È il caso del patto di collaborazione, denominato “La Rosa dei Venti”, dal nome del parco oggetto di cura, riqualificazione e gestione (art. 2), sito nel Comune di Livorno, stipulato tra quest’ultimo, la cooperativa Unicoop Tirreno, l’Istituto Comprensivo Bartolena, l’A.S.A. (Azienda Servizi Ambientali) e l’A.AM.P.S. (Azienda Ambientale di Pubblico Servizio). La collaborazione tra questi soggetti è ben tratteggiata e distribuita nella parte del patto relativa ai contenuti e alle attività che le parti intendono porre in essere (art. 3). Particolarmente significative appaiono le attività della capofila Unicoop, la quale intende realizzare l’Oasi urbana di biodiversità, attraverso la piantumazione di 30 piantine di essenze mellifere di 6 specie diverse (corbezzolo, mirto, lentisco, viburno, ginestra, fillirea) e l’affidamento da parte di AzzeroCO2 – partner tecnico del progetto – a impresa locale degli interventi previsti (6 sfalci delle erbe infestanti e 12 irrigazioni di soccorso; sostituzione delle piante ammalorate nei primi due anni dalla piantumazione).
Ma non solo. La stessa cooperativa si impegna a realizzare progetti educativi, iniziative, eventi di educazione ambientale e alla cittadinanza, rivolti principalmente alle classi di ogni ordine e grado delle scuole della città di Livorno e a promuovere, insieme all’Istituto Bartolena, collaborazioni e lavoro di rete con enti, istituzioni e associazioni sul tema della sostenibilità ambientale, della tutela della biodiversità e della cittadinanza attiva. Tutte le parti si impegnano ad operare in uno spirito di leale collaborazione e di sostanziale parità per la migliore realizzazione delle attività, conformemente al principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118, ultimo comma, cost.). In questo quadro, alcuni aspetti del patto in commento destano particolare attenzione. Per ragioni di spazio, ci limiteremo a segnalarne solo due, tra loro interconnessi: uno attinente al profilo soggettivo, l’altro al profilo oggetttivo.
Il potenziale “nascosto” delle imprese
Quest’ultimo è già emerso a grandi linee dalla descrizione delle attività della capofila, che rivelano il potenziale di risorse e capacità “nascosto” nelle organizzazioni imprenditoriali. Disperderlo significherebbe, innanzitutto, privare il modello dell’amministrazione condivisa, inteso come terreno paritario dove nascono idee di collaborazione aperta e orientata al perseguimento dell’interesse generale, di soggetti capaci di giocare al suo interno un ruolo cruciale; inoltre, svuoterebbe parzialmente di senso lo stesso principio costituzionale espresso dall’art. 118, ultimo comma, cost., laddove, con una formula ampia, chiama a raccolta tutti, singoli e associati, per lo svolgimento di queste attività. D’altro canto, che il potenziale delle imprese sia “nascosto”, probabilmente dall’attività principale di stampo economico che per loro stessa natura svolgono, è solo un’illusione: nulla osta a che l’impresa persegua, ad un tempo, lo scopo di lucro statutariamente prefissato, ed altri fini divisati, di stampo sociale, che la rendano idonea ad entrare a far parte attivamente, con mezzi e risorse proprie, di un patto di collaborazione, come avvenuto nel patto in commento, che così si pone senz’altro nell’alveo delle “buona prassi”.
Il soggetto imprenditoriale come “cittadino attivo”?
In continuità con il precedente profilo si pone quello soggettivo. Punto di partenza incontroverso è in una delle caratteristiche principali dei patti di collaborazione, ovvero la loro inclusività. Ne è che la platea dei soggetti coinvolti tende ad estendersi laddove i regolamenti stessi ricomprendono tra i “cittadini attivi” soggetti, oltre che a vocazione sociale, anche «di natura imprenditoriale» ai sensi dell’art. 2082 del nostro codice civile (cfr. art. 2, comma 1, lett. c, del regolamento di Bologna e, da ultimo, art. 2, lett. c, del regolamento di Roma), ovvero «anche con caratteristiche imprenditoriali o professionali» (cfr. art. 2, comma 1, lett. d, del regolamento di Livorno). In questi casi, tuttavia, la normativa regolamentare pone come condizione che gli stessi non ricavino vantaggi economici diretti o indiretti, o «vantaggi esclusivi dall’attività sui beni comuni» (cfr. art. 2 del regolamento di Torino), ovvero che partecipino ai patti «purché non operanti, nella fattispecie, con scopo di lucro oppure anche a solo scopo promozionale o pubblicitario» (cfr. art. 2 del regolamento di Potenza) o «purché nella dimensione della responsabilità sociale e non nell’attività di profitto» (cfr. art. 2 del regolamento di Roma).
Oggi, inoltre, si assiste allo sviluppo di forme di ibridazione tra attività for profit e no profit, ad una sorta di “osmosi inversa” tra soggetti economici che assumono fini e responsabilità sociali, talvolta mossi da necessità di adeguamento ai nuovi standard di sostenibilità, che segnalano con ancor più urgenza la necessità di un coinvolgimento delle imprese nei patti (la partecipazione delle imprese registra numeri ancora troppo bassi, assestandosi al 9% secondo il Rapporto Labsus 2017).
Pertanto, nulla vieta di portare sotto l’ombrello dei “cittadini attivi” anche le imprese, ma in questi casi deve prevalere il contributo alla comunità e le finalità di promozione sociale. La possibilità che venga espunta tout court o, peggio, per motivi ideologici, la realtà dell’impresa, che, in un’economia come quella italiana, significherebbe elidere le piccole e medie imprese operanti anche nel sociale, comporterebbe una perdita considerevole per l’amministrazione condivisa, in generale, e per i singoli patti di collaborazione, in particolare. Unico caveat in questo lento processo di estensione, è forse rinvenibile nell’uso ripetuto dell’espressione “cittadini attivi” riferita alle imprese. Essa, infatti, astrattamente può essere tanto evocativa se riferita ai soggetti privati che si attivano per la cura dei beni comuni, quanto foriera di ambiguità se riferita alle imprese. Senza soffermarsi sulle regioni teoriche di simili rischi, una pratica soluzione, in questi casi, per fugare ogni dubbio sull’uso distorto di tale espressione, potrebbe essere il semplice rinvio alla normativa regolamentare che autorizza e legittima l’estensione ai soggetti imprenditoriali e il ricorso ad espressioni più neutre come “pattisti”, o “parte contraente”, nell’articolato dei patti di collaborazione.
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