Nel 1980 una costituzionalista acuta e sensibile come Lorenza Carlassare affermava che «Non è facile definire la posizione dei minori nella società politica», sottolineando quanto varia e complessa sia «la serie di questioni che si pongono in ordine al peso e all’estensione della loro partecipazione alla vita politica del Paese». Richiamandosi ad una lettura sistematica e non formalistica dei principi contenuti negli artt. 2 e 3, comma 2, della Costituzione, Carlassare riteneva che fosse insufficiente ridurre il discorso alle politiche di tutela e protezione, pur fondamentali, e occorresse affiancare ad esse politiche capacitanti, guardando alle istanze di espansione e potenziamento dei più giovani. Da ciò la necessità di costruire situazioni e strumenti che favoriscano l’esercizio concreto di libertà che, pur non traducendosi in diritti politici stricto sensu (come il diritto di voto), implicano comunque comportamenti destinati a mettere anche i più piccoli nella condizione di «agire nella società, di portare il loro contributo, di esprimere scelte autonome» (L. Carlassare, Posizione costituzionale dei minori e sovranità popolare, in M. De Cristofaro – A. Belvedere, L’autonomia dei minori tra famiglia e società, Milano, 1980).
Dalle Consulte ai Patti
Nei decenni scorsi, affacciandomi con curiosità sul tema della partecipazione dei più giovani alla vita politica del Paese, avevo guardato con entusiasmo il nascere delle Consulte dei bambini e dei ragazzi. Presi parte alla scrittura di alcuni regolamenti comunali in proposito, e a vari incontri con i nuovi giovanissimi rappresentanti. Ma col tempo, via via che lo sguardo si allargava ai tanti e variegati strumenti partecipativi e alle esperienze concrete delle consulte, soprattutto quelle degli “adulti”, ho cominciato a diffidare di strumenti che replicano le dinamiche della rappresentanza. E la scarsa efficacia delle consulte, ahimè, lo dimostra.
Per i giovani, è vero, si tratta di esperienze che mantengono un alto valore formativo; e dunque esse meritano di essere incentivate e valorizzate. Ma oggi penso che la più efficace scuola di sovranità sostanziale per i più giovani sia quella che li immette in modo immediato e concreto, ciascuno con la propria testa ma insieme agli altri – grandi e piccoli – nelle vicende quotidiane del loro vivere, attraverso i beni comuni che li circondano e di cui proprio loro possono offrire nuove visioni e possibilità. Anche in questo i fatti lo dimostrano, con la creatività ed efficacia dei tanti patti di cui sono protagonisti giovani abitanti.
“Ogni centro è il centro del mondo”
Questo è quanto ho potuto constatare anche nel progetto che ho seguito in questi mesi con i giovani studenti di alcune scuole dell’Umbria, “Ogni centro è il centro del mondo”: un titolo perfetto per catturare l’attenzione rapace di un gruppo di bambini che vive a piene mani il suo quotidiano fatto di luoghi e volti amici. Ma perfetto anche per catturare la mia di attenzione, che bambina non lo sono più ma che sono andata recuperando negli anni il sapore buono dei ricordi del paese in cui sono cresciuta, dei suoi vicoli rassicuranti, delle sue piazzette teatro dei nostri giochi, degli amici, della maestra, delle botteghe, dei soprannomi…
Dietro al progetto l’idea sapiente di Angelo, della Cooperativa Frontiera Lavoro di Perugia, che conosco ormai da molti anni e che da sempre mantiene lo sguardo sui più giovani, sulle loro opportunità di prendere parte attivamente alla comunità cui appartengono, di costruire il proprio posto nel mondo.
“Rigeneriamo!”
Questa volta, il progetto che Angelo mi ha chiesto di accompagnare e che è stato finanziato dalla Fondazione Perugia, si occupa di rigenerazione e si rivolge ai giovani studenti di alcune scuole dell’Umbria, compresi fra i 10 e i 12 anni. L’obiettivo? Invitarli a pensare insieme come valorizzare o sottrarre all’abbandono luoghi a loro cari, intrecciando sguardi, camminate, idee, sogni, curiosità, sfide, racconti. Cosa può esserci di più entusiasmante?! Tanto più che si è trattato di paesi medio-piccoli, rispetto ai quali le sensibilità dei ragazzi hanno potuto sprigionarsi con grande competenza. È incredibile: sembra proprio che gli esseri umani, man mano che crescono, non solo per età ma anche per statura, e vedono allungarsi la distanza che separa gli occhi dal terreno, perdano di vista i tanti dettagli che i più giovani mantengono invece ben presenti e nitidi ai loro occhi curiosi, e a loro modo non meno esigenti. Anzi!
