Pur non avendo una classificazione giuridica univoca dei beni comuni, già nel 2014, nella prima versione del Regolamento di Bologna e nel prototipo del Regolamento per l’Amministrazione condivisa promosso da Labsus, si definivano beni comuni quei beni materiali, immateriali e digitali con una funzionalità rispetto al benessere individuale e collettivo.
A guidare la composizione del concetto definitorio – intorno a cui si sviluppano le pratiche sussidiarie di gestione condivisa tra società, cittadini e amministrazione – è la connessione con l’interesse generale, come stabilisce l’art. 118, ultimo comma, Costituzione, su cui oggi si fondano tutte le attività che realizzano l’amministrazione condivisa.
La parità di genere come bene comune
Con lo sviluppo delle pratiche di amministrazione condivisa si è assistito poi a un’evoluzione del campo di azione dei patti di collaborazione, che trova riscontro nell’attuale accezione dei beni comuni, che mette a fuoco una più chiara relazione tra questi beni e i diritti fondamentali della persona e l’interesse delle generazioni future, in relazione con il dovere della Repubblica di garantire i diritti inviolabili (art.2, Cost.) e il pieno sviluppo della persona umana (art.3, 2° comma, Cost.).
Nel Regolamento odierno, redatto da Labsus, infatti, si definiscono beni comuni quelli funzionali al benessere della comunità e dei suoi membri, ovverosia quei beni della vita utili all’esercizio dei diritti fondamentali della persona e all’interesse delle generazioni future.
Questa definizione si pone in sintonia con quanto già indicato, nel 2007, dalla Commissione presieduta da Stefano Rodotà per la modifica alle norme del Codice civile, che definiva questi beni, inquadrandone il nesso di funzionalità con i diritti dei cittadini, ovvero: «[un’] utilità funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona…. [beni] informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità».
Anche secondo il Codice del Terzo Settore e la sentenza n. 131 del 2020 della Corte Costituzionale, con cui si compie la messa a sistema del modello dell’amministrazione condivisa, s’individuano tra le attività di interesse generale quelle poste in essere per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale per la promozione e la tutela dei diritti umani, civili, sociali e politici.
Questa evoluzione, tutta in corso e tutt’altro che pacifica, fa perno sui diritti fondamentali e può consentire di immaginare un legame tra la sussidiarietà e il diritto alla parità di genere, quale diritto fondamentale, che qui interessa focalizzare come campo di applicazione dei patti di collaborazione.
A definire il quadro degli obiettivi comuni per l’uguaglianza di genere è l’Agenda ONU 2030 che dedica il goal 5 al tema della parità e alla lotta alle discriminazioni, per la libera autodeterminazione di tutte le donne e le ragazze. L’obiettivo impegna gli Stati membri e le comunità di riferimento a rafforzare l’effettiva partecipazione femminile alla vita sociale, culturale ed economica a partire dalla lotta alle pratiche ingiuste.
Il Global Gender Gap fotografa la situazione di divario attuale ed è emblematica la stima che conta in ulteriori 130 anni il periodo di tempo per raggiungere la parità di genere, stando ai ritmi di crescita medi attuali.
La Commissione europea (nella Strategia per la parità di genere 2020-2025) si prefigge di conseguire l’equilibrio di genere nel processo decisionale e nella politica con un approccio intersezionale, secondo cui la discriminazione è il frutto di diverse determinanti, un insieme di elementi che caratterizzano l’esperienza della persona, che vanno colte per la loro specificità, a partire dalla lotta alla violenza, per raggiungere l’abbattimento degli stereotipi di genere.
La messa a fuoco della reciproca influenza degli ambiti che interagiscono per lo stato delle cose è fondamentale per qualsiasi ragionamento sull’equità tra i generi.
Oltre l’eguaglianza formale. Non solo libero accesso
Quindi, a far rientrare l’equità di genere tra i beni comuni è, in primis, il diritto fondamentale all’eguaglianza (art. 3, Cost.) che, riprendendo la critica femminista[1], solo nella sua forma di eguaglianza sostanziale è in grado di farsi garanzia per la parità. Infatti, se consentire le pari condizioni è l’obiettivo comune, l’accezione formale si concretizza come eguaglianza dinanzi alla legge e quindi nei diritti, dove gli uomini e le donne vengono riconosciuti liberi; nell’accezione dell’eguaglianza sostanziale invece questa libertà non è naturalmente scontata, neanche se riconosciuta dalla legge, ma va resa possibile mediante previsioni, interventi diretti e pratiche che affrontino le differenze nella loro dimensione reale con l’obiettivo di realizzare interventi per il pieno sviluppo della persona[2].
Alessandra Pioggia, in un libro di prossima uscita, ci dice che è possibile andare effettivamente oltre le forme di potere consolidate e radicate nella società, caratterizzata da asimmetrie strutturali tra i generi, solo se prendiamo in considerazione la misura individuale della discriminazione. Secondo questo approccio è necessario che vi sia «una amministrazione che si occupi di intervenire in concreto per porre in essere l’attività, il servizio, le condizioni che rendano le persone effettivamente eguali»[3].
