Il Prof. Paolo Duret, autore del libro “Status activae civitatis. Nuovi orizzonti della sussidiarietà orizzontale nel community empowerment”, edito nel 2023 dalla Editoriale Scientifica, spiega la sua idea di partecipazione dei cittadini attivi

Incuriosito dalla lettura del libro, così ricco di note e citazioni, e colpito dal grande approfondimento dei singoli istituti italiani e stranieri sull’argomento, ho voluto porre al Prof. Paolo Duret alcune domande per chiarire ancora meglio la sua idea sugli sviluppi della partecipazione dei cittadini attivi e dell’amministrazione condivisa. Ne è uscito fuori un dialogo pieno di spunti e di nuove occasioni di riflessione. Ringrazio l’Autore per la sua gentilezza e disponibilità.

Nel suo libro (p. 440), Lei definisce i Regolamenti per l’amministrazione condivisa e i patti di collaborazione come l’apice della scala della sussidiarietà. Come si immagina gli sviluppi di questi strumenti e cosa potrebbe favorire una loro diffusione?

Lo sviluppo dei Regolamenti, specie nella formulazione propria della loro “seconda generazione” e della loro integrazione con le sopravvenute normative (penso in particolare alla disciplina del Terzo settore, nella lettura che ne ha offerto la recente giurisprudenza costituzionale) mi pare vicenda inarrestabile, anche alla luce del trend espansivo che tali strumenti hanno mostrato nei primi venti anni della loro esistenza.
Questo va certamente accompagnato da alcune condizioni di contesto che riguardano i tre poli fondamentali del fenomeno:

  1. l’amministrazione: qui il fulcro risiede a mio avviso in una formazione del personale funzionale ad un ruolo di “attivazione” e promozione delle risorse di cittadinanza attiva locali. A questo proposito occorre in verità stigmatizzare come la manualistica stessa di cui si alimenta la formazione tradizionale spesso non dedichi che pochi accenni alla sussidiarietà, specie “orizzontale”, quasi si trattasse di un corpo extravagante nel contesto di un sistema che appare ancora tributario di quel paradigma “bipolare” sul quale ha ampiamente scritto Gregorio Arena, e ancora scarsamente permeato dalla logica del nuovo paradigma della “amministrazione condivisa”.
  2. i cittadini: questi devono entrare pienamente e consapevolmente in una logica di accountability o di “rispondenza” delle proprie iniziative ai bisogni della comunità, anche a garanzia di quella che nel libro ho chiamato una “apertura in generalità” delle iniziative stesse. Inoltre, un periodo nel quale la circolazione delle informazioni è divenuta cruciale, mi pare opportuno che questa sia veicolata non solo dall’apparato pubblico o da istituzioni esterne (e in questo Labsus svolge da tempo un ruolo assolutamente meritorio), ma dagli stessi cittadini attivi, specie se operanti in organizzazioni strutturate; la diffusione e lo scambio di esperienze non può che fungere da catalizzatore per la loro riproducibilità (oltre che per il loro affinamento).
  3. gli organi di indirizzo politico: il ruolo determinate di questi ultimi nell’implementazione del modello citato è stato già e condivisibilmente evidenziato dalla dottrina (da ultimo Fabio Giglioni). A tal fine il potere politico deve tenersi lontano da un duplice tentazione: quella di ricorrere a questi strumenti come una “protesi sociale” per colmarne o nascondere i deficit; quella, all’opposto, di guardare ad essi con la diffidenza di chi se ne sente in qualche modo scavalcato. La democrazia rappresentativa, sia pure alquanto sfibrata, può al contrario giovarsene e ricavarne a sua volta un empowerment rinvigorente.
Nella parte relativa all’edilizia residenziale sociale, Lei utilizza la metafora del “crocevia” o, per meglio dire, dell’hub and spoke (p. 570), ossia del mozzo e dei raggi di una bicicletta, per spiegare l’integrazione di diversi strumenti e modelli, oltre che l’integrazione di molteplici attori differenti, al fine di rafforzare la funzione pubblica oggettivizzata della promozione dell’edilizia sociale. Secondo Lei, anche in relazione ad altri settori, la scelta tra così tanti e diversi modelli può rafforzare o rendere astrattamente più complicata e confusa la partecipazione dei cittadini attivi? Non sarebbe meglio utilizzare uno strumento generale ed elastico adatto ad ogni tipo di funzione pubblica?

Effettivamente la metafora del “crocevia” è stata pensata in relazione allo specifico tema del social housing, che registra un particolare “affollamento” di strumenti e modelli; tuttavia, raccogliendo la sua osservazione, riconosco che essa è suscettibile di essere esportata, se non integralmente, almeno parzialmente, anche in altri ambiti.
Quanto al rischio che un accentuato “pluralismo” di soluzioni finisca, con una sorta di eterogenesi dei fini, per complicare la partecipazione attiva, piuttosto che favorirla (contraddicendo così lo stesso art. 118 Cost.), esso rimanda in fondo a quell’alternativa tra uniformità e differenza, o, ancor più in generale, tra spontaneismo e istituzionalizzazione, che rappresenta una sorta di “letto di Procuste” nel quale sovente ci si trova imprigionati.
Tuttavia, a parte le difficoltà che intravedo nella definizione di uno strumento generale ed elastico adatto ad ogni tipo di funzione pubblica, confesso le mie riserve verso una scelta di questo tipo, per ragioni a ben vedere analoghe – pur nella diversità d ambiti – a quelle che militano a favore di una varietà di Regolamenti comunali sull’amministrazione condivisa, calibrati sulle specifiche realtà locali, piuttosto che la riconduzione di tale nuovo modello in uno schema legislativo unitario e omogeneizzante.
Dopo tutto ciò mi pare anche conseguenza di quella “complessità” che caratterizza la realtà odierna (o, se si vuole riprendere un’espressione un po’ abusata, ma pur sempre efficace, la “società liquida” e la, parimenti liquida, modernità).