Città della Pieve
E così mi sono ritrovata catapultata in una girandola di incontri, di sorrisi, di domande, di ipotesi, di filmati, di disegni, che mi hanno entusiasmata. E mi hanno riempito il cuore di dolcezza anche in giorni in cui la vita adulta che mi portavo dietro non era propriamente leggera.
A Città della Pieve, con le tre classi prime della scuola secondaria di primo grado Pietro Vannucci, abbiamo parlato del regolamento sull’amministrazione condivisa, dei patti di collaborazione, delle tante esperienze che in giro per l’Italia vedono come protagonisti ragazzi come loro. Abbiamo visto filmati e immagini di luoghi progettati insieme a bambini e ragazzi, abbiamo immaginato i luoghi che loro avrebbero voluto migliorare.
Proposte di patto sotto forma di plastico!
Poi, con l’aiuto della fantasiosa e biondissima Miriam, i ragazzi hanno letteralmente progettato, in plastici bellissimi, la rigenerazione dei loro luoghi: la ludoteca, la biblioteca comunale, i campetti e i parchi di Città della Pieve, di Moiano, di Po Bandino, di San Litardo, di Ponticelli.
Panchine, aiuole di fiori, piste ciclabili in cui ogni passante deve seminare un fiore, lampioni, campi gioco polifunzionali, vie di accesso fra i campi per unire quartieri, libri per non vedenti e giochi usati per i nuovi nati, cinema all’aperto nella piazza, murales permanenti e tanto altro.
Nel giorno della restituzione avrei voluto essere il loro Sindaco, per firmare subito un patto di collaborazione con ciascun gruppo. Perché vi assicuro che le loro idee non solo erano tutte fattibili, ma davvero coglievano nel segno ciò di cui quei luoghi hanno bisogno. E nei loro plastici sembrava già di vederli, fin nel minimo dettaglio! C’era con me anche Barbara, ex assessore alle politiche sociali che proprio lì a Città della Pieve aveva voluto il regolamento già nel dicembre del 2014 e curato i primi patti: è stato uno scambio fittissimo ed entusiasmante di consigli e di riferimenti ai luoghi. Credo che a molte persone di Città della Pieve, quella mattina, siano fischiate le orecchie, mentre parlavamo coi ragazzi degli adulti che potrebbero essere coinvolti nella proposta di patto da presentare al Comune. Il nonno falegname, il gestore del bar vicino al campetto, il concessionario come possibile sponsor, il parroco della chiesa vicino al parco…
Questo Comune, come moltissimi altri in Italia, vedrà tra pochi giorni una nuova amministrazione: mi piace pensare che una folla di giovanissimi abitanti si presenterà con le loro ben 10 proposte di patto, per portare la loro piccola ma grande rivoluzione colorata.
Montecastello di Vibio
Chi conosce questo piccolissimo borgo vicino a Todi, certamente, lo conosce perché vi si trova il Teatro più piccolo del mondo (almeno così si dice). Un vero gioiello. Ma un altro gioiello, che neanche io conoscevo, è la scuola primaria 2 Giugno affacciata su un panorama che rapisce: una classe quinta e un’interclasse, con bambini di seconda terza e quarta.
E prima ancora di proseguire devo dirvelo: se non lo avete già fatto, correte a vedere il film “Un mondo a parte”, uscito nei cinema all’inizio di quest’anno per la regia di Riccardo Milani e con degli interpreti strepitosi: non soltanto i due protagonisti (Antonio Albanese e Virginia Raffaele), ma i bambini e gli abitanti di un paesino sperduto dell’alta val di Sangro, nel cuore del Parco nazionale d’Abruzzo. Cercatelo e vedetelo.
Per me è stato come vivere una specie di allucinazione, perché tutto corrispondeva a ciò che pochi giorni prima avevo vissuto nella scuola di Montecastello!
Quando si parla di aree interne e di spopolamento, di scuole a rischio di chiusura, la mente va in genere a luoghi sperduti, a territori aspri, disagiati. Difficilmente si immagina che quelle realtà possano esistere anche in zone dove la natura è generosa, dove il turismo non manca. Come in questa parte dell’Umbria.
