Questa è la storia di come, da un’idea che sembrava un’utopia e da un principio costituzionale che sembrava servisse ad altro, è nato un nuovo paradigma del Diritto amministrativo. Poiché nel modo in cui nascono le idee anche le biografie contano, l’idea di un nuovo modello di amministrazione fondato sulla collaborazione fra cittadini e amministrazioni è nata in gran parte grazie all’esperienza che ebbi nel periodo 1990 – ‘93 come Presidente dell’Opera Universitaria di Trento, l’ente preposto a garantire il diritto allo studio degli studenti dell’Università di Trento, la mia università.
In quella veste, in seguito a diverse esperienze molto positive con le associazioni studentesche, mi resi conto che gli studenti erano portatori non soltanto di esigenze (che l’ente pubblico che presiedevo doveva soddisfare per garantire il loro diritto allo studio), ma anche di svariate competenze e capacità che rendevano gli studenti potenziali alleati dell’Opera Universitaria nell’erogazione dei servizi connessi con il diritto allo studio.
Una “antropologia positiva”
Riflettendo negli anni successivi su quell’esperienza mi sembrò naturale applicare a tutti i cittadini la medesima “antropologia positiva”, essendo a mio avviso evidente che ogni persona, qualunque siano le sue condizioni personali e sociali, è portatrice non solo di bisogni ma anche di capacità, ovviamente ciascuno in misura diversa sia per quanto riguarda i bisogni, sia le capacità.
Questa osservazione fu rafforzata, nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, da una ricognizione sul campo che mi portò ad individuare diversi casi in cui i cittadini, singoli o associati, erano stati coinvolti da pubbliche amministrazioni nel perseguimento dell’interesse pubblico. In tutti questi casi l’amministrazione, chiedendo esplicitamente o implicitamente la collaborazione dei cittadini per dare risposte ai problemi della comunità, confermava l’assunto secondo il quale i cittadini non soltanto sono portatori di risorse di vario tipo, ma sono anche disposti a mettere queste risorse a disposizione della comunità, nell’interesse di tutti.
Il problema era però che i funzionari di quelle amministrazioni si sentivano a disagio nel dover chiedere la collaborazione dei cittadini per risolvere problemi che, secondo il paradigma dominante, avrebbero dovuto risolvere essi stessi, da soli. In altri termini, per quei funzionari dover chiedere l’aiuto dei cittadini costituiva una deminutio del loro ruolo, un’ammissione di impotenza.
Un cambio di paradigma
Seguendo le illuminanti analisi di Thomas Kuhn nel suo fondamentale saggio intitolato La struttura delle rivoluzioni scientifiche a me sembrava invece che il fatto di dover chiedere la collaborazione dei cittadini per risolvere problemi di interesse pubblico segnalasse non tanto un’incapacità dei funzionari, quanto una “patologia” del paradigma bipolare dominante, il segnale cioè del potenziale emergere di un nuovo modello di amministrazione, fondato su un nuovo paradigma.
Queste riflessioni confluirono infine nell’estate del 1997 in un saggio intitolato Introduzione all’amministrazione condivisa. Il termine Introduzione voleva indicare che, nelle intenzioni dell’autore, quel saggio rappresentava solo una prima ricognizione del tema, che ci si riservava di approfondire ulteriormente. Amministrazione condivisa, invece, era il termine scelto per definire il nuovo modello di amministrazione descritto nel saggio. Condivisa, non partecipata, perché nella teoria dell’amministrazione condivisa i cittadini non partecipano all’esercizio del potere, come accade nella partecipazione al procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241/1990, bensì all’esercizio della funzione amministrativa, contribuendo concretamente, insieme con l’amministrazione, alla soluzione dei problemi della comunità.
Il riconoscimento costituzionale dell’amministrazione condivisa
Quattro anni dopo la pubblicazione del mio saggio, con la riforma costituzionale del 2001, fu introdotto in Costituzione il principio di sussidiarietà (art. 118, u.c.), con questa formulazione: Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.