Nel suo libro, Lei declina il community empowerment in tutte le sue diverse sfaccettature. Secondo Lei, l’attuazione del principio di sussidiarietà nell’ottica di favorire una funzione amministrativa diffusa ed una co-amministrazione dell’interesse generale, implica un empowerment visto semplicemente come capacitazione, coinvolgimento e responsabilizzazione dei cittadini, oppure si potrebbe immaginare (non solo sul piano sociologico ma anche giuridico) un vero e proprio social power, ovvero un potere amministrativo di stampo collaborativo esercitato congiuntamente non solo dall’amministrazione ma anche dalla cittadinanza attiva?

Anzitutto, mi pare che le due prospettive non siano in realtà in antitesi, ma descrivano, forse con gradi diversi di intensità, o sotto angolazioni differenti, ma complementari, una vicenda unitaria.
Il mio lavoro si muove dichiaratamente nella prospettiva, propria della scuola di Feliciano Benvenuti, dell’amministrazione oggettivata, pienamente coerente con la logica che ispira la sussidiarietà.
Questa prospettiva trova il suo apice nel concetto di “demarchia”, ossia di un’estensione del centro di produzione del diritto a tutta la società, e nel riconoscimento di una “libertà attiva” del “nuovo cittadino”, che lo colloca in un rapporto paritario con l’amministrazione, entrambi protagonisti di una collaborazione reciproca nell’interesse generale.
Tale “libertà attiva” ricomprende infatti anche una “autonomia pubblica” che si esercita, per riprendere le parole di Benvenuti, «mediante poteri e atti appartenenti a quell’ordinamento che noi oggi siamo abituati a chiamare diritto pubblico»: in questo senso si può ricollegare a quel concetto di social power da Lei evocato e che pertanto mi sembra, per rispondere alla sua domanda, pienamente fondato.
Nel volume si preferisce peraltro ragionare, come ha ricordato, più che in termini di potere, in termini di diffusione della funzione amministrativa pubblica, di immedesimazione dei cittadini e della società nel suo esercizio, in ragione del riconoscimento, ora costituzionalmente riconosciuto, di una loro «capacità di amministrare», intesa come «capacità in proprio di provvedere in forma singola o associata alla cura di finalità di interesse generale» (secondo le parole di Giorgio Pastori).
Ciò segna il passaggio verso il traguardo di una “amministrazione della società” e dello stesso “diritto amministrativo” verso un “diritto dell’amministrare” proprio appunto di una “amministrazione diffusa nella società”.
Può sembrare una visione utopistica, ma a ben vedere la proliferazione dei patti di collaborazione e delle altre manifestazioni di “libertà attiva” esaminate nel lavoro sembra proprio dimostrare il contrario.

Nel suo libro, Lei analizza in maniera approfondita le esperienze straniere di community empowerment, nella convinzione che il disegno costituzionale della sussidiarietà possa essere implementato anche e soprattutto dagli impulsi provenienti dall’estero. Ha in mente uno strumento in particolare che dovrebbe essere al più presto riconosciuto e trasposto nel nostro ordinamento?

Credo che sarebbe opportuno riservare un inquadramento giuridico specifico – superando così le incertezze nella riconducibilità a questa o quella fattispecie ai fini del suo trapianto domestico – a un istituto, quello del Community Land Trust (CLT) originariamente maturato nell’esperienza statunitense e in via di trasposizione anche nel contesto europeo.
Si tratta di un istituto che già nella denominazione evoca la prospettiva del community empowerment e la sintonia con l’approccio sussidiario, ma ciò emerge poi più nitidamente sia dalla presenza di uno schema proprietario – basato sulla dissociazione permanente tra proprietà dei terreni assicurata al trust e diritti sugli edifici – che supera la dimensione proprietaria individualistica classica verso un assetto più comunitario, sia dalla struttura organizzativa e di governance che mira a realizzare una responsabilizzazione della comunità locale.
Trascendendo la sua originaria focalizzazione sull’housing affordability (corrispondente al nostro “housing sociale”), la figura si è rivelata, nelle esperienze estere, potenzialmente proficua anche nella prospettiva dei processi di riqualificazione/rigenerazione/valorizzazione delle aree, con una parabola evolutiva che, segnatamente in ambito europeo, approda a farne uno dei motori di sviluppo della comunità.
Non è un caso allora che i CLT compaiano nel Regolamento di Chieri che ne è dunque un antesignano e nel quale sono definiti come «trasferimenti di proprietà vincolati al perseguimento permanente di scopi legati all’interesse di una comunità di riferimento ed amministrata nell’interesse della medesima in modo aperto e partecipato».

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