto agli enti di dimensione sovracomunale che dovrebbero favorire, sostenere e coordinare queste realtà già esistenti tanto diffuse quanto ignorate, favorendone anche di nuove.
Un pungolo necessario
È questa la sfida che adesso abbiamo davanti nelle regioni, come la Toscana, dove per prime e più diffusamente sono stati adottati i regolamenti di amministrazione condivisa dei beni comuni. Perché a fronte della grande disponibilità ed interesse a collaborare per la cura dei beni comuni mostrata dai cittadini, il cambiamento istituzionale non è ancora adeguato, più ancora che sul piano normativo su quello delle attività promozionali necessarie e/o previste dalle stesse leggi regionali. Chissà se la Regione Toscana potrà avere una funzione di apripista in questa direzione nei prossimi mesi ed anni, a cui anche altre Regioni potranno ispirarsi! Fors’anche la stessa ANCI. È ciò che ci auguriamo: ma per adesso non vediamo ancora segnali di fumo all’orizzonte, nonostante un protocollo d’intesa a tal fine richiesto da Labsus e già siglato da ANCI e Regione Toscana circa due anni fa. Ma anch’esso quasi del tutto inattuato sino ad oggi.
Quindi, se è vero che i cittadini fanno la cura dei beni comuni (ma ciò non si racconta) è anche vero che spesso le istituzioni dicono di voler fare (ma non fanno) quelle attività e cure necessarie perché queste esperienze e forme di cittadinanza attiva siano rese più semplici e normali per tutti/e. A noi tutti/e il compito di essere il loro “pungolo”.
Immagine di copertina: Engjell Gjepali su Unsplash