Eppure, nelle lacrime della Sindaca uscente durante il filmato in cui i bambini raccontavano il loro progetto di rigenerazione del bellissimo percorso panoramico che gira intorno al borgo partendo proprio dalla loro scuola, in quelle lacrime c’erano tutta la rabbia e l’incapacità di arrendersi di fronte a chi brandisce la scure della crisi e della mancanza di risorse per sostenere la folle idea di chiudere la scuola.
Un patto in erba… e fiori
Le cose che ho sentito dai bambini di quella classe quinta raccontano una storia diversa. Le idee per migliorare la Passeggiata del Toppo, i ricordi assorbiti dalle loro famiglie sui luoghi e sui personaggi del paese, la storia del cagnolino Milo amato da tutti e al quale è stata dedicata una piccola statua su una delle panchine della passeggiata, il desiderio di piantare fiori e accogliere i turisti in un punto di osservazione con dei nuovi cannocchiali, ecc. ecc.: tutto questo racconta di una scuola che è fisicamente – e non solo simbolicamente – avamposto di una striscia di terra (la Passeggiata del Toppo, appunto) tanto breve (la si percorre in dieci minuti) quanto lunga l’intera vita delle persone che vi abitano, come testimoniano anche i racconti e gli occhi lucidi dei più grandi.
Perché alla presentazione del progetto dei bambini, con foto, plastico e disegni oltre al filmato, erano presenti questa volta anche molti genitori. E una mamma, durante la divertente merenda a seguire, ci ha detto che alcuni di loro si sono accordati per aiutare la realizzazione delle proposte dei bambini. Eccolo, un altro patto di collaborazione in erba. In “erba e fiori”, è proprio il caso di dirlo.
Tavernelle
È stata poi la volta della scuola primaria Don Milani di Tavernelle, dove un’altra classe quinta non ha esitato a decidere all’unanimità quale fosse il suo bene comune: il parco dei caduti di Nassirya, a cui si accede dalla scuola attraverso dei ponticelli che ne fanno un luogo quasi magico. Una magia che tuttavia non sembra essere stata percepita dagli adulti, amministratori e abitanti, che lo hanno semplicemente dimenticato. Anzi, come si scopre dalle divertenti interviste dei bambini, molte persone del paese neppure lo conoscono. Anche in questo caso, con l’aiuto di disegni, foto e video e dell’abile Romina, i bambini hanno pensato, discusso, disegnato, camminato, ipotizzato. Piccoli amministratori possibili. “E’ vero che il parco è del Comune… però è anche nostro!”.
E allora eccola l’esplosione di idee, dalle staccionate rinforzate e colorate alle piante aromatiche, dalle panchine nuove alle altalene in sicurezza, dalla cannella dell’acqua accanto al monumento ai caduti allo spazio per i cani. E io che mi ritrovo, un po’ commossa e un po’ infervorata, a dire loro “Vi prego, ragazzi, non mollate! Ora che lascerete questa scuola per proseguire in un’altra, non mollate questo progetto, tartassate il Sindaco, i genitori, altri abitanti. Gli adulti sono più pigri di voi, ma di fronte alle cose belle e possibili a volte si risvegliano! E vedrete che molti vi seguiranno…”. Ingenua? Un po’ patetica tipo vecchia zia nostalgica vittima dell’improvviso caldo afoso del pomeriggio?
Gioco? Si, ma non come gli altri
Non lo so. L’unica cosa che so è che tornerò fra qualche tempo in quei luoghi. Sono curiosa di vedere, di scoprire se qualcuno di quei ragazzi ha tenuto duro, e con loro qualche adulto che abbia fatto la differenza. Lo spero tanto. Perché mentre la guerra incombe, mentre le persone arrancano fra crisi reali e crisi strumentali, mentre i diritti sociali languono fra nuove povertà e vincoli di bilancio, mentre i territori e le comunità sono storditi dalle contraddizioni di un discorso pubblico che ne decanta la centralità e il “capitale sociale” (o la più abusata e ambigua resilienza) e allo stesso tempo ne mortifica pesantemente l’autonomia e le potenzialità, mentre tutto questo accade vi è una palestra a cielo aperto che sono convinta possa generare anticorpi preziosi nei muscoli di chi erediterà questo nostro mondo complicato.