Leggendo quella disposizione costituzionale alla luce di quanto sostenevo nel mio saggio del 1997 per me fu evidente che essa costituiva il riconoscimento costituzionale dell’amministrazione condivisa. In primo luogo, perché affermando che i cittadini sono in grado di mobilitarsi autonomamente nell’interesse generale la Costituzione da un lato accettava implicitamente l’antropologia positiva alla base della teoria dell’amministrazione condivisa, secondo la quale i cittadini sono portatori non solo di bisogni ma anche di capacità. Dall’altro, riconosceva che tali capacità, normalmente utilizzate per perseguire interessi privati, potevano in determinate circostanze essere messe a disposizione dell’interesse generale, cioè di tutti.
In secondo luogo, prescrivendo che i soggetti pubblici devono favorire la collaborazione dei cittadini la Costituzione accettava esplicitamente l’ipotesi teorica che per perseguire l’interesse generale ci sia bisogno anche della collaborazione dei cittadini, altrimenti non si capirebbe perché le autonome iniziative dei cittadini volte a perseguire l’interesse generale dovrebbero essere favorite dai poteri pubblici.
L’interpretazione della sussidiarietà alla luce dell’amministrazione condivisa
Grazie all’art. 118, u.c. quella che nel 1997 era una semplice ipotesi teorica nel 2001 fu riconosciuta come un nuovo modello di amministrazione, fondato su un nuovo principio costituzionale, la sussidiarietà.
Sotto questo profilo, il riconoscimento costituzionale fu una fortuna per la teoria, che ricevette in tal modo una legittimazione al massimo livello dell’ordinamento, passando dallo status di utopia a quello di nuovo modello di amministrazione.
Ma, sotto un altro profilo, l’esistenza stessa della teoria dell’amministrazione condivisa fu una fortuna per il principio di sussidiarietà, perché essa consentì di interpretare tale principio in maniera coerente con i principi costituzionali e, in particolare, con l’art. 3, 2° comma della Costituzione. In particolare, l’affermarsi negli anni 2000 della teoria dell’amministrazione condivisa è servito ad evitare il prevalere dell’altra teoria, all’epoca molto diffusa, secondo la quale la sussidiarietà legittima il ritrarsi dei soggetti pubblici per lasciare spazio all’iniziativa privata, per esempio nei servizi che danno vita al welfare State.
Come le idee cambiano il mondo
Guardando a queste vicende in una prospettiva storica mi pare che si possano fare due considerazioni.
Innanzitutto, per cambiare il mondo le idee devono essere in sintonia con le grandi correnti sociali e culturali che in quel mondo si muovono. Se arrivano troppo presto o non sono in sintonia rimangono sterili. La sintonia fra la formulazione della teoria dell’amministrazione condivisa nel 1997 e l’introduzione in Costituzione del principio di sussidiarietà fa pensare che l’idea della collaborazione fra cittadini e amministrazioni per l’interesse generale fosse in qualche modo già nell’aria, riflettesse lo “spirito dei tempi”. Noi non lo sapevamo, ma come s’è visto successivamente l’idea di tradurre la teoria dell’amministrazione condivisa in un regolamento comunale-tipo era in piena sintonia con ciò che migliaia di cittadini attivi già facevano in tutta Italia. C’era una sorta di “movimento carsico” di cittadini attivi cui la teoria dell’amministrazione condivisa, tradotta in pratica mediante il Regolamento per l’amministrazione condivisa ed i patti di collaborazione, ha dato l’inquadramento teorico e giuridico di cui c’era bisogno affinchè quel movimento potesse esprimere tutto il proprio potenziale.
La seconda considerazione riguarda il fatto che, per cambiare il mondo, le idee hanno bisogno che qualcuno le approfondisca, le studi, le promuova, le applichi. Devono essere tradotte da soggetti collettivi in strutture, iniziative, progetti che utilizzano risorse, etc.. Nel caso della teoria dell’amministrazione condivisa, il soggetto collettivo che ha promosso e strutturato tale teoria è stato Labsus, che ha consentito di dare durata e solidità alle iniziative di promozione del nuovo modello di amministrazione.