Allo stato attuale sono poche le soluzioni che contemplino una ridefinizione effettiva delle logiche relazionali per approdare ad una dimensione di parità sostanziale, a causa della scarsa percezione, a monte, delle condizioni disabilitanti da cui scaturisce il bisogno di ridefinizione dei rapporti di potere.
La soluzione della messa a disposizione per ciascuno di beni e servizi, per esempio, non funziona da sola; perché non vi è parità di accesso ai beni della vita, ai ruoli e alle cose, quando persistono diverse condizioni di partenza. Per tali ragioni, il solo, quanto necessario, libero accesso alle pratiche di amministrazione condivisa, come precondizione posta dai Regolamenti e dai Patti di collaborazione, di per sé non è una dimensione sufficiente per l’equo trattamento tra i generi, non tenendo conto dei limiti latenti e degli stereotipi. Il mero libero accesso è un contributo minimo, l’aspirazione è piuttosto quella di essere accolte e assistite nella definizione dei bisogni, che sono nuovi e diversi. Si chiede quindi la condivisione delle responsabilità della cura a partire dalla definizione di questi stessi bisogni e delle soluzioni proposte.
Le opportunità che le pratiche sussidiarie possono cogliere
La sfida per gli attori e le amministrazioni sulle pratiche sussidiarie è favorire specifiche progettualità per la parità di genere, condividendone la responsabilità con le attrici e gli attori presenti sul territorio per stimolare quella «rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico […] preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico)» (Corte Cost. 131/2020).
Questo serve per uscire dallo stato di solitudine dei bisogni e di conseguenza dallo stato di minorità del genere femminile, grazie alla cooperazione tra le forze della società. Il modello dell’amministrazione condivisa, quindi, risulta idoneo allo scopo, soprattutto se saprà cogliere la complessità del fenomeno delle discriminazioni di genere, le diseguaglianze profonde e latenti che strutturano la società. È attraverso la coscienza dell’interdipendenza delle condizioni degli individui e delle relazioni sociali che sarà possibile uscire dall’ipocrisia dell’autonomia, come stato di natura, degli individui[4].
I dati di genere per esistere
A questo fine sono utili gli strumenti che disvelino l’oppressione del genere femminile[5], come il progetto di raccolta dei dati di genere a supporto di politiche pubbliche del Comune di Bologna in collaborazione con Period Think Tank APS et Sex and the City, Città metropolitana, Casa delle Donne per non subire violenza e SOS donna, «Verso un atlante di genere. Prospettive femministe per costruire città sicure»; con lo scopo di migliorare la capacità del territorio di individuare i motivi di emarginazione del popolo femminile esposto a diverse forme di discriminazione e violenza, il progetto in corso consente alle partecipanti di lasciare la propria testimonianza in merito alla percezione della sicurezza nel contesto urbano. Lo studio e la raccolta dei dati muovono verso lo scopo di creare un nuovo patrimonio conoscitivo a disposizione del comune e cittadini per costruire spazi urbani inclusivi. Una conoscenza di genere del vivere sta alla base della definizione dei bisogni e delle soluzioni pubbliche.
Patti civici per la promozione della parità
Sul versante del contrasto alle asimmetrie di genere, si pensi alle pratiche del comune di Verona, che ha reso realizzabili alcuni progetti interessanti, uno di questi prevede di promuovere, anche tramite corsi formativi per le donne migranti, l’empowerment femminile e progetti per la redistribuzione del carico di cura delle famiglie; il progetto promuove attività culturali di vario genere e ha sviluppato anche un servizio di baby-sitting in modalità di mutuo soccorso tra famiglie e volontari. Ha anche ospitato l’evento di prevenzione della violenza: “Come eri vestita?” in collaborazione con Amnesty. D’altro canto, il comune di Bologna ha da poco pubblicato un avviso rivolto a tutti i soggetti attivi, in partenariato, per raggiungere obiettivi riassumibili in attività volte al sostegno educativo per la lotta alle discriminazioni di genere, prevedendo anche un contributo economico per la progettualità.
Anche le regioni possono fare molto per favorire le pratiche sussidiarie, al fine di promuovere patti per la parità di genere, mediante la partecipazione delle donne che primariamente debbono essere chiamate a definire i bisogni e quindi gli obiettivi con l’intento di mobilitare risorse comuni per l’equità di genere. Si pensi alla potenzialità dello sviluppo della previsione contenuta in tutte e cinque le leggi sull’amministrazione condivisa che tra le finalità perseguite riporta proprio la promozione delle pari opportunità tra i generi (Emilia-Romagna, l.r. 3/2023; Umbria, l.r. 2/2023, Molise, l.r. 21/2022; Toscana, l.r. 71/2020; Lazio, l. r. 10/2019).
[1] C. Smart, The Woman of Legal Discourse, 1992.
[2] F. Sorrentino, Eguaglianza formale, in Cosituzionalismo.it, 3/2017.
[3] A. Pioggia, Cura e pubblica amministrazione, Il Mulino, in press.
[4] Kittay La cura dell’amore. Donne, Uguaglianza, Dipendenza, 2010.
[5] Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex. A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory, and Antiracist Politics, 1989.
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Immagine di copertina: Beatrice Di Maria sy WikiDonne