E questa palestra è la cura dei beni comuni. Per i più piccoli, certamente, è innanzitutto un gioco. Ma non un gioco come gli altri, perché anziché cimentarli in attività che simboleggiano il mondo dei grandi e ne simulano le competenze, li vedono abitanti attivi, già coinvolti nel destino e nella salute dei luoghi e dei beni che loro già “sentono” comuni. Il loro sentire immediato è qui la fonte principale di una competenza già spendibile.
Formazione? Imparare facendo
Ma non si tratta solo di un gioco. Certamente è qui in ballo anche un modo di “imparare” che segue vie diverse da quelle tradizionali: le “vie” dei borghi che queste giovani persone abitano, verrebbe da dire. Vie concrete, percorse ogni giorno, raccontate da chi è più grande, trascurate o amate, che attraverso lo sguardo dei bambini cercano di dire qualcosa anche agli adulti. Anzi, chiedono. E allora il gioco non è più soltanto un gioco. Il plastico in cui si rappresenta quel luogo con le modifiche immaginate è un imparare facendo. E se quel plastico si tradurrà in realtà, come in molti Comuni sta avvenendo attraverso i patti, allora quei giovani saranno stati fortunati perché avranno imparato qualcosa di ancora più grande: avranno assorbito, prima ancora di studiarlo sui libri, l’insieme dei principi fondamentali che caratterizzano il modello di democrazia sociale inscritto nella nostra Costituzione, fondato su pluralismo, solidarietà, partecipazione, eguaglianza, cooperazione.
Vita “vera”? Ebbene si
Ma allora, le esperienze che ho avuto la fortuna di seguire in questi mesi grazie al progetto “Ogni centro è il centro del mondo” non sono soltanto gioco, non sono soltanto formazione, ma sono scampoli di una vita materiale che, sebbene ancora giovane, si affaccia concretamente sugli orizzonti della sovranità sostanziale, imbracciando gli strumenti di una cittadinanza attiva che non ha limiti anagrafici – né minimi né massimi – per potersi esprimere.
Loris Malaguzzi, grande pedagogista emiliano del secolo scorso, ci ha lasciato in eredità la convinzione che la scuola sia (debba essere) un cantiere aperto e laboratoriale nel quale i processi di ricerca tanto dei bambini quanto degli adulti s’intersecano fortemente e, nello stesso tempo, si arricchiscono reciprocamente. Egli affermava che «i significati e le finalità della gestione sociale sono parte significativa e unitaria delle scelte di contenuto e di metodo del progetto educativo». Erano gli anni ’70, un tempo in cui il filo rosso della partecipazione sembrava davvero poter divenire l’asse portante della democrazia sociale come prefigurata nell’art. 3, comma 2, della Costituzione: consigli di quartiere, consigli di fabbrica, consigli di gestione. «La gestione sociale – sostiene ancora Malaguzzi – è la forma organizzativa e culturale con cui si riassume l’insieme di quei processi di partecipazione, di democrazia, di corresponsabilizzazione, di approfondimento dei problemi e delle scelte che appartengono a ogni istituzione e che trovano sintesi e arricchimenti di orientamento sia nei momenti di collaborazione e interazione con i Consigli di Circoscrizione, sia in sede di confronto e di definizione politica più generale nell’organismo di Coordinamento Comunale dei Consigli di Gestione che è il massimo organo elaborativo e consulti vo dell’Amministrazione della città. Le sue finalità sono conseguibili attraverso un ampio patto di volontà e convergenza ideali e strumentali da parte delle famiglie, degli operatori scolastici, degli amministratori e politici che hanno competenza sull’intera iniziativa» (L. Malaguzzi, La gestione sociale come progetto educativo, 1982).
Ebbene molte cose sono cambiate, ma di questo pensiero rimane profondamente il senso: l’idea del “patto di volontà”, di alleanze rivolte all’interesse generale. Oggi, grazie alla visione della scuola stessa come bene comune, non solo in sé ma in quanto laboratorio proteso verso l’esterno, e al nuovo strumento dei patti di collaborazione, quella “gestione sociale” di cui parlava Malaguzzi può tradursi in azioni di cura e di cittadinanza concreta capaci di sprigionare le risorse e le capacità di un ulteriore e preziosissimo pezzo di società: i più giovani.
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Immagine di copertina: Robert Collins su Unsplash