Se non avessi creato Labsus 20 anni fa, adesso non potremmo festeggiare i primi 10 anno del Regolamento per l’amministrazione condivisa. Ma lo feci proprio perché ero consapevole che un’idea come quella dell’amministrazione condivisa non avrebbe potuto affermarsi camminando soltanto sulle mie gambe, ci voleva un’associazione, un gruppo di amici e amiche che portasse avanti l’idea.
Naturalmente se si crea un soggetto collettivo per promuovere una propria idea bisogna essere disposti ad accettare che altri possano interpretare quella idea, sviluppandola in direzioni a cui magari non si era pensato. Insomma, non si deve essere gelosi delle proprie idee… bisogna accettare che siano autonome e che possano seguire percorsi imprevisti.
Tre motivi per cui l’amministrazione condivisa funziona
Provo ad individuare quelli che secondo me sono i tre motivi per cui l’amministrazione condivisa funziona. Naturalmente i motivi potrebbero anche essere di più e diversi da questi, dipende dai punti di vista.
Il primo motivo è stato già detto sopra: l’amministrazione condivisa, mediante i patti di collaborazione, risponde al bisogno di migliaia di persone di uscire di casa per partecipare insieme con altri cittadini alla cura dei luoghi dove vivono. I patti sono una risposta semplice e concreta al bisogno di partecipare, di stare insieme, di sentirsi parte di un gruppo. I patti sono come dei pannelli fotovoltaici di tipo particolare, perché trasformano le energie civiche nascoste in capitale sociale, producendo senso di appartenenza e coesione sociale. Inoltre, aiutano a contrastare una delle piaghe sociali del nostro tempo, la solitudine.
In più, i patti sono una forma di partecipazione alla vita pubblica che, essendo alla portata di tutti, contribuisce a riempire il pericoloso vuoto che negli ultimi anni si è creato fra cittadini e istituzioni, aiutando molte persone a recuperare quel senso di appartenenza ad una comunità e quello spirito solidale che sono stati per generazioni uno dei punti di forza del nostro Paese. In altri termini, i patti di collaborazione sono incubatori di partecipazione e di democrazia.
Come si è realizzata l’amministrazione condivisa
Il secondo motivo per cui l’amministrazione condivisa funziona sta nel modo con cui essa si è realizzata. Per 17 anni, dal 1997 al 2014, la teoria è rimasta inattuata, ma non è stato tempo sprecato, perché in quegli anni Labsus ha preparato il terreno con la riflessione, la diffusione, la raccolta di casi, l’analisi giuridica, etc..
Finché, grazie ad un incontro fortuito con l’allora Direttore Generale del Comune di Bologna (ma abbiamo capito da tempo che il caso non esiste…) nel 2012 si è avviata quella collaborazione con il Comune di Bologna che, dopo due anni di intenso lavoro sia nei quartieri, sia dentro l’amministrazione, ha portato sabato 22 febbraio 2014, in questa stessa sala in cui oggi ne festeggiamo il decennale, alla presentazione del primo Regolamento sulla collaborazione fra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani.
Nel pomeriggio di quel giorno il testo del Regolamento fu pubblicato sul sito di Labsus e del Comune di Bologna. La mattina dopo trovammo sul nostro sito decine di messaggi (divennero centinaia nei giorni successivi) di cittadini, associazioni e anche qualche amministratore che, da tutta Italia, ci chiedevano di andarli a trovare per spiegargli il funzionamento del Regolamento e dei patti di collaborazione.
Scoprimmo così l’esistenza di quel movimento carsico di cittadini attivi di cui si diceva prima e cominciò così quell’intenso lavoro di diffusione e promozione del Regolamento che, dieci anni dopo, ci ha portato in questa sala a festeggiare il successo dell’amministrazione condivisa.
