L’Amministrazione condivisa si è affermata nel nostro ordinamento come quello strumento attraverso cui la Repubblica, condividendo risorse e responsabilità tra cittadini e amministrazioni, attua obiettivi di interesse generale finalizzati alla piena realizzazione di ogni persona, secondo quanto disposto dall’articolo 3 della nostra Costituzione. La si è dotata di strumenti amministrativi e procedure codificate che ne fanno ormai un modello applicabile in ogni ambito di intervento pubblico, ma questo oggi non è più sufficiente. È maturo il tempo per definire l’Amministrazione condivisa nella sua dimensione politica.
Percorsi nuovi per la democrazia
Le centinaia di esperienze diffuse su tutto il territorio nazionale testimoniano come i processi collaborativi contribuiscono a costruire una democrazia aperta e inclusiva in grado di rispondere alla vulnerabilità del territorio e alle condizioni di fragilità dei suoi abitanti, abilitando un sistema di relazioni capaci di produrre innovazione sociale, economica e culturale finalizzata a ridurre le disuguaglianze e accrescere i livelli di benessere e coesione sociale.
Nonostante questo, quasi mai tali esperienze hanno la forza di orientare l’azione complessiva dei pubblici poteri, né di mettere in discussione le modalità di definizione delle politiche pubbliche. Non ci si riferisce in questo caso alle tradizionali resistenze culturali nel riconoscere i cittadini come potenziali alleati, ma alla convinzione di chi ricopre incarichi di governo, a tutti i livelli, ad avere la esclusiva titolarità nella definizione delle scelte politiche di una comunità.
Riflettere sulla dimensione politica dell’Amministrazione condivisa significa, oggi, cercare sentieri e percorsi nuovi per recuperare spazi di democrazia e sostenere quello che di nuovo sta nascendo, in forme diverse dal passato, ma con la capacità di definire identità nuove, mobilitare energie per la tutela di interessi generali, riconoscersi in principi e valori condivisi.
Tra povertà e sfiducia
Il 2024 si profila come un banco di prova cruciale per la democrazia in tutto il mondo, più di 60 paesi e oltre quattro miliardi di persone saranno chiamati a scegliere il proprio governo e il futuro del nostro mondo. Tra questi l’Europa.
Come arriva il nostro Paese a questa sfida politica cruciale? Secondo l’ultimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale pubblicato dalla Caritas, la povertà in Italia è un fenomeno ormai strutturale che interessa 5,6 milioni di persone e 2,1 milioni di famiglie. Nemmeno avere un lavoro rappresenta oggi una garanzia vista la presenza di 2,7 milioni di lavoratori poveri. Anche le prospettive non sembrano incoraggianti, il Rapporto annuale del Censis indica, per il 2050, 8 milioni di persone in età attiva in meno e una spesa sanitaria stimata in 177 miliardi di euro (a fronte dei 131 di oggi) con impatti inimmaginabili sul nostro sistema produttivo e di welfare.
Siamo di fronte ad una condizione di crisi che investe non solo l’ordinamento politico ma l’intero universo di significati e valori che hanno definito la coscienza collettiva del paese tanto che, sempre dal Rapporto Censis emerge che il 56% (il 61,4% tra i giovani) degli italiani è convinto di contare poco o nulla nella società e il 60,8% (il 65,3% tra i giovani) prova una grande insicurezza nel futuro.
In un mondo e una società esposta a sempre nuove tensioni e nuovi conflitti, anche la politica riflette la stessa instabilità, si concepisce come pura tattica e viene meno qualunque rapporto tra rappresentanza politica e rappresentanza sociale.
Condivisione è democrazia
È necessaria una risposta di alto profilo per ricostruire legami sociali che si sono spezzati e avviare un nuovo processo di ricerca che alimenti e si prenda cura della nostra democrazia.
Può essere l’Amministrazione condivisa parte di quella risposta? Può rappresentare la chiave per attivare nuove dinamiche partecipative di natura sistemica? Sì, perché il cuore dell’Amministrazione condivisa sta nella condivisione di risorse e responsabilità fra cittadini e amministrazioni e quindi, ben oltre il loro carattere neutro di strumenti amministrativi, finiscono per orientare e condizionare le scelte in quanto costringono sia i cittadini che le istituzioni ad uscire dal proprio ambito e aprirsi alla collaborazione.
In questo senso il Regolamento per l’Amministrazione condivisa dei beni comuni è da dieci anni il riferimento per le pubbliche amministrazioni che utilizzano lo strumento del Patto di collaborazione per promuovere la cura di beni materiali e immateriali. Le diverse comunità di pratica si sono diffuse in tutto il Paese in questi dieci anni, l’attenzione alla cura del territorio, del proprio quartiere, paese o città, un modo per superare l’individualismo e la cultura della delega. La città, allora, è il luogo in cui, prima che altrove, si misura lo stato di salute del rapporto tra cittadini e istituzioni, il luogo in cui si sperimenta in prima persona il prezzo troppo alto da pagare alla passività, al compromesso, alla complicità per non avvertire l’urgenza del diritto/dovere alla partecipazione; il luogo dal quale si può partire perché valori come quello della condivisione e della collaborazione diventino patrimonio comune di tutti.
Il Patto di collaborazione, allora, come antidoto alla solitudine e all’individualismo per la sua naturale propensione ad alimentare relazioni, creatività, libertà di pensiero; a differenza di altri strumenti collaborativi, come la coprogrammazione e coprogettazione previsti dal Codice del Terzo settore, uno strumento ad accesso universale, attivabile anche dal singolo cittadino; ha un carattere aperto e flessibile, capace di dare voce a chi è tradizionalmente escluso da questo genere di processi; può riguardare la cura di un piccolo spazio come la definizione di un servizio pubblico.
Dalla frammentazione alla pianificazione strategica
Oggi, l’efficacia degli strumenti collaborativi, in particolare dei patti di collaborazione, è limitata dalla frammentazione dei percorsi tra diversi servizi, aree amministrative, ambiti di intervento.
Attraverso una pianificazione strategica di natura politica possono costituire un argine alla sfiducia e alle diseguaglianze promuovendo forme di integrazione tra istituzioni e attori presenti sul territorio attraverso la relazione di cura.
La stessa Corte costituzionale nella pronuncia 131/20 ha definito l’Amministrazione condivisa come «un canale alternativo a quello del profitto e del mercato»; è un riconoscimento che la politica deve saper cogliere e fare proprio, c’è bisogno di trovare strade nuove per superare l’insofferenza crescente verso le forme della democrazia. Forme innovative di impegno sociale e politico che interpretano in chiave contemporanea il diritto di ogni cittadino di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», oggi passano dalla capacità di riconoscere alcuni elementi, non solo di natura tecnica e amministrativa, che caratterizzano i processi di Amministrazione condivisa: sono centrati sulle persone e sulla cura del pianeta, i beni comuni sono al tempo stesso locali e globali perché solo dove quel bene si trova ciascuno può concretamente prendersene cura e consentire a tutti gli altri esseri umani presenti e futuri di goderne i benefici; hanno la capacità di valorizzare i processi dalla piccola alla grande scala; alimentano la creatività e lo scambio di idee facendo emergere nuove prospettive; sono orientati all’inclusione e alla condivisione delle differenze riconoscendo l’interdipendenza tra le generazioni e le culture; sono circolari e generativi perché liberano le risorse esistenti per nutrirle e farle crescere.
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Immagine di copertina: Marc Thunis su Unsplash