Operare conoscendo
Grazie a questo capillare lavoro sul campo la teoria dell’amministrazione condivisa si è realizzata negli scorsi anni attraverso un mix di azione e di riflessione, attraverso il confronto continuo da un lato con le associazioni dei cittadini, dall’altro con gli amministratori locali, i dirigenti ed i funzionari del Comune. Proprio grazie a questo continuo confronto gli strumenti attuativi dell’amministrazione condivisa sono strumenti semplici e facili da usare: da un lato uno strumento tradizionale come un regolamento comunale, dall’altro uno inedito come i patti di collaborazione.
E ancora oggi l’amministrazione condivisa continua ad evolvere proprio grazie al mix di azione e di riflessione che caratterizza da sempre il modo di lavorare di Labsus perché fin dall’inizio il nostro motto è stato: Conoscere per operare. Operare conoscendo. L’azione nutre la riflessione e la riflessione guida l’azione.
Soluzione sofisticata ma semplice da applicare
Il terzo motivo per cui l’amministrazione condivisa funziona sta nel fatto che costituisce la soluzione più efficace per i problemi che le nostre società devono affrontare oggi. In sostanza l’amministrazione condivisa da un lato è in sintonia con il bisogno di partecipazione e di protagonismo di molti cittadini, dall’altro è più in sintonia dell’amministrazione tradizionale con le esigenze delle nostre attuali società.
Esse infatti devono affrontare, fra gli altri, anche quelli che vengono chiamati “problemi di sistema”, cioè problemi di enorme complessità ai quali nessun soggetto, da solo, è in grado di dare risposte. Cambiamenti climatici, eventi meteorologici estremi, scarsità di risorse, grandi migrazioni, pandemie, transizioni da un modello economico e sociale ad altri…. questi ed altri problemi di sistema possono essere affrontati solo con la collaborazione di tutti, cittadini, istituzioni, imprese.
L’amministrazione condivisa, essendo fondata strutturalmente sulla collaborazione fra diversi soggetti, è esattamente il modello di amministrazione che ci vuole in questo momento storico per affrontare con qualche speranza di risolverli i grandi problemi del nostro tempo, mettendo in campo tutte le risorse disponibili.
Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi e se qualcuno le propone ci sta prendendo in giro. Le soluzioni devono essere strutturalmente all’altezza della complessità dei problemi, ma devono essere al tempo stesso operativamente semplici da applicare.
L’amministrazione condivisa è una soluzione sofisticata e strutturalmente complessa, perché prevede il coinvolgimento di più soggetti pubblici e privati legati fra loro da rapporti di fiducia, assoluta trasparenza, nuove procedure, informalità, etc.. Ma al tempo stesso l’amministrazione condivisa è operativamente semplice da applicare perché i suoi strumenti attuativi, cioè i patti, sono strumenti efficienti ma molto semplici, flessibili, adattabili.
Grazie a Bologna!
In conclusione, un ringraziamento particolare va al Comune di Bologna per la sensibilità dimostrata tanti anni fa, quando l’amministrazione condivisa era ancora un’utopia.
Oggi i patti di collaborazione sono uno strumento usato normalmente in tante città, ma quando nel 2012 iniziammo con il Comune di Bologna il lavoro per la redazione del Regolamento, l’amministrazione condivisa era una scommessa, una novità assoluta. Gli amministratori di Bologna ebbero la lungimiranza di investire su questa novità e non a caso, grazie alla sua grande tradizione di civismo e di partecipazione alla vita pubblica, è stata Bologna la prima città ad adottare l’amministrazione condivisa come modello di amministrazione complementare a quello tradizionale. E sempre non a caso alcuni anni dopo, grazie all’impegno del Sindaco Matteo Lepore, è stata la prima città ad approvare il Regolamento sulla collaborazione fra soggetti civici e amministrazione per i beni comuni urbani, entrato in vigore nel gennaio 2023, che rafforza ulteriormente la collaborazione fra cittadini e amministrazione come principio fondante la vita della città di Bologna.
Immagine di copertina: Margherita Caprilli per Fondazione Innovazione Urbana Rusconi Ghigi